Farsi ricordare
1 Settembre 2020StorieMarta Cavalli
La telefonata con Marta Cavalli era in corso da circa mezz’ora. La linea telefonica, nelle gallerie attraversate dal treno che la riportava a casa da Napoli, veniva spesso interrotta. Così le parole si inseguivano fra pause e ripetizioni. Ho atteso qualche minuto, giusto il tempo di arrivare alla prima fermata e come ho intuito che, almeno per qualche istante, la linea sarebbe stata buona le ho chiesto quello che meditavo da qualche giorno: «Marta cosa significa per te farsi ricordare? Come fai a farti ricordare?». Proprio così.
Per come la intendiamo noi, la preparazione di un’intervista è un insieme di atti estremamente delicati, in certi momenti anche invasivi. Cerchi notizie sulla vita dell’intervistato, ovunque. Passi in rassegna vecchi articoli di giornale, social, dichiarazioni rilasciate alla televisione. Vai a letto la sera con la cuffia nelle orecchie mentre risenti cronache di vecchie tappe o frammenti di dialoghi intercettati dai microfoni. Magari ti addormenti anche con quelle voci in sottofondo. Ti svegli la mattina e, al tavolo della colazione, cerchi foto, immagini, video di corsa in cui osservare ogni minimo dettaglio. Dal modo di pedalare allo sguardo. Dalla mimica dopo una vittoria alla delusione e agli occhi lucidi dopo una sconfitta. Insomma, entri nella vita di un’altra persona che, magari, non ti conosce nemmeno. Lo fai perché tu vuoi conoscerla, tu hai bisogno come il pane di conoscerla. Per l’intervista, certo. Ma non solo. Hai bisogno di conoscerla perché non c’è nulla di più brutto che spegnere il registratore dopo una chiacchierata e sentire che non ti è rimasto nulla. Sentire che in te non è cambiato nulla. Che è come se fossi stato davanti al computer o ad un muro. Tu eri con un’altra persona, tu hai raccontato e ti sei fatto raccontare, qualche modifica in te deve essere avvenuta. Devi avere sentito qualcosa, altrimenti che senso ha?
Così mi sono ricordato di quella didascalia ad una foto che Marta Cavalli aveva dedicato al ricordo. Ho pensato che sarebbe stato bizzarro chiedere ad una ciclista qualcosa di simile. Poi ho anche pensato che forse proprio per questo sarebbe stato interessante. Perché nessuno lo chiede ma, forse, in tanti se lo chiedono. Si chiedono chi sono queste ragazze una volta scese dalla sella. Ed è bello così, è giusto così. Marta ci ha pensato qualche secondo, dubbiosa, sicuramente stupita. Poi ha iniziato a parlare.
«Credo che per una ragazza con il mio carattere sia molto più difficile farsi ricordare. Lo sai, no? La società oggi tende molto a ricordarsi dei gesti appariscenti, delle battute ironiche, degli estroversi. Più volte mi sono chiesta quale sia il posto degli introversi nei ricordi. Sì, perché anche noi abbiamo un mondo dentro di cui vorremmo gli altri si ricordassero. Io vorrei essere ricordata, eccome se vorrei. So che dovrò fare molta più fatica perché non parlo molto, per i miei silenzi, perché sono timida. Ma so anche che questa fatica intendo farla tutta. Se sei come me devi dare ancora di più, devi fare ancora di più, devi essere ancora più precisa e meticolosa per essere ricordata. Ce la farai. Facendo così ci riuscirai. Vorrei che si ricordassero di Marta come di una ragazza che fa tutto quello che può al meglio, come di una professionista seria, come di una ciclista che ama il suo lavoro. Lo vorrei tanto e credo succederà».
È passato un anno, forse poco meno. Eppure, quando si parla di ricordi, a noi torna in mente quella telefonata. Ci sarà un motivo, non credete?
Foto: Bettini
Siate veri
29 Agosto 2020RitrattiCampionato Europeo,Eleonora Camilla Gasparrini
«Sai, la maglia di campionessa europea è qui in camera con me. È lì, distesa sul letto. Ogni volta che passo la guardo, la fisso. Mi invento anche qualche scusa per tornare in camera a vederla. Devo ancora capire se è vero oppure no. Ma mi sembra proprio realtà, altrimenti tu come faresti a saperlo? Stanotte la terrò nel letto con me, deve essere bello dormire con tutte quelle stelle». Sono le sei di sera del giorno in cui ha conquistato l’Europeo, quando telefoniamo ad Eleonora Camilla Gasparrini e lei ci risponde così. Forse per questo il pensiero va ad una notte speciale. Sono sempre insonni le notti che succedono a giorni belli: quando dormi perdi la cognizione del tempo e se sei felice ti spiace buttare via anche solo qualche granello di sabbia della clessidra che scorre. «Sono stanca ma forse stanotte starò ad occhi aperti a fantasticare. Del resto non ho debiti col sonno, la scorsa notte ho dormito davvero bene. Non ero preoccupata. Avevo coscienza del fatto che mi aspettava una prova importante ma sapevo anche di aver fatto tutto il possibile e di avere al mio fianco delle compagne fantastiche. Perché avere paura? Ero emozionata, certo». Qualcuno diceva che le emozioni le viviamo tutti, solo che alcuni si spaventano quando si sentono diversi. Parlano tanto della normalità che uccide ma poi, quando incontrano lo speciale, rimpiangono il normale. Perché lo speciale ti ribalta la vita e non è detto sia sempre così piacevole. Il segreto è trasformare quello scombussolamento emotivo in adrenalina. Magari in euforia.
C’è una regola personale: quando scrivi, vai sempre di prima impressione. È quella giusta. Eviti l’errore? No, però, hai imboccato la via giusta, quella della realtà. Nuda e cruda, talvolta. Non piaci? Pazienza, il vero difficilmente piace. La società si è ammalata del brutto vizio di edulcorare. Eleonora no, sarà perché è così giovane e crede ancora a quel manicheismo esistenziale che l’età tende a smussare. In parte va bene, in parte è un errore. Per esempio è un errore quando parli con il cervello che tiene sotto stretto controllo ogni virgola del pensiero. Quando nelle parole non lasci uno spazio, il giusto spazio, al tuo sentire. Quando ogni parola è una ponderazione esasperata per restare dove più ti conviene. Eleonora, per fortuna, non sa cosa significhi questo o, se ne è cosciente, lo respinge. Tra le nostre domande e le sue risposte non passano mai più di tre o quattro secondi. Per questo siamo certi di raccontarvi il vero, perché in così poco tempo non si può assemblare una bugia. «Cosa vuol dire la maglia azzurra? Ma vuol dire tutto. Molti dicono che è un onore. È vero ma c’è di più. Per la maglia azzurra devi essere disposto a morire. Tu rappresenti la tua nazione. Tu sei figlio di quella terra che hai sulla pelle. Non vale una sola scusa».
Al traguardo Eleonora Gasparrini è scoppiata in un pianto liberatorio. Lacrime grosse, anche quelle tipiche solo di una certa età. Crescendo si impara a mentire anche con le lacrime. Non le lasciamo più uscire, non le lasciamo più libere. «Appena ho rivisto le mie compagne mi sono messa a piangere. Piangevo e mi asciugavo il viso nelle loro magliette. Poi c’erano mamma e papà, loro sono ovunque io sia. Questa vittoria li fa felici e questo è il mio primo motivo di felicità: vedere mamma e papà contenti». Del ciclismo le è sempre piaciuta la velocità, e, quando questa primavera, a causa del lockdown, non ha potuto correre, soffriva: «Sono sempre le sensazioni a mancarci. Sin da piccola mi sono abituata a vivere quelle sensazioni e mai avrei pensato ad una situazione come quella di marzo. È come se ti portassero via ciò che provi. Come puoi fare? Adesso disputerò il Giro delle Marche e poi aspetterò ottobre per altre gare. L’attesa in questo periodo è snervante. Vorrei questo tempo passasse velocemente per essere già lì. Per buttarmi in una nuova corsa con la certezza che nulla potrà impedirmelo. È bello buttarsi a capofitto nelle cose che ci fanno stare bene. Per carattere lo ho sempre fatto, so che ci sono persone più riflessive o meditative. A me piacerebbe provassero anche loro a fare così. Credo potrebbero essere felici».
Foto: comunicato stampa Vo2 Team Pink
Enigmi e tartufi, Tour e dintorni
29 Agosto 2020ApprofondimentiTour de France
La partenza del Tour sembra essere l'unica certezza, perché a oggi non c'è più grande enigma del suo arrivo. Come si giungerà tra una ventina di giorni a Parigi? Il protocollo Covid è una pezza difficile da tenere cucita, due positivi in una squadra - ogni team sarà composto da massimo 30 persone, staff compreso - e si va a casa. Per evitare succeda come in Bora-Hansgrohe e in Astana - casi positivi, “diventati” negativi nel giro di poche ore - si potranno effettuare ulteriori test che stabiliscano la reale positività ed eventuale contagiosità, insomma un bel caos da gestire.
Tanta confusione sotto il cielo che maledice una corsa che, con queste avvisaglie, potrebbe saltare in aria, e chissà, non concludersi nemmeno nella peggiore delle ipotesi. Un paio di giorni fa quattro membri dello staff di un team (Lotto Soudal) sono risultati positivi al tampone, rimandati a casa e poi sostituiti, vedremo al Tour come gestire una corsa a eliminazione degna di un reality futuristico.
Ma in una stagione così proviamo a parlare di corsa e dintorni, almeno un po', e magari a non prenderci troppo sul serio: si parte da Nizza, quella mondana e francese, seppur al confine e dunque molto italiana, ma comunque non quella di Eco e Pavese così zeppa di tartufo. Semmai, per chi se lo potesse permettere: ostriche e champagne, anche se oggi quelle le puoi trovare pure se vivi a Pizzo Calabro – se siete da quelle parti in quel caso vi consiglieremmo il tartufo gelato. Provare per credere. Tuttavia, ci sarà ben poco modo di gustarsi il contorno: sarà una corsa blindata come un fumetto di fantascienza.
Sarà, come si legge un po' ovunque: “Tutti contro Bernal”? Oppure un tutti contro Roglič? Chi lo sa, la vigilia non è mai stata così tormentata anche per loro, agonisticamente parlando. Bernal ha mal di schiena, ma quando si sale ha un motore mica male e oltretutto deve difendere il titolo, cosa che di solito al Tour riesce pure abbastanza bene se hai del talento. Roglič cadeva quindici giorni fa e racconta di essere pronto ma di non sentirsi tanto bene (pretattica), e allora occhio agli altri che schiereranno Ineos-Grenadiers (sic!) - per i quali speriamo di non leggere metafore di guerra, non se ne sente il bisogno - e Jumbo-Visma: fossi un direttore sportivo, un corridore, un suiveur, uno scommettitore, un appassionato, un lettore di Alvento, un blogger, un giornalista, mi preoccuperei pure di Bennett e Sivakov, Carapaz, Kuss e Dumoulin. Vanno forte, e sanno più o meno come si vince o come si potrebbe. Lo spilungone olandese oltretutto è dato in crescita, forse potrebbe essere l'uomo della terza settimana. Lui, più verticale di una parete alpina.
Poi certo, in tutto questo ben di dio si potrebbero scegliere Quintana o Pogačar che mi fanno venire in mente il vecchio e il bambino, ma giusto perché Quintana con quella faccia vecchio lo è sempre stato, bambino chissà. Il Quintana di inizio stagione lo avrei dato favorito almeno per il podio, questo lo vedo "comme ci comme ça" come dicono loro, i francesi, loro mai così poco convincenti da quando hanno trovato una generazione nuovamente vincente.
Pinot e la sua idiosincrasia con la vittoria che fa quasi tenerezza come quel pedalare con le ginocchia che sembrano colpirlo in faccia; Bardet sempre più incerto ed enigmatico, nonostante ami tenersi informato costantemente leggendo di politica e sociologia – e questo in un certo senso ce lo fa stare più simpatico. Doveva fare il Giro, è stato dirottato al Tour e magari questo cambiamento gli farà bene. Alaphilippe lo scorso anno fiammeggiava e volteggiava, non riusciva a stare mai fermo con quelle gambette da grillo e un orribile pizzetto che lo faceva sembrare un Peter Sagan con la febbre. Quest'anno chissà, pure lui non sembra al meglio, ma corre nella squadra più vincente che ci sia e un colpo lo darà – magari già al secondo giorno.
Poi la sfilza di nomi proseguirebbe: non citiamo Porte, per decoro, ma magari il simpatico quanto caratteristico Mollema sì. Quando pedala è curvo e dinoccolato come un galgo, vince poco ma bene, ma anche quando non vince si fa sempre vedere. Il landismo di Landa ci ha un po' stufato perché è un'attesa eterna (o forse ci piace per questo?), però per un quinto, sesto, settimo posto o giù di lì c'è pure lui. Così come ci sono tedeschi con clavicole rotte e braccia scorticate che non si sa come abbiano recuperato. E poi? Altri colombiani tutti da spuntare con la penna rossa: Urán, Martínez, Higuita, López, nomi meravigliosi che sembrano quasi di fantasia, corridori di spessore ma dalla cifra a volte misteriosa.
Percorso? In brevissimo: tanta salita, tante tappe miste, poco tic-tac. I francesi fanno sempre come pare a loro e dopo averci annoiato per anni con volate e lunghe crono, oggi decidono che ne possa bastare una messa il penultimo giorno. Potrebbe essere una mossa contro lo spettacolo non mettere una cronometro a metà o inizio corsa e che favorisca in qualche modo gli specialisti, con il rischio di annacquare la corsa e tenerla ancora più sonnolenta di quella che ci si potrebbe prospettare. Uno scalatore in ritardo a causa delle prove contro il tempo è invogliato ad attaccare, così invece si aspetterà sempre la prossima salita, in un loop infinito, e verso l'esasperazione del landismo. E vediamo, poi, cosa succederà con gli interminabili treni formati dai vagoncini Jumbo-Ineos che potrebbero, così come sono, tranquillamente attraversare l'Europa e arrivare in Asia e tenere la corsa cucita come un abito da sera.
Infine due parole sulla pattuglia italiana, pochi ma buoni: sono sedici. Nizzolo sogna un filotto campionato italiano-europeo-maglia gialla il primo giorno; da Viviani ci si aspetta sempre un bel colpo, Trentin, Bettiol e De Marchi possono farsi vedere tutti i giorni con il loro animo da incendiari. Occhio a Formolo, corridore diventato spettacolare anche in bicicletta, mentre su Aru non ci accaniamo. Buon Tour a tutti.
Foto: ASO/ Thomas Maheux e ASO/ Pauline Ballet
Pensieri e parole
28 Agosto 2020StorieElisa Longo Borghini,Campionato Europeo,Annemiek van Vleuten
Quando Annemiek van Vleuten ha tagliato il traguardo di Plouay, ha guardato il cielo e mischiato sorriso e pianto. La gola, probabilmente, avrebbe voluto sorridere ma dagli occhi scendevano già alcune lacrime. Ci rendiamo conto che dire una cosa del genere per van Vleuten rasenti l’assurdo ma, forse, l’olandese non era la più forte, ieri pomeriggio. C’è stata molta tattica psicologica nella gara in linea delle donne élite e Annemiek van Vleuten ha giocato d’astuzia sino al rettilineo d’arrivo. Si è messa nella scia di Elisa Longo Borghini e Kasia Niewiadoma, non ha tirato un metro. Della serie: «Sono la più forte e dietro, in gruppo, ho una squadra altrettanto forte. Vogliamo andare via da sole? Bene. Tirate voi. Noi potremmo vincere lo stesso». Questo il messaggio da consegnare. Forse nella sua mente pensava altro e non tirava appunto perché non ne aveva le forze. Perché se avesse collaborato maggiormente, poi, non avrebbe avuto la stessa brillantezza per lo sprint. Van Vleuten ha raccontato una bugia senza proferir parola. E, consapevoli della straordinarietà della atleta di Vleuten, ci abbiamo creduto quasi tutti. Sì, perché chi era lì qualcosa ha intuito. Forse perché quando è rientrata Chantal Blaak è stata proprio van Vleuten a mettersi in testa al drappello, come per salvaguardare la compagna. Longo Borghini e Niewiadoma devono averlo pensato: «Strano. Sono in due e si limitano a controllare la situazione. Annemiek non scatta: o sta a ruota o si mette in testa e fa calare l’andatura. Queste vogliono portarci alla volata e metterci nel sacco».
Nella mente di Longo Borghini è balenato un fulmine in quel momento. Ed è partita Elisa. Uno, due, tre scatti. Blaak si stacca. Van Vleuten non risponde subito, perde qualche metro e poi rientra. È la conferma: «Ho ragione io. Non sei la stessa, Annemiek. Non sei la stessa». Se lo dice, si volta e riscatta Elisa. È la più brillante di quello che ormai è rimasto un terzetto. Lei e Niewiadoma si guardano negli occhi, come a trasmettersi quel messaggio. Van Vleuten è sola ed inizia a capire: «Se mi mostro vulnerabile è la fine. Dai, dai uno scatto. Uno solo. Magari si staccano, potrebbero avere già speso tutto. In ogni caso devo intimorirle. Vai Annemiek, vai». Ognuno si racconta ciò che può e muove le pedine come in una partita a scacchi. Quando Annemiek van Vleuten parte, la paura è che sia un arrivederci a dopo il traguardo. Anche Longo Borghini lo pensa: «Mamma mia se fai male quando parti. Altro che storie. Questa è sempre la stessa. Che male, che male». Per un attimo crolla il fine meccanismo psicologico costruito per tanti chilometri. Poi Elisa cambia rapporto, si alza sui pedali e guarda a terra: non vuole vedere dove si trova l’olandese. Spinge più che può e rialza la testa: «Ti torno sotto, ti torno sotto. E no, Annemiek, troppo facile così. Devi sudartela». Così si riforma il duo che andrà sino al traguardo: Annemiek van Vleuten ed Elisa Longo Borghini per l’oro europeo.
Lo sanno tutti e lo sa anche lei: le volate non sono mai state il punto forte di Longo Borghini. Mentre l’olandese quando lancia l’affondo è irresistibile. «Devo fare attenzione a quando parte. Devo essere concentratissima. Se le prendo la ruota, è fatta. Devo prenderle la ruota e uscire nel finale. Sì, devo fare così». Ancora nella testa. È lì che si rimescolano le carte mentre la pioggia lascia spazio a qualche raggio di sole sulle strade bretoni. La volata è lanciata: van Vleuten parte in testa, Longo Borghini le prende la ruota. Da un momento all’altro tutti si aspettano che Elisa sbuchi a destra o a sinistra. Niente da fare. Le immagini schiacciano, tra la ruota posteriore di van Vleuten e quella anteriore di Longo Borghini ci sono diversi centimetri. Troppi per prendere la scia e tentare un sorpasso. Van Vleuten oro, Longo Borghini argento, Niewiadoma bronzo. A un passo dal tris, dopo Balsamo e Nizzolo. Ma non conta. Non così tanto almeno. Elisa è stata commovente. Non si è mai arresa sino alla linea bianca, ha rilanciato anche mentre van Vleuten stava alzando le mani dal manubrio per festeggiare. I cinici, o forse solo quelli che non hanno mai preso in mano una bicicletta, diranno che non arrendersi è un dovere. Che conta solo vincere. Che dei secondi non si ricorda nessuno. Noi diciamo che il loro mondo ci fa un poco tristezza. Dei primi si ricordano gli albi d’oro e le persone, magari dopo averli consultati. Dei secondi, a certe condizioni, si ricordano solo le persone. Senza nemmeno bisogno di controllare. Perché quello che dai ti qualifica. Solo quello. Punto e basta.
Foto: Bettini
Per noi stessi
27 Agosto 2020CorseGiacomo Nizzolo,Campionato Europeo
Domenica, dopo aver conquistato il campionato Italiano, Giacomo Nizzolo si è accomodato nella mixed zone per le interviste. Una delle prime domande dei cronisti, probabilmente se la aspettava. «A chi dedichi questa vittoria?» gli hanno chiesto. Tutti rispondono parlando di famiglia, di amici, di tifosi. Lui ci ha pensato qualche secondo e poi ha esordito con: «Non vorrei sembrare egoista, davvero. Indubbiamente la dedico alla mia famiglia e a tutte le persone che mi sono vicine e che mi sono sempre state vicine ma la dedico anche a me stesso. Per quanto ho saputo soffrire in questi anni, per quanto ho saputo insistere, per non aver mai mollato ed essere qui”. Non è facile dedicarsi qualcosa in questa vita. Soprattutto non è facile dedicarsi qualcosa e avere il coraggio di dirlo forte e chiaro: “Questa è per me. Solo per me. Per quello che sono». Eppure ogni tanto bisogna farlo. Di più. Ci sono circostanze della vita in cui, volersi bene e dedicarsi i propri successi, è un dovere. Per restare a galla. Perché il nostro corpo e la nostra mente danno segnali, ci fanno capire quando qualcosa ci sta facendo male, quando hanno sofferto per troppo e hanno bisogno di liberarsi, quando hanno bisogno che venga riconosciuta la loro tenacia. Insomma, quando dovremmo essere noi stessi a darci una pacca sulla spalla e a portarci in salvo. Giacomo Nizzolo lo ha fatto: si è riconosciuto i meriti che ha, senza superbia alcuna ma con consapevolezza. È come se si fosse detto: «Vali Giacomo, ricordati che vali». Dovremmo farlo tutti ogni tanto.
Due colpi di reni, uno al campionato Italiano e uno all’Europeo, per buttar fuori quella rabbia, quel dispiacere, per due anni di difficoltà lasciati alle spalle. Due vittorie, prima campione d’Italia, poi campione d’Europa. Riccardo Magrini racconta che Nizzolo gli ha confidato che, in fondo, gli dispiace non poter indossare la maglia tricolore. Ci teneva, ci teneva tanto. Invece indosserà quella di campione europeo perché nella gerarchia delle casacche è più importante. È grato. Oggi più che mai, infatti, tornano quelle parole che ci disse qualche mese fa: «Sai, sono stato bravo ma anche fortunato. Mi piace dire le cose come stanno. Volevo diventare un velocista e sono nato con le caratteristiche giuste per esserlo ad ottimi livelli. Da bambino vedevo i colpi di fioretto tra Mario Cipollini e Ivan Quaranta e pensavo che mi sarebbe piaciuto somigliare a loro. Al primo per forza e costanza, al secondo per l’estro che dimostrava ogni volta che batteva il primo». Gli hanno sempre detto che le volate sono cambiate e forse è anche vero ma non nel senso in cui lo intendono certi. Il livello si è alzato, per questo ci sono più nomi fra i favoriti. Nizzolo non è mai stato spaventato da ciò. Nizzolo cercava come l’aria la possibilità di tornare dove era stato, con orgoglio e dignità, prima delle problematiche e dell’infortunio. Come chi non ama le scuse, come chi non crede al destino scritto da altri ma bensì alla possibilità di scriverlo da soli.
E per questo serve tanto coraggio. Perché, quando ti fai autore di te stesso, l’errore è dietro l’angolo. Poi ci sono le voci: se avessi aspettato, se avessi fatto così, se avessi evitato quello, se fossi stato più attento, più bravo. Ovviamente tutte cose dette da chi, della tua vita, non sa assolutamente nulla. Tutte frasi che dietro il sembiante del consiglio, nascondono una certa superbia. Ovviamente a fatti avvenuti: «Se uno potesse sapere cosa gli riserverà la sorte, sarebbe un bel vivere, non credete? Tocca prendere quello che viene e regolarsi di conseguenza. Può darsi che in alcuni frangenti abbia anticipato fin troppo il rientro, ma finché uno non rientra alle corse come fa ad accorgersene?». Perché ancora prima dell’attenzione alle frasi da dire, per portarsi in salvo serve attenzione alle frasi da ascoltare e da ricordare. Perché devi farti del bene, devi volerti bene, per tornare dove la natura ti ha concesso di poter essere. Qualcuno diceva che le qualità che possediamo sono un dono che riceviamo dalla natura, l’uso che ne facciamo sono il nostro modo di ricambiare il dono. È necessario fare sempre il massimo, non buttarsi via e riconoscersi errori e meriti con onestà e gentilezza. Il colpo di reni che ci serve, nelle gare e nelle vita, arriverà proprio da lì.
Foto: Bettini
Cinquanta metri prima
26 Agosto 2020CorseCampionato Europeo,Elisa Balsamo
Il libro preferito di Elisa Balsamo è “Novecento” di Alessandro Baricco. Se le si chiede il perché, la risposta va a pescare nel suo presente ma anche, e forse soprattutto, nel suo passato. Elisa dice che quel libro le piace “perché è ironico e triste allo stesso tempo: al protagonista manca il coraggio di fare ciò che vorrebbe. È un monito: nella vita quel coraggio bisogna trovarlo. Non è solo importante, è fondamentale”. Lei ammette che diverse insicurezze tormentano il suo carattere. Così sente il bisogno di avere qualcuno al suo fianco che la sproni, qualcuno che creda in lei, qualcuno che le dica “ce la puoi fare”. Elisa Balsamo non la scopriamo certo oggi, è un’atleta di primo rango. Non le manca niente. E allora perché dirlo? Perché ripeterlo? Perché le cose ovvie non lo sono mai del tutto. Perché qualcuno che ti ripeta certe parole, fa sempre bene. Non importa se sono parole che hai già sentito tante volte. Non importa se, in fondo, lo sai anche tu. Certe cose hai bisogno di sentirtele dire. Chi tiene a te, ha questo dovere. Dirtele. Nel suo caso, oltre alla sua famiglia, a ripeterle quelle parole c’è il suo preparatore Davide Arzeni.
Oggi, Chiara Consonni era con le braccia levate al cielo a cinquanta metri dal traguardo. Non in testa al gruppo, in decima posizione. Davanti c’era Elisa. Quante cose possono succedere in cinquanta metri in volata? Tante, forse troppe. Quando abbiamo visto Chiara alzare le braccia al cielo quando il traguardo non era ancora tagliato, abbiamo pensato a quando Elisa Balsamo ci ha detto: «Senza le mie compagne di squadra non sarei la stessa. Non sarei qui, senza di loro». Chiara Consonni se lo sentiva, è questo il bello. Quando sai qualcosa, quando la tua conoscenza deriva dall’intelletto, puoi fallire, puoi sbagliare, puoi confonderti. Quando lo senti, no. Quando lo senti, lo hai dentro. Non sai da dove arrivi, non sai se è un qualcosa che ti appartiene oppure qualcosa di assolutamente estraneo a te, che coincide con la tua persona per particolari circostanze. Ma sai che è così. Come avesse detto: “Non ti riprende più nessuno, sei troppo forte. Hai vinto! Guarda che volata sai fare. Ma la vedi? Ma ti vedi? Sei uno spettacolo. Sei campionessa europea”. Proprio così. Prima che la realtà confermasse la sensazione.
La volata è una questione di velocità ma anche di pazienza. Nella vita quotidiana, duecento metri sono poco o nulla. In una volata, partire duecento metri prima o duecento metri dopo, cambia tutto. Anche se la voglia è tanta devi aspettare, devi stare tranquilla. Lei ha imparato ad aspettare sin da bambina. In un negozio aveva visto una bellissima bicicletta Colnago: «Me la fecero provare ma era troppo grande. Tornai a casa delusa ma non volevo rinunciarci. Tornavo lì ogni giorno e la riprovavo. Il giorno in cui i piedi riuscirono a toccare i pedali ero felicissima». Stasera, Elisa rivedrà quella volata e ripenserà a tutti gli attimi di attesa. A quanto l’attesa sia bella perché dopo sei ancora più felice. Alla fortuna di avere imparato quella lezione sin da bambina. Poi rivedrà Chiara a braccia alzate ai cinquanta dal traguardo e penserà a quanto queste ragazze credano in lei. A quanto sia bella questa fiducia, a quanto faccia sentire protetti. Tanto protetti da gettarsi al vento senza alcun dubbio. Un piccolo miracolo. Un miracolo a cui credere perché si verifica spesso a patto di avere il coraggio di fidarsi e di affidarsi. Poi le cose belle succedono. Non abbiate paura.
Foto: Bettini
A chi importa chi era Knud Jensen?
26 Agosto 2020StorieGiochi Olimpici,Knud Jensen
Avete presente com'è Roma in piena estate? Il cemento sembra si sciolga sotto i piedi, lo smog, l'asfalto che bolle, il GRA, le auto che sfrecciano ovunque su e giù per la Cristoforo Colombo, l'altare della patria come un gigantesco panetto di burro che si sta squagliando su se stesso. Poi fai una visita alle Terme di Caracalla, sotto un sole così non è mai bello né passeggiare né pedalare, e quando la guida indica: «Quello era il Frigidarium!» ti ci butteresti dentro rischiando di farti arrestare.
Sessant'anni fa non era poi così diverso. Avete presente Roma, 26 agosto 1960, gara che dà il via ai diciassettesimi Giochi Olimpici? Vi ricordate di Knud Jensen? Avrebbe compiuto 24 anni da lì a pochi mesi, veniva da Århus, Danimarca, e faceva il muratore. In realtà preferiva pedalare e non sappiamo se per questo si sposò con la nipote di Henry Hansen, leggenda del ciclismo danese, due volte campione olimpico ad Amsterdam nel 1928. Fatto sta che era dilettante e quindi a fine mese doveva portare a casa qualcosa, e allora lui, muratore e ciclista, un connubio folle di fatica e masochismo, di giorno lo trovavi a piallare, di pomeriggio a pedalare e nemmeno con scarsi risultati.
Si presentava la mattina della 100 chilometri a squadre con un interessante curriculum: aveva appena vinto il titolo di campione dei paesi nordici, e la sua Danimarca aveva buone carte da podio dietro le inarrivabili Italia e Germania – unita, ma con un quartetto tutto DDR.
Ma a Roma, nel 1960, una nuvola nera passava come un presagio: pochi mesi prima dei Giochi, tornando a casa da un concerto, perse la vita Fred Buscaglione schiantandosi contro un furgoncino che trasportava sanpietrini. Il 26 agosto 1960, prima di ritornare sul traguardo-partenza di Viale dell' Oceano Pacifico, fu il turno di Knud Enemark Jensen.
Faceva caldo, quel giorno, da sgretolare i sassi. 33 gradi al mattino e lungo via Cristoforo Colombo - "una strada che non rivela mai nulla, dove correre diventa una sorta di facoltà automatica che l'atleta è in grado di ripetere per un tempo impossibile da calcolare" scrisse Jacques Goddet, direttore de L'Équipe - si arrivò a oltre 40. Intorno nulla a dare un po' di refrigerio, fronde dove nascondersi o aspettare una bava di vento che ti rinfreschi o dia sollievo; solo gruppi di tifosi e curiosi, militari a far da sicurezza, enormi pennacchi futuristici a reggere bandiere di ogni nazione, e sullo sfondo il Velodromo Olimpico dell'EUR che appariva come una navicella atterrata in mezzo al deserto – e infatti come arrivata, se ne andò: inutilizzato dal '68 e demolito nel 2008.
E che routine la 100 chilometri a squadre! Prova a cronometro massacrante e spettacolare; per molti il sunto dell'esercizio fisico e tattico sulle due ruote - e perciò scomparsa per fare posto a scialbe e inutili trovate, l'ultima: la staffetta mista a cronometro! Su quello stesso asfalto che bolliva, Bikila Abebe, un paio di settimane dopo, avrebbe vinto a piedi nudi la Maratona dei Giochi, facendo anche lui su e giù per l'interminabile Colombo, la via più lunga d'Italia e in alcuni punti anche la più larga.
Si racconta di come quel mattino Jensen si fosse lamentato di non stare bene: ma tant'è, si partì ugualmente. Si va al macello, non c'è un dio a cui appellarsi, non c'è conforto, se non in quello della fatica che ti corrode i muscoli fino all'osso. Non ci sono motti decoubertiani; verranno solo aggiunti tanti, troppi dettagli dopo il suo incidente, che se ne discute ancora oggi – ad esempio se l'allenatore avesse dato o meno del Roniacol ai suoi corridori. E insomma succede che faceva così caldo che a fine corsa 31 corridori furono colpiti da un malore, e alla squadra danese non andò meglio. Il primo fu Jørgensen: iniziò a stare male da subito e si staccò. Il quartetto divenne un terzetto. Forse fu quello a salvarlo – fu portato di fretta in ospedale - e la mano tesa che decise di strapparlo al suo destino, divenne uno schiaffo che fece ruzzolare a terra pochi chilometri dopo il povero Jensen. «Mi sento male!» il suo urlo, e un compagno di squadra gli buttò acqua fresca addosso reggendolo per una maglietta. Giusto il tempo di lasciarlo andare e qualche centinaia di metri dopo Jensen cadde a terra. Colpì violentemente la testa – rigorosamente protetta solo da un cappellino. Frattura del cranio: venne trasportato, dopo diversi minuti d'attesa, in una tenda allestita in un ospedale militare. C'erano 50 gradi lì dentro: disidratazione, frattura del cranio, arresto cardiaco. Jensen morì lì: “Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell'istante in cui seppe, cessò di sapere”.
L'autopsia, inizialmente, parlò di morte per frattura del cranio per la caduta causata da un colpo di calore, poi negli anni si sono susseguiti giochi politici e mediatici atti a manipolare e strumentalizzare la scomparsa del ragazzo – la sua morte macchiata dall'uso di anfetamine e tutt'ora mai accertata resta al centro di una controversia. Il CIO si premunì nel far passare la vicenda come “emblema della lotta alle sostanze proibite” e il caso di Jensen come quello del “primo morto per doping nella storia”. Sette anni dopo si istituirà la prima vera commissione antidoping, ce ne vollero otto, da quel misfatto, per effettuare i primi controlli: una battaglia tra doping e antidoping che diventa una vera macchina fabbrica denaro e che prosegue fino ai tempi nostri. Ancora oggi, studi compiuti sulla morte del ragazzo e documenti della Wada si contraddicono. Martire oppure mito: come se poi importasse davvero al fine di capire chi era Knud Jensen.
Per approfondire che cosa si dice ancora oggi sulla morte di Knud Jensen: "The truth about Knud: revisiting an anti-doping myth"
https://www.sportsintegrityinitiative.com/the-truth-about-knud-revisiting-an-anti-doping-myth
Foto: https://www.sportsintegrityinitiative.com
La risposta giusta
25 Agosto 2020Approfondimentivan Aert
La storia di oggi è una di quelle storie che si incontrano mentre ne stai inseguendo altre. Mentre ti lanci fuori da una stazione ferroviaria e, con le gocce d’acqua che iniziano a cadere, blocchi il primo taxi disponibile per raggiungere la partenza di una gara. Ti accomodi sul sedile posteriore e pensi a tante cose. Al fatto che questa mattina avresti proprio voluto restare a casa. Che c’è quella persona che avrebbe bisogno di te e tu invece sei sempre chissà dove. E ami il tuo lavoro, lo ami come si amano le persone, ma le persone restano un’altra cosa. Quando torni a casa a sera, magari dopo giorni di viaggio, cerchi qualcuno che ti chieda come stai, cerchi ogni dettaglio che ti viene in mente quando, dopo le gare, senti le persone dire “andiamo a casa”. Tu invece non vai a casa. Tu vai in hotel. Oggi peraltro piove. Le previsioni dicono che peggiorerà. Non ti è mai interessato nulla della pioggia, anzi ti piaceva camminarci, ma oggi proprio non va. Quando succede così non ti basta nulla. Nemmeno tutte le cose che racconti e che ti racconti quando parli del tuo lavoro. Nemmeno tutte le motivazioni per cui non lo cambieresti con nulla al mondo. Oggi non ne sei più così certo. Ma che succede oggi? Te lo chiedi. Capita a tutti, capita anche a noi. Ma devi far finta di niente, devi salire su quel taxi e aggiustare i pensieri perché tu, da quando arriverai al villaggio di partenza, dovrai essere il solito. Dovrai mettere tutta l’attenzione per ascoltare, anche se oggi, solo oggi, vorresti proprio essere ascoltato. E c’è una bella differenza. Preparati una maschera e vai. In fondo lo dici sempre: sei fortunato perché della tua passione hai fatto un lavoro. Questo lo sai, lo sai anche oggi.
Ad un tratto squilla il telefono del tassista: auricolari nelle orecchie e risponde. Non capisco subito con chi parla ma alcune parole arrivano chiare. Dopo qualche minuto di ascolto è lui a riprendere la conversazione: «E allora? Che scusa è? Valla a raccontare alle persone che ti stavano aspettando. Noi siamo responsabili del destino di queste persone. Qualcuno sarà arrivato tardi al lavoro, qualcuno avrà mancato un appuntamento, ci pensi? Ascolta, lascio un cliente e ti richiamo». Pago e scendo. Sto andando a ritirare degli accrediti ma con la testa sono lì, a quella chiamata. A quel “noi siamo responsabili del destino delle altre persone”. Mica poco. Credo che quel tassista stesse parlando con un collega che aveva mancato un appuntamento o qualcosa di simile. Non so. Ma non è questo che conta. Sono quelle parole a contare, quelle che misurano l’importanza che ognuno assegna al proprio contributo. E, forse, sono anche la miglior risposta ai miei dubbi e alle mie domande. Alle domande di chiunque si alzi un mattino e si interroghi sul perché. Alle domande che ogni persona si pone. Chi ama ciò che fa, se le pone raramente ma in quei casi serve una risposta. Bisogna averla pronta, altrimenti tutto vacilla.
La risposta è questa. La risposta è che proprio dalla tua risposta a quella domanda, quel mattino, dipende un pezzetto di destino di qualcuno. Già, perché peggio ti risponderai e peggio lavorerai. E il tuo lavoro ricadrà per forza di cose su qualcuno. Sarà causa o conseguenza. Qualcuno pagherà la tua risposta sbagliata. A qualcuno, quella tua malavoglia, causerà malessere, problemi. Qualcuno quella stessa mattina si è alzato dal letto col piede giusto, si è ricordato del motivo per cui fa ciò che fa. Magari proprio qualcuno che è alle prese con un lavoro infinitamente più difficile del tuo, con più responsabilità di te, con più problemi di te. Eppure lui sa perché sta andando al lavoro. Perché “è responsabile del futuro di qualcuno”. Non è un vanto. Siamo tutti responsabili del futuro altrui. Per poco o per tanto, che ci piaccia o no. Che sia il giorno giusto o meno. Il futuro non aspetta questo. Il futuro arriverà lo stesso, aspetta solo il tuo contributo, senza scuse.
Così, quel giorno, al villaggio di partenza non ho avuto bisogno di maschere, del resto le responsabilità non vogliono trucchi. Anche le responsabilità più ostiche si affrontano con le giuste risposte. Magari colte al volo, scendendo da un taxi, mentre fuori inizia a piovere.
Foto: Tornanti.cc
Svegliarsi di soprassalto oppure Thomas G
24 Agosto 2020RitrattiTour de France,Geraint Thomas,Giro d'Italia
Espressione rilassata: prima, durante e dopo una corsa importante. È sempre stato così, sin dai primi passi. Mentre gli altri si incupivano, tesi fino a strapparsi, logorandosi fino a otturare i propri pistoni, Geraint Thomas faceva scivolare via le preoccupazioni pedalando sciolto con quelle gambe che sembrano stiletti affilati. «Mai visto uno con una testa simile» - racconta Rod Ellingworth, suo ex allenatore e deus ex machina dei successi della Gran Bretagna nel ciclismo.
E d'altronde, la forza mentale di Geraint Thomas non è mai andata in frantumi nemmeno tutte le volte che è finito a terra. La prima brutta caduta nel 2005 in Australia: finì in terapia intensiva e gli tolsero la milza. «I miei vennero a Sidney preoccupati, finì che ci divertimmo un mondo». Al Tour del 2013 cadde nella prima tappa, si ruppe il bacino e restò ugualmente in corsa fino a Parigi supportando Froome verso la vittoria finale. Al Giro del 2017, quando era in piena lotta per la maglia rosa, si scontrò con una moto della polizia e qualche giorno dopo si ritirò. Lo stesso anno al Tour vinse il prologo, indossò la maglia gialla, ma tempo una settimana e finì di nuovo a terra: clavicola rotta. Memorabile il suo incidente alla Gand-Wevelgem del 2015 quando una folata di vento lo buttò fuori strada mentre era in fuga per la vittoria.
Elegante in bici, vincente su pista, sul pavé e nei Grandi Giri, Geraint Thomas è visto in gruppo come personaggio tranquillo e rispettato; garbato e dai modi britannici, lui che arriva dal Galles - Cardiff per la precisione, 'Diff, come dicono da quelle parti. Nell'ultima tappa al Tour del 2018 Daniele Bennati gli si avvicinò prima del traguardo e gli disse: «Il fatto che sia uno come te a vincere il Tour de France, mi fa venire la pelle d'oca».
Quando poi Thomas dice che dell'Italia gli piace tutto, in particolare il cibo, non è una strizzata d'occhio, sembra parli davvero di amore. In tempi non sospetti raccontava di come pensare al Giro d'Italia lo facesse svegliare di soprassalto la mattina, e quando si è sposato lo ha fatto nella St Tewdric's House, una villa italiana del XIX secolo, in Galles. Successivamente lui e la moglie l'hanno acquistata, restaurata, e oggi, a partire dalla modica cifra di circa cinquemila sterline, chiunque ci si può sposare.
Ha frequentato la stessa scuola secondaria di Gareth Bale, e in Galles è ritenuto uno dei personaggi sportivi più grandi di tutti i tempi, al pari della leggenda del rugby Gareth Edwards. Sempre a Cardiff, in suo onore, dopo il titolo olimpico vinto a Londra, la Royal Mail fece dipingere d'oro una cassetta delle lettere nella piazza centrale ed emise un francobollo col suo nome.
Il suo primo allenatore racconta di quando trovasse questo ragazzetto di nove anni mingherlino, pallido, con le gambe fini come uno sfilatino, tutte le mattine fuori dal velodromo a spiare i ragazzi che correvano con la maglia del Mindy Flyers Club. A furia di vederlo gironzolare lì intorno, timido, a bocca aperta e con gli occhi sognanti, un giorno lo invitò a fare qualche giro, gli diede una bici di riserva e lo lanciò in pista. Tempo qualche anno e Thomas divenne il più forte della sua scuola, poi del Galles, poi della Gran Bretagna, fino a conquistare due titoli olimpici nell'inseguimento su pista, nel 2008 a Pechino e nel 2012 a Londra.
«Non aveva mai il broncio anche quando perdeva una corsa» dice di lui un altro suo allenatore, mentre Courtney Rowe, padre del futuro compagno di squadra Luke, ricorda il suo talento: «Luke era bravo, ma G è sempre stato semplicemente geniale». E se c'era da fare festa lui era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene: «Ad ogni addio al celibato io tornavo a casa alle 22.30, Thomas per ultimo».
Alla fine del Tour de France vinto, Arsene Wenger, all'epoca manager dell'Arsenal, lo chiamò per congratularsi, e Thomas, tifoso sfegatato dei Gunners, pensava fosse Wiggins, noto imitatore, che scherzava. Qualche tempo dopo incontrò Leo Messi al termine di un Barcelona-PSV di Champions finito 4-0 e con una tripletta del fenomeno argentino. Messi gli regalò la sua maglia autografata e qualcuno scrisse: “Messi ha voluto incontrare il Re del Tour de France”. Quel Tour che in Sky non volevano che vincesse: «Mi dissero che avrebbero corso tutti per Froome anche se avessi avuto un minuto di vantaggio e che se nella cronosquadre avessi avuto un problema, non mi avrebbero protetto né aspettato», rivela Thomas nella sua biografia.
Escluso dalla selezione per il Tour di quest'anno - chi lo ha visto al Delfinato non ne è rimasto sorpreso - Thomas sarà una spina nello Stivale. E se dovessimo puntare un penny su un vincitore del Giro, il suo nome ci potrebbe far vacillare. A patto che G, come lo chiamano in gruppo, smetta di svegliarsi di soprassalto pensando all'Italia e mantenga il suo profilo equilibrato. “Imponi la tua fortuna e corri verso i tuoi rischi”, scrisse un giorno René Char, e ci pare un pensiero perfettamente adatto al cammino di Geraint Thomas.
Foto: ASO / Alex BROADWAY e ASO / Pauline BALLET
Giacomo Nizzolo, ovvero non spegnersi
23 Agosto 2020CorseGiacomo Nizzolo,Campionato Italiano
Raccontano che Daniel Oss, essendo l’unico corridore della Bora Hansgrohe, in corsa oggi a Cittadella, e non potendo quindi avere un adeguato supporto dalla squadra, nei giorni scorsi abbia chiesto alla fidanzata di aiutarlo nei rifornimenti. Lo ha fatto portandola in cima a La Rosina e spiegandole come passare la borraccia. Potrebbe sembrare storia di tanti anni fa, di un’Italia rurale, di vecchi quartieri sparsi, invece no. Sopra La Rosina, del resto, tante storie si incrociano, alcune restano qui, altre vanno altrove ma mai del tutto. Qualcosa resta nel ristorante, qualcosa nella chiesa. Qualcosa anche negli intenti. Sì, perché La Rosina è uno di quei luoghi che devi volere.
Lo racconta Alessandro Ballan che partiva da Castelfranco Veneto e veniva qui per allenarsi. È una fisarmonica che si apre e si chiude. Anche la luce è particolare. Qualcosa di morbido, di dolce. Qualcosa che ricorda la luce tenera che filtra dalle finestre nel tardo pomeriggio d’autunno. Anche se oggi è ancora estate. Deve essere rimasto qualche rimasuglio di vecchie stagioni qui. Magari fra i prati de La Rosina. Magari negli occhi di chi guarda. Ma non è un problema, non oggi. Non c’è nostalgia, non c’è malinconia. Ci sono sprazzi di passato a cui appoggiarsi, come le tende con vivande e qualche bicchiere di vino rosso, ma muri di futuro da cui saltare. Come quelle piccole costruzioni fatte di sassi, così instabili che sembrerebbero crollare al solo respiro ed invece restano lì.
Samuele Battistella salta proprio da uno di questi muri appena vede uno striscione legato lì. Gli hanno scritto che è tutto impossibile finché non viene fatto, lui nel dubbio prova a fare. Battistella sa che il problema non sono le porte aperte o chiuse. Ci sono porte spalancate che non varchi mai perché qualcuno ti sussurra che forse non ci passi, altri che “dopo fa male”, talvolta semplicemente perché da una porta simile, che sembrava aperta, hai preso un brutto colpo e ora temi anche il vuoto. Quello che Damiano Caruso augura ai giovani. Di non avere paura, di non averne troppa, di essere felici. Perché altrimenti ci si spegne e quando si è troppo spenti si teme la luce. Di più si inizia a detestarla. Non è più luce, è fuoco. Ed il fuoco attacca sul secco. Forse è per questo che Davide Rebellin, quarantanove anni suonati, è ancora qui. Fosse altrove, avrebbe paura di spegnersi.
Così quel ragazzino, che sulle spalle del padre, tiene un cartello. “Viva la Rai”, c’è scritto. Sembra un vecchio ritornello. Per lui spegnersi è non poter guardare. Oggi c’è papà che lo tiene in alto. Senza di lui, dalle transenne, non riuscirebbe a vedere. Fausto Masnada è un esempio concreto. I suoi primi giorni in Deceuninck-Quick Step li usa per andare davanti, per andare all’attacco. In CCC ha temuto. Ora è in un porto nuovo, tutti sanno quanto vale, lui sa qualcosa in più. Per quanto puoi valere se non rilanci, se non continui a sentirti, almeno un poco, incompleto, sei destinato a diventare cosa fredda e spenta. Tutti sanno quanto valgono le enciclopedie, ma, nelle sere che si spengono, cercano libri di storie, di avventure. Restare libri di racconti e non vecchie enciclopedie impolverate (e piene di vanto) potrebbe essere il suo insegnamento.
Giacomo Nizzolo, invece, può spiegare a tutti noi un’altra cosa. Il momento in cui gli uomini si spengono è influenzato dalla società e dalle circostanze ma è deciso solo da loro. Avesse tentennato un attimo in più, avesse avuto un dubbio in più, avesse ripensato a tutte le volte in cui una volata del genere può andare male, non sarebbe dove è ora. Si è concentrato solo sul proprio essere, non su Colbrelli, non su Ballerini. Solo da lui poteva venire una risposta. Da loro, dagli altri, sarebbe venuta una scusa, sin troppo semplice. Ha faticato per due anni, Giacomo, per quel maledetto ginocchio. Ha avuto paura, sicuramente. Forse la ha anche ora, un poco. Sì, perché ora è campione italiano. Lì, sul podio. In quella luce che c’è solo qui. Qui dove non ci si può spegnere.
Foto: Claudio Bergamaschi