Di Latifa e della bicicletta che la porterà in Marocco

«Se penso al Marocco, penso a qualcosa di speciale, ma, se penso a casa, penso all'Abruzzo. Qui c'è l'aria che ho sempre respirato, l'acqua che bevo tutti i giorni e la Maiella da guardare da lontano, da ogni prospettiva. Il Marocco è la mia radice, la mia origine. È menta, zafferano e cannella, l'ocra delle sue città, il rosso, le montagne innevate, l'azzurro del mare oppure il blu di Chefchaouen, una città in cui ogni casa, ogni porta, ogni finestra è blu. Il Marocco è il mio nome arabo e il mio cognome che sa di un'altra terra». Latifa Benharara dice così, lei che è nata e cresciuta a Sulmona da genitori di Casablanca. Latifa che è giornalista, dipinge, viaggia molto, scrive ancor di più ed è direttore di corsa. Una specie di missione quest'ultima perché c'è un dovere di restituzione nelle cose che accadono. La bicicletta è una parte importante del suo mondo «ma senza sicurezza la bicicletta è un'immagine che sfuma sullo sfondo, cosa faranno i bambini di domani, cosa faranno i giovani di oggi? La sicurezza viene prima di tutto, nelle gare e fuori. Mettersi a disposizione della sicurezza significa mettersi a disposizione delle biciclette. Quelle di oggi e quelle di domani».
Italia e Marocco, due culture, tanta strada in mezzo e molto altro. Un giorno, in bicicletta, Latifa ci ha pensato: «E se potessi arrivare a Casablanca in bicicletta? Se potessi sentire la musica di quella città, le sue persone e le sue spezie dopo aver pedalato da casa fino a lì? Come sarebbe tutto questo?». Quando Latifa era ancora bambina, i suoi genitori lavoravano ai mercati generali e avevano un furgone che in estate diventava un camper e, in tre giorni, li portava in Marocco. Più di 3000 chilometri, ora come allora. Oggi, però, quei chilometri Latifa Benharara li percorrerà in bicicletta, attraverso strade secondarie, attraverso quattro nazioni. Poi andrà oltre, fino alle porte del deserto per altri mille chilometri, fino alle porte del Sahara. Circa cento chilometri al giorno, circa 40 giorni. Si chiama "From Maiella to Sahara Bikelife Experience".
«In alcuni stati arabi andare in bicicletta può essere un problema per una donna e questo non è giusto. Non solo lì però. Per altre ragioni accade spesso che una donna non si senta a proprio agio in sella o in un viaggio da sola. Si tratta della società. Sono stata in Nepal, in India, in Cina, con uno zaino sulle spalle e tanti passi nelle mie scarpe. Le donne hanno voglia di avventura, di fatica, di scoperta e per tutto questo hanno molto più coraggio che paura. Penso ad Alfonsina Strada, penso a tutto il tempo che è passato, alle cose che sono cambiate e a quelle che ancora devono cambiare. Lo dobbiamo a persone come Alfonsina e a noi stesse». Quattromila chilometri e la bicicletta che unisce incontro e comprensione: attraverso il sudore, il far fatica, si diventa tutti più aperti a capire. La fatica permette di capire, mette in ascolto. E quando si è in mezzo alla natura questo ascolto è amplificato, fuori da ogni schema sociale.
«Avete mai fatto caso al rapporto che hanno i bambini con la bicicletta? Sembrano intendersi senza bisogno di spiegarsi, anche se cadono e si sbucciano le ginocchia. Non hanno paura. Ricordo il giorno in cui insegnai a una bambina l'equilibrio delle due ruote; ricordo come rideva, come mi abbracciava. Come io abbracciavo lei. Credo sia una sorta di istinto». Così, quel viaggio ora non riguarda più lei sola, ma tutte le persone che ci credono e chi vorrà provare ad affiancarla per qualche chilometro perché «chi non conosci e incontri per caso è spesso prezioso. Non bisogna temere chi non si conosce, semmai bisogna aver voglia di conoscere».
Poi ci saranno le offerte che chiunque potrà fare e serviranno a quel futuro della bicicletta, ai bambini che stanno imparando a pedalare e a quelli che immaginano una bicicletta nel loro lavoro: «La realtà è che ci sono famiglie che non possono permettersi di comprare una bicicletta ai loro figli, che non possono mandarli a una scuola di ciclismo. Serve una possibilità per loro, un'altra possibilità». Strada, strada, strada e ancora strada e una voce che si increspa, quella di Latifa che pensa ai genitori: «Forse questo viaggio ricambierà un poco tutto ciò che loro fanno e hanno fatto per noi. I loro sacrifici. Vorrei accadesse. Anche per questo non ho paura, anche per questo ho imparato a essere coraggiosa. E il coraggio ha a che vedere con il bene, con la passione». Di tutte le cose che vorremmo dire, ora bisogna dirne solo una. A voce alta: "Buon viaggio". Lì c'è tutto.