La vittoria di Oldani attraverso i sensi di Genova

Un silenzio particolare cala sul traguardo di Genova mentre Stefano Oldani, Lorenzo Rota e Gijs Leemreize imboccano il viale in leggera pendenza che li porta al traguardo. È quel silenzio che si può distinguere anche in mezzo a tanto rumore, quello degli occhi che, mentre scrutano per capire cosa accade, sembrano inibire la parola. Uno strano legame di senso. La città brulica ma la gente, per qualche attimo, guarda solo senza fare nulla.
E sono gli occhi a cercare, abili segugi. Stefano Oldani controlla Leemreize e risponde ad ogni attacco, ad ogni anticipazione di tempesta, poi parte e non lascia a Lorenzo Rota che la possibilità di seguirlo senza quasi poterlo affiancare. Ci siamo chiesti spesso cosa si provi quando ci si sente impotenti in sella, quando vai ma non vai, quando il movimento non è fuga, salvezza o ritorno, ma condanna, asfalto che trattiene, calura che scioglie. Rota, dopo una giornata in fuga, deve avere provato questo.
Oldani vince, si sdraia a terra, si mette su un fianco, quasi a dare aria ai muscoli e piange. È lì, sdraiato e accerchiato da fotografi e giornalisti: non si vede nulla, solo un insieme di persone che guardano, qualcuno lo applaude con le mani sopra la testa. Notiamo una ragazza, dall’altro lato delle transenne, che si abbassa e guarda sotto, nello spiraglio delle transenne e in mezzo al groviglio della gente. Lei ha voluto e potuto vedere solo così Oldani, dopo la vittoria. Lei ha cercato di vederlo così, nelle fessure, nelle pieghe, nel caos. Sono gli stessi occhi segugi, quelli che hanno fatto silenzio in mezzo al rumore. Quelli di cui il ciclismo è pieno.
Pensate alle bandiere dell’Eritrea stamattina a Parma e questo pomeriggio a Genova. Verrebbe da chiedersi perché così tante proprio ora che Girmay non è più qui. Noi lo chiediamo e ci chiedono se davvero crediamo non sia possibile tifare per qualcuno che non c’è, poi aggiungono che quella è la bandiera dei vincitori. Una bandiera legata a un ramo, chissà se di un albero di queste zone o di chissà dove, con un pezzo di cartone attaccato sopra: «Forza Eritrea!». Una piccola lezione: basta strappare un pezzo di cartone, un pennarello, un appiglio e puoi dire a tutti ciò che pensi, quello in cui credi.
Nella giornata delle fughe, nella giornata in cui si è passati dal Passo del Bocco, quella in cui si è ricordato Wouter Weilandt e il suo numero che non è più solo un numero, le persone a Genova hanno usato tutti i loro sensi per arrivare anche dove non si può o dove si credeva di non potere. A costo di sdraiarsi per terra e sbirciare da una transenna fra i passi dei tanti fotografi: la vittoria di Oldani è bella anche da lì.


La festa di Filottrano e Girmay

L’arco che porta al centro di Filottrano conduce ad un’altra dimensione: la festa. Qui usano molto questa parola: «Facciamo festa» e apparecchiano un tavolo con bicchieri e piatti di plastica, pane, salame e una bottiglia di vino rosso. Insieme. Si aprono le porte dei negozi per far spazio a più persone sul ciottolato del centro e la corsa è davvero ovunque. Un universo parallelo legato al paese come i palloncini che vengono liberati al passaggio del gruppo, che sono legati ai polsi delle persone ma, in realtà, sono le persone a essere legate a quei palloncini. Per come li guardano mentre orgogliose li lasciano volare via e vi dicono: «Questo è il mio paese».
Parlare di Michele Scarponi è difficile o forse sin troppo facile. «Era come noi» ed oggi ci sembra più vero che mai. Perché abbiamo rivisto queste persone mentre fanno un occhiolino, mentre guardano la corsa in un bar e non riescono a non commentare, mentre gesticolano, anche mentre dicono tutto in maniera così spontanea che ti chiedi se, poi, non sia più semplice. Persino nelle rughe di espressione che ricalcano le forme che il viso prende spesso: il piacere e la fatica. Mentre gridano per l’arrivo del gruppo che è ancora lontano ma chiunque passi lì in mezzo si sente atteso. E Pavese aveva ragione: da ragazzi si può pensare che il proprio paese sia il centro del mondo, girando tanto, poi, ci si accorge che tutti i paesi sono così perché il mondo è fatto di paesi. Quanto ti eri sbagliato? Quanto avevi ragione?
Il gruppo va via da qui mentre poco più in là, nei bar, si parla della fuga ripresa e i ragazzini prendo i gelati e li scartano in piazza. I giornali sui tavoli, aperti, spalancati e sfogliati e il classico odore della carta assieme al suono della lattina Coca Cola che viene aperta. «Vuole vincere per Michele» dice il proprietario quando Nibali prova ad allungare. «Gliel’ho detto io» aggiunge indicando la moglie. E appena scatta qualcuno ci si mette in punta di sedia, si appoggiano i gomiti sul tavolo e si proietta il corpo in avanti, come un ciclista su una salita, meglio su un muro o uno strappo da queste parti.
Lo stesso accade sul bancone del bar mentre Biniam Girmay parte in volata e Mathieu van der Poel gli prende la ruota. Sembra quasi un percussionista van der Poel, un percussionista che per unico strumento ha la bicicletta, insiste e si gasa mentre il suo viso prende proprio la forma dello sforzo. Deve cedere prima del tempo perché Girmay è sempre più avanti e qualunque movimento sembra inefficace. Cede alla sua maniera: quella degli attacchi folli, delle imprese incredibili, dei colpi geniali e delle batoste. Si siede e alza il pollice: «È tua». Poi lo abbraccia.
Si parlava di paesi. Asmara, la città natale di Biniam Girmay, è certamente più grande di Filottrano ma è comunque un paese, una città, e somiglia agli altri perché ti permette di essere aspettato, di riconoscerti, di riconoscere.
Accade a Girmay, il primo ciclista africano di colore a vincere una tappa al Giro d’Italia, che nei suoi tifosi riconosce le sue stesse epressioni, i modi di fare e persino di gioire. Accade a Filottrano, in cui, dopo la corsa, le persone tornano al lavoro e lo fanno con la stessa dignità, lo stesso orgoglio, con cui hanno festeggiato. Insieme. E chi manca, nel paese, è atteso e non manca mai del tutto.


E tu sai ca' nun si sulo

I suonatori di chitarra in via Caracciolo suonano le prime note di “Napule è”. Solo musica, le parole arrivano da chi passa ai lati della strada e fischia o canticchia. Ad un certo punto, il testo dice “E tu sai ca' non si sulo”, noi ci pensiamo accanto al fruttivendolo che mostra la verdura e la descrive, alla pasticceria e a quei “babà” su piccoli vassoi che girano per i Quartieri Spagnoli, alle mani infarinate di un pizzaiolo che torna a casa ancora così, di fretta, al piattino del caffè che sembra un’opera d’arte. Ci sono loro e quelle voci che non si fermano mai.
Voci e maglie azzurre, alcune in tessuto vecchio, con un numero, l’unico che ha senso: il dieci, che è un numero è una persona. Mentre Mathieu van der Poel va via subito, scatta, quasi una burrasca vederlo partire così presto. Lui a queste cose è abituato, come ad andare via mentre mangia un panino. È abituato a sentire il suono della ruota che insegue come va davanti al gruppo.
Non sappiamo se Girmay, che va via con lui e gli altri, avesse mai visto Napoli prima di oggi. Non sappiamo se ha sentito come tutti qui storpiano il suo cognome ma lo gridano forte, lo cercano. E le bandiere del suo paese sono arrivate anche qui e sventolano senza arricciarsi, mentre lui e van der Poel nel finale si gettano da soli all’inseguimento di De Gendt, Gabburo, Arcas e Vanhoucke e quasi li riprendono. Loro sono i contrattaccanti: coloro che attaccano nell’attacco, le ruote che van der Poel sente inseguire, poi vede andare e si trova a inseguire a propria volta.
Proprio in quel momento una signora belga, si affaccia a una transenna e chiede: “van der Poel?”. Chiede di lui per sapere di De Gendt, chiede di lui perché se rientra sono problemi per tutti. È lei la prima a gridare Thomas dopo il traguardo. O forse semplicemente lo grida più forte perché la sua voce arriva prima. Prima che De Gendt scenda dalla bicicletta, abbracci Vanhoucke, inizi a sospirare e vada a sedersi su una sedia nel tendone giornalisti. Una sedia bianca del tipo di quelle che si trovano fuori dalle case nei borghi al passaggio del Giro.
Mani sul volto, mentre tutto lo fotografano, lo cercano, chiedono. Lui, la personificazione della fuga, dell’essere soli. Lui che oggi che non era solo, ha vinto e al traguardo si è allontanato da tutti cercando quella stessa solitudine mentre qualcosa dentro cercava di uscire.
In fondo, il Vesuvio che a Napoli è anche un punto di riferimento per indicare le strade. È “il vulcano”, come “il dieci”, come “il fuggitivo”, tutto quello di cui vi abbiamo parlato e quelle voci che arrivano anche all’interno dei locali. Punti di riferimento e “tu sai ca’ nun si sulo”.


Le infinite possibilità di Démare e Rosa

Se potessimo farvi sentire le voci dei tifosi dietro le transenne, dopo l'arrivo, vi faremmo sentire solo quelle perché non serve molto altro per comprendere la giornata di Scalea. Solo voci, nemmeno un'immagine, e potreste capire. Solo un "assurdo" e potreste capire. Assurdo com'è assurdo che tanta noia e tanta adrenalina si trovino nello stesso posto. E via a una lunga serie di considerazioni su chi l'ha spuntata, Ewan o Démare: non saperlo, sembra ancora meglio, perché lo si chiede a chiunque e si mostra la propria visuale sul traguardo che la conferma o smentisce. Qualcosa che continua anche dopo la certezza che a vincere è stato Démare, perché, dove c'è stato il dubbio, c'è la possibilità di vedere altro. Abbiamo capito così che l'assurdo ci fa bene.
Proprio quello che non sai spiegare. Come si spiega a un americano il significato della parola "Terún"? Innanzitutto non avendo paura di chiamare qualcosa con quel termine: una squadra, un ristorante ma potrebbe essere altro. Franco e Rossano lo hanno fatto. Succede così che le parole difficili, quelle che si portano addosso un significato complesso, cambiano volto e portano l'orgoglio di chi sei.
Potremmo chiamare un fuggitivo a spiegare l'assurdo, perché le fughe sono una sorta di apologia dell'assurdo, una difesa, un'arringa. Ci ha fatto riflettere chi si è chiesto cosa sarebbe stata la noia di oggi se non ci fosse stato Diego Rosa all'attacco? Allora qualcosa di apparentemente inutile, come una fuga in solitaria in un tappa dal finale scontato, è in realtà utilissimo perché cambia tutto. Il punto è che senza assurdo non ci sono le possibilità e senza le possibilità anche il ciclismo è più povero. Le possibilità che, poi, sono dietro il significato del sorriso di Diego Rosa quando intuisce il gruppo alle spalle e ognuno può leggerci ciò che crede. Noi vogliamo vederci la soddisfazione per essere riuscito a fare ciò che ha fatto: innanzitutto è stato l'unico a farlo e già questo dice molto. Gli atti di coraggio si fanno più facilmente in compagnia, perché, per quanto siano assurde le tue ragioni, almeno non sei solo. Quando sei anche solo la faccenda è ancor più complessa.
«Nonostante l'età e il mal di gambe sono ancora riuscita a scendere da casa e venire qui» ha detto una signora in fondo al viale del traguardo. Nonostante che è la preposizione dell'assurdo, del coraggio, di quando fai una cosa malgrado tutto direbbe il contrario. Succede in volata, chiedete a Démare e Ewan, succede in fuga, ma soprattutto succede a tutti e per il ciclismo è questo l'importante.


Juanpe: luna bianca, luna nera

Sui crateri dell’Etna si parla di ciclismo: ci si arrampica mentre la terra nera, mista a minuscoli sassi, rotola a terra, poi si inizia a parlare. Si sale in alto per vedere meglio, ma si è disposti a scendere per cercare chi vuoi vedere, di traverso, per frenare il peso del corpo. «Se non arriva fra i primi, scendo e gli vado incontro» una sorta di regola del tifoso, di quelli che scendono mentre il gruppo sale perché cercano qualcuno che non è ancora arrivato.
Una sorta di luna nera questo vulcano che, quando cala il sole, è identico alla notte. A quella reale degli autisti di alcuni bus che per arrivare qui hanno guidato ventidue ore e stamattina sono ripartiti all'alba, a quella figurata di Miguel Ángel López che si ritira e di Tom Dumoulin che si è staccato dal gruppo ai meno nove dal traguardo. Una sorta di luna nera spazzata dal vento come un'altra luna in terra: il Mont Ventoux, bianco come la vera luna.
Bianco come la carnagione di Juan Pedro Lopez, per tutti "Juanpe", che è giovane di età e di emozioni. Lui che fugge due volte: fugge al mattino come fanno in tanti qui al Giro d'Italia e torna a fuggire mentre quella terra nera finisce nelle narici e una coppia canadese sui crateri chiede se anche i ciclisti mangino arancini. Bizzarra domanda, ma tant’è.
Fugge “Juanpe” come lo chiama anche chi non lo conosce e chiede chi sia. Supera Oldani che non ce la fa più e al traguardo viene tranquillizzato dai cronisti: “Tranquillo, Stefano. Riprendi fiato. Quando te la senti, parliamo”. Fugge “Juanpe”, viene recuperato e anche beffato sul traguardo da Leonard Kamna che quello scatto lo aveva nelle gambe da chissà quanto. Da Budapest, probabilmente. Quasi lo scatto fosse una sua proiezione, l’ombra lunga dei ciclisti che, in certi punti sembra precederli quassù. Fugge, perde, ma indossa la maglia rosa e parla con la voce che trema. Dice che lui è qui per Ciccone, che questo non cambia nulla. Anche se per lui, almeno oggi, cambia tutto, è ovvio.
Dicono che “Juanpe” si fidi di tutti in squadra e lo dicono sinceramente. Si fidi soprattutto di chi gli prepara le biciclette che, se ci pensate, è una fiducia enorme perché da lì dipende la tua gara, le sicurezze che puoi avere e le insicurezze da lasciare da parte. Noi diciamo che “Juanpe” domani riparte in maglia rosa e, anche quando tornerà a lavorerà per Ciccone, e si sposterà andando nelle retrovie, avrà tanti tifosi che gli andranno incontro, invece di aspettarlo. Luna nera o luna bianca.


Le domeniche senza Giro

Mentre il mare si agita, quasi succube di quelle nubi che i vetri del traghetto lasciano intravedere, ognuno fa i conti con il proprio tempo. Messina è ancora lontana e le cabine in cui ci si chiude a riposare troppo piccole per restarci nove ore. Si esce sul ponte, dove il fumo delle sigarette è spazzato via dal vento e ci si affaccia a guardare la spuma bianca che lo scorrere della nave lascia sul mare. La vertigine è lì, nelle mani che si stringono il parapetto e nei corpi che restano indietro, gettando in avanti solo il capo, per guardare.
Cosa sta accadendo in Ungheria, vicino al Lago Balaton, qui non lo sa nessuno. La connessione internet è assente da pochi minuti dopo la partenza e la televisione trasmette pochi canali, nessuno che restituisca qualche immagine del Giro d'Italia. Appena il traghetto si avvicina alla costa, in corrispondenza di qualche centro abitato, col segnale che torna si prova a cercare qualcosa: "Stanno andando piano, arriveranno tardi". Fino a tarda sera, è l'ultima cosa che sappiamo del gruppo. Il resto ipotesi, supposizioni ai tavoli accanto al ristorante.
Chi sale sul traghetto la domenica pomeriggio o va al lavoro o torna a casa. In ogni caso, quello è il momento in cui tutto si interrompe e, anche se stanco, scherzi. Oppure ti distendi su un divanetto e ti addormenti coperto da un cappellino. Sono i camionisti: qualcuno racconta a un ragazzo di quando, di notte, per non cedere al sonno, suona il clacson ai colleghi, si saluta, un sorpasso e via.
Il tempo sospeso è anche quello di ciò che chiunque potrebbe fare a casa, in una domenica qualunque: la Formula1, il Giro d'Italia e il televisore in salotto. Qui no e gli sbadigli testimoniano questo piccolo vuoto. Un signore, dopo di noi, chiede di cambiare canale, ma ritorna al tavolo con un pugno di mosche. Così, sul ponte, pensiamo a quante ore mancano, a chi per lavoro o per altri motivi di domeniche così ne vive tante, a chi sognerebbe di andare a vedere il Giro d'Italia passare come quando andava a scuola, ma sarebbe già felice di poterlo vedere a casa, con un figlio che fa i compiti per il lunedì e di tanto in tanto alza la testa a guardare la televisione.
Sono già passate le otto quando sappiamo che ha vinto Cavendish, dopo nove anni, a più di settanta all'ora, in volata. Cerchiamo l'ordine d'arrivo, mentre la connessione ritorna. In fondo, è sufficiente questo. Una notizia che ti arriva da una corsa di biciclette e ti ricollega alla realtà.


Dinamismi sul Danubio

Dentro agli occhi dei ragazzi sulle sponde del Danubio i ciclisti oggi non sono che un'impressione, un movimento d'aria, una macchia d'inchiostro. Un vettore che esprime velocità, per chi si intende di fisica, un pennello a scorrere su una tela per chi discute di arti. Eppure per Budapest e la sua gente basta quella frazione di secondo e quello che gli occhi credono di vedere. Sulle strade c'è tutta la gente che quell'asfalto può sopportare, tutta quella che quegli argini possono contenere.
I ciclisti sono una forma di dinamismo con tutto ciò che lasciano immaginare. Prendete Mathieu van der Poel e il suo sguardo immobile, che rende plastica la concentrazione, tanto che sembra quasi di poterla toccare, quasi avesse una forma e una consistenza. Prendete Mathieu van der Poel e il modo in cui taglia le curve, tutte le volte in cui sfiora le transenne e non le tocca: quasi vorremmo vedere quanta aria passa lì in mezzo. Voleva tenere la maglia rosa, si vedeva, si capiva. Voleva tenere la maglia rosa, ci è riuscito ed è tornato a parlarne per dire che oggi sì, non ha dubbi, nonno sarebbe orgoglioso di ciò che è, di ciò che fa.
L'orgoglio muove, è un vettore anch'esso. Guardate Vincenzo Nibali che sembra andare verso ciò che verrà, verso una terra che da qui non si vede ma è esattamente come un ciclista: torna ad ogni ricordo, per un profumo o un suono: la Sicilia. Oppure Tom Dumoulin che voleva tornare in Italia, al Giro, per cambiare ricordi. Sembra di risentire le voci che lo chiamavano sotto la pioggia di Frascati al Giro d'Italia del 2019 e quella mano che si alza, prima per salutare, poi per arrendersi, per ritirarsi sotto il peso del dolore.
Anche Simon Yates, oggi, era il dinamismo di un ciclista. Veloce, molto veloce, più veloce di tutti, persino di quello scatenato di van der Poel. Lui che, qualche anno fa, proprio al Giro, a Bardonecchia, è arrivato sfinito, stanco, in crisi: con dignità estrema e una punta tagliente di amarezza, di tristezza contenuta. Mentre Froome era quello stesso dinamismo, in salita, da lontano: talmente bello da sembrare impossibile.
Ed è così che Yates che vince la cronometro di Budapest è anche e soprattutto un uomo e la sua velocità, la possibilità di andare più forte e quasi di non essere visto da nessuno, sebbene le strade siano colme. Chiunque abbia provato a fare fatica su una bicicletta sa quanto sia bello tutto questo. Adrenalina pura.


The Traka: Morton e De Marchi, uomini e idee in fuga

Fa quasi effetto dirlo, eppure sabato l'abbiamo ripetuto più volte: "Lachlan Morton e Mattia De Marchi soli in testa a The Traka". Chi era sulle strade di Girona, l'ha vista questa fuga, questo coraggio nell'andare via, lontano dagli altri, che è poi ciò che nel ciclismo si cerca sempre. Questo staccarsi dal gruppo, dalle sue abitudini, dalla sua "pancia", dalla sua protezione, dal sentirsi sicuri, che prima ricerchi e poi, con l'anima del ciclista, respingi per ciò che ancora non conosci.

Due uomini, in realtà due idee, perché le idee assomigliano ai ciclisti e a tutti i loro chilometri, anche a questi 360 tra strade gravel, single track, salite, discese, curve e tratti tecnici. Le idee che nascono in un luogo chiuso, protetto, isolato, e che hanno questa spinta ad uscire fuori, a partire in fuga, anche se le ributti indietro, per volontà tua o di altri.
Lachlan Morton, Mattia De Marchi e i loro sguardi che cercano punti diversi da guardare per andare avanti, mentre il sudore appesantisce capelli e barbe e imprime il segno del casco. Da soli, davanti a tutti, in questo caso. Due idee che sono poi la stessa idea: un essere umano che parte in viaggio su una bicicletta è più vero che mai. Perde ogni maschera, molto pudore, non nasconde la fatica, il dolore, la felicità, non nasconde se stesso aspettando chissà cosa.

Pensiamo all'acqua che hanno bevuto, a quella che si sono spruzzati addosso, per il caldo o per levarsi di dosso la colla naturale che il sudore e la polvere costituiscono per intrappolarti. Al cibo che hanno mangiato, al pranzo dei ciclisti, a come le mani stringono quel cibo, alla pasta, al sugo, al ragù, a quel sapore che devi essere "finito" per tornare a sentire come la prima volta dopo esserti abituato. Alla fatica, alle smorfie, a qualche imprecazione: a quelle di Morton quando ha visto De Marchi andare via e si è ritrovato bloccato da un incidente meccanico. Tutto fuori, tutto allo scoperto.

È la loro idea: di De Marchi che vince per la seconda volta a "The Traka" e in tredici ore macina tutti quei chilometri, di Morton che arriva secondo e di tutti quelli dietro di loro. È l'idea dei ciclisti, un'idea in fuga come tante altre, per cercare qualcosa. Può essere un prato dove buttarsi, un getto d'acqua più forte per prendere a sberle la fatica o tutto quello che pensate vi serva. A loro serviva tutto questo e sono andati a prenderselo.


Sempre la stessa: intervista a Marta Cavalli

La sera della Freccia Vallone, dopo la sveglia alle cinque e mezza del mattino, la gara e la vittoria, a mezzanotte Marta Cavalli non riusciva ancora a prendere sonno. In quel momento, nel letto, si è detta diverse cose che forse avrebbe voluto dirsi da tempo senza mai trovare il tempo. Una soprattutto: «Sei fortunata, Marta».
C'è molto dietro quella frase e per questo da quella frase siamo partiti. Un giorno ne parleremo anche con Brodie Chapman, ad esempio. Perché anche di Brodie parla Marta. «Avete visto quanto ha lavorato per me? Per chi vince è più facile, le energie, quando vinci, ti tornano chissà da dove, lei ha solo faticato tutto il giorno. Dove ha trovato la forza per scavalcare quelle transenne e venire ad abbracciarmi alle interviste? Per essere così felice per me, perché Brodie era più contenta di quanto lo fossi io». Marta Cavalli che in squadra vuole essere semplicemente una ragazza fra le altre perché «abbiamo solo un ruolo diverso, io concretizzo e loro mi accompagnano a quel momento. Siamo trattate tutte allo stesso modo, perché a livello personale non c'è e non deve esserci differenza».
Così è capitana, così è leader. Qualcosa che le hanno riconosciuto le compagne, forse anche per merito di quel carattere timido che la porta a restare semplice e a evitare l'inganno più grande: scaricare le colpe sugli altri. «Io ho visto come hanno lavorato le mie compagne e sono certa che non si lavora così solo per una capitana, non si lavora così solo per lo stipendio. Si lavora così per le persone in cui credi».
Pensare che prima dell'Amstel si sentiva la gamba un poco imballata, solo pochi giorni prima al Fiandre era quasi rimasta male per non essere riuscita a fare la gara che aveva pensato. Quella sera al telefono col padre aveva detto: «Pensa a chi vincerà e si prenderà quel boccale da dieci litri, come si fa a bere così tanta birra?». E lui: «Se la vinci, qualcuno la berrà, non preoccuparti». Per chi crede nei segnali, un segnale. Come quella cuffia per il freddo indossata al contrario alla partenza e le parole al suo direttore sportivo: «La giro. Pensa, magari vinco solo una gara in carriera e pure con lo sponsor al contrario. Che figura!». Anche ironica perché, poi, la timidezza è anche ironia.
In squadra l'avevano capita a tal punto che, quando ai cinquanta chilometri dal traguardo, aveva detto di non stare bene, l'avevano subito tranquillizzata: «È un fatto mentale. Stai calma e fai il tuo». Poi l'istinto, quello di partire nel tratto di cui spesso aveva parlato con il direttore sportivo, come chi non ha nulla da perdere, perché «non c'è stata programmazione, solo sensazioni». E quella radio che, a un certo punto, grida: «Mi dicono "è il tuo momento" e io vado, so che tocca a me. Questa è la squadra». Ai trecento metri aveva capito che avrebbe vinto e quei metri sono stati "un appagamento totale, una goduria".
Qualcosa di simile a queste mattinate, quando, appena sveglia, cammina per le camere con un piacere che non ha mai provato. Poi apre i social e vede tutti i messaggi che le persone le scrivono, la loro vicinanza. «C'è una distinzione da fare: c'è chi ti scrive perché ti ha visto in televisione e chi, invece, perché ti ha conosciuto e si ricorda ancora di te, ti ha sempre scritto anche se non stavi vincendo. Il secondo è un piacere particolare, una parte del senso del fare questa vita».
La vita del ciclista: «Ho imparato a non dire che è un lavoro difficile perché so che non ci sono lavori facili, ma, di certo, è un lavoro che chiede tanto. Ho il telefono sempre scarico perché sto rispondendo a tutti coloro che mi cercano. Non mi interessa essere una vincente se questo mi cambia e non mi fa più rispondere a chi mi cerca, se mi allontana dalle persone che mi hanno cresciuto. Voglio restare quella che sono». Quella che avrà già rivisto quindici volte gli ultimi metri della Freccia Vallone, rimanendo stupita da quello che ha fatto, dalla lucidità, da quel sorpasso ai danni di Annemiek van Vleuten. L'olandese l'ha cercata dopo l'arrivo: «Quando ti ho visto distante qualche metro, ho pensato che avrei potuto batterti, non ci sono riuscita. Sei stata brava». È stata brava davvero e questa volta Marta se lo dice anche da sola: «Non era facile sapere l’attimo in cui partire. La fatica non ti fa capire più nulla, tutti i rumori che hai attorno quasi ti impediscono di ragionare. In quell’istante non ho sentito più nulla. Ero sola, col mio momento».
Le è successo anche di leggere un post che suo padre le ha dedicato: «Papà ha tanti sentimenti, è un uomo molto sensibile, ma li trattiene, non li mostra davanti a tutti. Il fatto che abbia scelto di farlo ha un valore particolare per me». Dopo mesi fuori casa, poi, quelle parole hanno significato ancora di più. E Marta pensa a quando tornerà a casa, a quando lascerà la valigia da un lato e spegnerà il telefono: «In quei locali ci siamo solo noi quattro. Noi che prepariamo il pranzo o la cena, che stiamo sul divano o che usciamo a mangiare una pizza e siamo gli stessi di sempre, qualunque cosa accada».


Istanbul aveva un appuntamento

L'autobus era appena entrato a Istanbul, sabato sera, in mezzo al traffico. Quando Zanoncello, Colnaghi e Tarozzi, guardandosi attorno, consideravano: «Ci pensate? Domani tutte queste persone saranno ferme per noi». Un ciclista ci pensa quando arriva in una città nuova, pensa alle persone che ci sono, a chi ci sarà a guardarlo, a cosa penserà. Ieri ancor di più, perché ieri è stato l'ultimo giorno. Lo sapevamo già, ma ce lo ha ricordato all'alba, col vento che strapazzava gli alberi al parcheggio, l'autista che ci ha accompagnato per tutta la settimana nelle varie città: «It's the last day». Poi ci ha messo la mano sulla spalla: «Call me». E siamo sicuri che tornati in Italia, in Spagna, o chissà dove qualcuno gli telefonerà.
Istanbul ieri aveva un appuntamento a cui teneva particolarmente perché il gruppo, che da poco sta volando sopra qualche altra città, si ritroverà a breve, ma ci vorrà tempo perché ritrovi Istanbul e perché Istanbul lo ritrovi, mentre i pescatori si accalcano lungo il viale e i cani inseguono un furgoncino nel centro. Mentre là, in fondo, l'orizzonte è foschia, come quando deve piovere.

E piove, piove dopo dieci chilometri, poche gocce, pochissime, ma quell'asfalto, quello liscio turco, quello che vi abbiamo descritto più volte, fa cadere, sbandare: i corridori, le ammiraglie, persino noi, a piedi, quando scendiamo dalla vettura. Cadute, scivolate, poi il gruppo che si ferma in un viale e parla con la giuria. Vedi facce pensierose, corridori che vanno avanti e indietro, poi la decisione e la radio in ammiraglia che la comunica: «Il Giro di Turchia finisce qui». C'è qualcosa che manca, quell'appuntamento che aveva Istanbul che tra i tanti milioni di abitanti aspettava quelle biciclette. Anche il medico scende dalla macchina, si affianca ai corridori e chiede: «Perché?». Ci fa pensare la domanda, come fa pensare la risposta dei ciclisti che spiegano con attenzione, che mostrano come la bicicletta scivoli. Non sarebbero tenuti a farlo, ma lo fanno: «Non si può, vedi? Si scivola anche sui viali, non solo in curva». Quel medico ascolta, guarda, poi dice «Sì» ed è convinto. Ha capito.

Quell'appuntamento non sarà stato come tutti l'avevano immaginato, ma c'è stato lo stesso. Perché i corridori si sono presi il tempo di farsi medicare, di coprirsi e poi sono ripartiti. Sepulveda è andato da quello stesso medico a farsi curare prima di salire in bicicletta: si sono seduti su un marciapiede e in qualche minuto ha potuto rialzarsi. Ha chiesto subito della bicicletta ed è ripartito. Ci dicono: «Si fa un giro e se smette di piovere se ne fa anche un altro. La gara è neutralizzata, ma per la gente che è qui è giusto così».
Viene a far freddo, i corridori chiedono guanti, anche l'acqua del mare sembra minacciosa, grigia, con quei pescatori sempre lì. Si pedala fino al primo passaggio dal traguardo. Potresti pensare che le persone tornino nelle loro case, quasi deluse, almeno che non aspettino sui ponti dove quell'aria è ancora più fredda. Invece le vedi lì. Poi di corsa al traguardo, al palco, dove Bevin vince il Giro di Turchia, dove i coriandoli azzurri tolgono quel grigiore che fa sembrare autunno.

Istanbul è rimasta dov'era perché aveva un appuntamento e con gli appuntamenti si fa così. Istanbul è rimasta dov'era e dov'è oggi mentre il gruppo è ancora insieme e lei sempre più lontana con un pizzico di amaro in bocca, come fa intuire il telegiornale della sera, ma anche con riconoscenza perché agli appuntamenti si va sempre almeno in due e, se Istanbul non poteva che esserci, il gruppo avrebbe potuto scegliere diversamente. Invece, in un modo o nell'altro, c'è stato. «It was the last day», era l'ultimo giorno, è questo il punto.