Il mondo di Piemontgravel

Ai tempi dell'università, a Torino, Tazio Chiomio prendeva la bicicletta e, nel fine settimana, si dirigeva verso la collina, dall'alto restava a guardare, mentre i minuti scorrevano e lui nemmeno se ne accorgeva: da un lato, a sinistra, la grande città, elegante, sabauda, dall'altro i piccoli paesini e la natura incontaminata. Un contrasto, tra realtà urbana e il verde, i colli che guardano verso i monti, che, a ripensarci, è la perfetta descrizione del Piemonte stesso, emblematico dell'essenza di un territorio, della sua varietà. Luigi, suo padre, può testimoniare lo stesso: da sempre appassionato di ciclismo, anche lui ha girato in lungo ed in largo la propria regione (e non solo) in sella: quando, ad esempio, arrivava alle partite di calcio del figlio con la bici sotto mano, ancora sporco dalla terra e sudato dal tragitto, e si sedeva così sugli spalti a seguire la gara, oppure quando, ogni volta in cui, in famiglia, si partiva per andare da qualche parte, era sempre l'ultimo ad arrivare, in sella ovviamente, mentre Tazio, la sorella e la madre erano in macchina, e il primo a ripartire per tornare a casa in orario. Proprio vivendo in questo modo, per più di trent'anni, si era reso conto di quanto il Piemonte avesse da raccontare, molto più di quanto generalmente non si creda. PiemontGravel nasce da questa intuizione, nel 2019, ispirandosi a realtà già affermate come il Tuscany Trail ed ereditando, all'inizio, i percorsi usuali della zona, molto tosti, sia a livello altimetrico, 1500 metri, che di chilometraggio, quattrocento, cinquecento, talvolta seicento chilometri. Successivamente prenderà la forma di quel che è oggi, anche se, come specifica Tazio, l'evoluzione è continua.

«PiemontGravel si rivolge soprattutto al mondo gravel, ma non solo, qualcuno partecipa con mtb, qualcuno con bici da strada. Si corre su sentieri variegati, simili alle strade bianche, ma differenti, originali, direi. Abbiamo strade secondarie, single track, strade poco battute, lontane dal traffico, nel silenzio». Oltre le tracce ed i chilometri, c'è la potenzialità di una manifestazione che ha un dna importante e a cui Tazio vorrebbe dare una vocazione sempre più avventuriera, meno corsaiola, meno race, un evento, insomma, in cui, intorno alla bicicletta, possa ruotare tutta una serie di altre cose: la componente umana, le tradizioni di un luogo, la conoscenza della natura e del territorio. In fondo, anche Luigi ha sempre visto tutto questo nel girare dei pedali di una bicicletta, pur con un approccio differente: lui ed il figlio lavorano assieme, in uno studio di architettura, a Cavour, e ogni tanto ne parlano, oggi che, dopo che molti suoi amici, che lo aiutavano nell'organizzazione di PiemontGravel, hanno lasciato, Luigi ha chiesto al figlio di occuparsi in prima persona della gestione della manifestazione. «Immagino una sorta di transizione. Già all'università avevo vinto un concorso per il progetto di un modulo abitativo per cicloviaggiatori e camminatori, realizzato nel vercellese; così ho iniziato a pedalare in solitudine e ad assaporare tutto ciò che avevo intorno a me, mentre andavo incontro al vento». Il punto è proprio questo: bisognerebbe riuscire a godersi queste rincorse sui pedali, invece, spesso, non avviene.
L'immagine che Chiomio ci consegna è enigmatica: la testa bassa di alcuni ciclisti, a controllare la velocità, i chilometri percorsi, i watt sviluppati. «Il lato agonistico ci sta, assolutamente, ma non siamo professionisti e abbiamo un'enorme opportunità connessa alla bicicletta, un mezzo che, nell'arco di pochi giorni, permette di arrivare ovunque, di esplorare luoghi che non si erano mai visti o, per quanto, non si erano mai visti a quel ritmo, lento, ideale. Penso a quel signore che, lo scorso anno, ha concluso PiemontGravel dopo quattordici ore e 333 chilometri percorsi, con ben 12000 calorie consumate: quanto si è goduto ogni momento dopo l'arrivo? Di notte, come mi ha visto, mi ha subito detto: "Potrei mangiare dodici pizze adesso". Non è meraviglioso tutto questo?». Intanto avrà assaggiato il prosciutto di Cuneo, piuttosto che il vino Ceretto delle Langhe, abbondanti al traguardo, in una sorta di aperitivo, a raffigurare la territorialità, i prodotti del luogo. Dalle Langhe, forse la zona più conosciuta del Piemonte, nella progettazione dei percorsi ci si sposta, si allarga la prospettiva, fino ai piccoli paesini di campagna: oggetto di scoperta per chi viene dall'estero ma anche per i piemontesi che si sorprendono ogni volta.

La manifestazione inizia il venerdì pomeriggio, quest'anno il 5 aprile, con un briefing tecnico e qualche assaggio, e propone ai partecipanti quattro percorsi, fino al 2023 erano, invece, tre: il primo, da ottantadue chilometri ideale da percorrere in giornata esplorando le Langhe, gli altri maggiormente lunghi e variegati, tra collina, pianura, laghi, Prealpi. A dare il nome ad ogni traccia il numero dei chilometri, tranne la prima, il cosiddetto "111 sbagliato", un poco accorciato per permettere anche ai meno esperti di percorrerlo in giornata. Per il futuro sono tante le implementazioni che Tazio ha in mente, ma una radice deve restare salda: l'autenticità del viaggio. «Si parla di un evento bikepacking unsupported, qualcosa che si richiama al viaggio in solitudine, all'avventura. Bene, quando si pedala da soli non si ha una guida a indicarci la strada, non si hanno input esterni particolari. Si vede ciò che si vuol vedere e si va dove suggerisce l'istinto: noi non vogliamo imbrigliare questa libertà, desideriamo anzi lasciarla sfogare al massimo, perché ci piace, ci piace molto». Una libertà che è tale anche nel mezzo: la bici espone all'aria aperta, non rinchiude chi la guida in una struttura, nel frattempo permette di familiarizzare con la fatica: «Pensiamo a un figlio che gestisce un lavoro avviato perfettamente dai genitori e ad un ragazzo che, d'altra parte, costruisce passo passo la propria attività, con sacrificio, rinunce, certo, ma anche soddisfazioni. La fatica è il mezzo per raggiungere questa contentezza, questa serenità. Può trattarsi di un risultato finale, ma anche dei piccoli passi, delle tappe di un qualunque percorso, sui pedali o nella vita di ogni giorno».
Fino a quando PiemontGravel, da evento, importante per contribuire alla quotidianità della città, diventerà un percorso permanente, che potrà essere ancor più di sostegno, per il territorio e per la cultura del ciclismo e di un certo modo di intendere la bicicletta. Sì, il desiderio di Tazio Chiomio, dopo aver inserito la collina di Torino nel percorso, è proprio questo e sta già lavorando per realizzarlo.


Ancora Milano-Sanremo, giorni dopo

NOIA, ATTESA, FORTUNA

Milano Sanremo 2024 - 115th Edition - Pavia - Sanremo 288 km - 16/03/2024 - Michael Matthews (AUS - Team Jayco AlUla) - Jasper Philipsen (BEL - Alpecin - Deceuninck) - Tadej Pogacar (SLO - UAE Team Emirates) - Alberto Bettiol (ITA - EF Education - EasyPost) - Foto Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2024

Ogni anno va così: discuto, cavillo su cosa andrebbe fatto per cambiare "la Sanremo", mica uno stravolgimento, sia chiaro, inserire una salita tra Cipressa e Poggio sarebbe da provare, oppure indurire la seconda parte dopo l’inutile Turchino: ecco i due capisaldi del mio pensiero. Ogni anno va così: mi rendo conto di far parte di una minoranza che la pensa così, guardo la corsa, ugualmente e ci mancherebbe, me la godo, poi il finale è talmente folle che ore dopo ho ancora l’adrenalina a un livello da mandarmi quasi in tilt. Per certi versi non è la corsa giusta per smettere di fumare, ma è qualcosa che va molto vicino a procurarti problemi cardiaci.

“Hai visto?”, mi scrivono e io rispondo divertito ad alcuni messaggi sul telefono che si fanno gioco di me e della mia idea - agli slogan che distorcono la realtà non do molta importanza - comprendendo come, da un certo punto di vista, la corsa vada bene così, davvero, ma dall’altro restano i dubbi. Non riesco a togliermi l’idea che se il fascino della Milano-Sanremo risiede nell’incertezza e nella velocità finale, sostenere la retorica della “noia” è un argomento privo di buon senso. Mi sono sempre chiesto per quale motivo mi dovrei annoiare nel guardare una corsa di biciclette, semmai è l’attesa, quel repentino cambio di ritmo e facce che diventano smorfie, il climax che arriva pedalata dopo pedalata, ora in sella dopo ora insella, ecco è quello che nella Sanremo funziona. Ma il climax e i passi che lo portano a essere tale possono essere disegnati su un percorso capace di sfruttare altre risorse (Pompeiana, Manie, nei giorni abbiamo provato insieme ai nostri lettori a trovare dei rimedi, così per gioco) indurendo e selezionando ulteriormente il gruppo.

Tuttavia non resta che ammettere come quel finale mi renda pazzo, mi faccia amare e odiare al tempo stesso la corsa. Perché il suo apice spostato così avanti mi annebbia la vista, perché negli ultimi anni davanti abbiamo trovato i più forti a giocarsela e a volte per vincere ci vuole anche la fortuna, il momento. Prerogative dell'esistenza. Allo stesso tempo, però, la corsa mi lascia sempre un po’ di amaro in bocca, come quel film enfatizzato che ti piace, sì, ma non ti convincerà mai del tutto - ultimo esempio in ordine di tempo, Anatomia di una caduta, ma questo è tutto un altro discorso.

L’anno prossimo, in ogni caso, si ricomincia. E verso marzo inizierò a sostenere nuovamente quanto la Milano-Sanremo meriterebbe di stare al passo con i tempi, un po' di selezione in più, sia prima dei Capi che dopo la Cipressa, e così via, in continuo loop.

CRONACA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO

Milano Sanremo 2024 - 115th Edition - Pavia - Sanremo 288 km - 16/03/2024 - Michael Matthews (AUS - Team Jayco AlUla) - Tadej Pogacar (SLO - UAE Team Emirates) - Foto POOL Fabio Ferrari/SprintCyclingAgency©2024

Quello dell’UAE Team Emirates, squadra che spesso e volentieri domina, ma altre volte riesce a ricreare spettacoli grotteschi mandando in scena spaccati di tattica grandguignolesca. Mica è una novità? Già successo e già commentato - e sottolineato - quest’anno, poi magari l’esito è stato positivo perché quando ti ritrovi con la squadra con maggiore talento (e talenti) è più facile vincere, ma che in UAE Team Emirates facciano spesso fatica a mettere vicino una tattica decente non è certo una cosa che si scopre alla Sanremo.

Non mi è piaciuto come hanno impostato la vigilia: le dichiarazioni di intenti e i titoloni: «Dobbiamo correre la Cipressa in meno di 9’, abbiamo gli uomini apposta per farlo». Alzi la mano chi non ha avuto il pensiero che queste parole sarebbero state un boomerang diretto sulla corsa degli emiratini. In soldoni: chi si è meravigliato di vedere una squadra sciolta al sole sui primi tornanti della Cipressa? Eppure quando non li vedevano tirare fino ai Capi abbiamo anche pensato: ecco che preparano le manovre per sfondare il muro del suono verso Costa Rainera, e invece… invece alcuni corridori della squadra di Matxin e Gianetti, vedi Hirschi, si sono dimostrati inadatti al ruolo disegnato su di loro ovvero dare una mano al proprio capitano tirando a fondo. Mancato Hirschi (e per la verità anche Ulissi, giornata no, ma ci può stare, Ulissi si è sempre dimostrato importante uomo squadra quando chiamato in causa), è crollato completamente il castello costruito da Matxin, Gianetti e Pogačar . Del Toro (esordiente, il più giovane al via, va ricordato) ha lavorato per due e finché lavorava per uno il ritmo era insostenibile per molti; quando ha dovuto raddoppiare il suo sforzo ormai nessuno si staccava più. Il resto poi è noto. Wellens, che si è dovuto risparmiare con un ritmo blando sulla Cipressa, sale sul palco con il tempismo giusto, a metà Poggio, il suo lead out ha permesso a Pogačar di scremare ulteriormente il gruppo, ma non quanto sarebbe bastato, quanto era nei piani. Per lo spettacolo, avere una squadra così forte che ogni tanto concede dal punto di vista tattico e per gli sbalzi di forma dei propri interpreti, in fondo, non è un male per la corsa e chi la segue.

MATHIEU VAN DER POEL - UOMO SQUADRA, UOMO SANREMO

Milano Sanremo 2024 - 115th Edition - Pavia - Sanremo 288 km - 16/03/2024 - Jasper Philipsen (BEL - Alpecin - Deceuninck) - Mathieu Van Der Poel (NED - Alpecin - Deceuninck) - Foto Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2024

Grandi uomini, grandi capitani. La presenza di Mathieu van der Poel è tanto ingombrante quanto il suo fascino colpisce spettatori e corridori. Ma non sono solo i risultati: il lavoro messo in atto in coppia con Jasper Philipsen, da un paio di stagioni, ha consentito (o comunque l’apporto dell’altro ha avuto il suo peso, mettiamola così) a van der Poel di vincere una Parigi-Roubaix, a Philipsen di vincere diverse tappe al Tour e pure una Milano-Sanremo. Che poi le gambe del velocista belga, unite a una particolare alchimia con questa corsa, girassero a mille e un po’ a sorpresa - fino a poche gare prima il belga non aveva certo impressionato, anzi, ma viene il dubbio si fosse persino nascosto e preparato bene - insomma che ci sia tanto di Philipsen è innegabile. Ha tenuto sul Poggio diventando improvvisamente spauracchio per tutti quando ci si è resi conto che la sagoma del corridore Alpecin non era quella di Kragh Andersen, ma la sua, diventando così l’uomo per il quale Mathieu van der Poel, campione del mondo e vincitore uscente, avrebbe lavorato. Anche in questo caso, in futuro, per un po' di sano dramma, sarebbe succoso una corsa in cui entrambi vogliono e possono vincere a tutti i costi. Magari alla Paris-Roubaix.

SEGNALITALIANI

Milano Sanremo 2024 - 115th Edition - Pavia - Sanremo 288 km - 16/03/2024 - Matteo Sobrero (ITA - BORA - hansgrohe) - Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2024

Molto incoraggianti, e se questa espressione esce dalla tastiera di chi come me non è mai tenero nel definire il momento del nostro ciclismo tendente al buio di mezzanotte, significa che lo sono stati davvero. Sobrero è arrivato a poche centinaia di metri dalla possibilità di salire sul podio dopo aver pedalato bene sulla Cipressa e brillato sul Poggio: ora una top ten in due corse adatte a lui come Brabante e Amstel - sempre che le corra - possono essere un obiettivo. Sul Poggio, dietro i due favoriti, i più brillanti sono parsi oltre a Sobrero, Bettiol, 5° posto finale, dai tempi del Fiandre che il toscano non arrivava così vicino a cogliere una grande classica di questo livello, e Ganna: un problema alla bici lo estromette dalla lotta finale e chissà che la sua presenza non c’avrebbe portato a scrivere un’altra storia fatta di scatti nel finale, visto che a muoversi, poi, ironia della sorte, sono stati il compagno di squadra Pidcock e l'amico e "cognato" Sobrero. Che Ganna abbia un conto aperto con questa corsa è innegabile. Non credo nelle chiusure di un cerchio soprattutto nello sport, non penso come ciò che venga tolto uno poi se lo possa riprendere, anzi, ma spero che Ganna abbia una fiducia maggiore di quella che personalmente ripongo nel destino. C'è poi Milan che si è attrezzato per dare una mano ai suoi, staccandosi sulla Cipressa, rientrando e tirando per un paio di km all’imbocco dell’ultima salita prima di Sanremo, in futuro da capitano potrà provarci; ci sono Trentin 21° e Albanese 24°, a proposito di corridori con un certo feeling con questa corsa, Battistella, 22°, in quello che forse è il momento migliore da quando è passato professionista (abbiamo ritrovato un potenziale ottimo corridore?), Velasco 25° e presenti nel 2° gruppo a 35’’, anche Aleotti 36° e Scaroni 38°.

Ma un paragrafo a parte lo merita il bravo De Pretto, 28°, secondo corridore più giovane al traguardo, meglio di lui solo Pithie, classe 2002 anche il neozelandese, che chiude al 15° posto. In un ordine d’arrivo che ha visto solo 5 corridori nati dal 2000 in poi nei primi 41, perché è vero che il ciclismo sta diventando uno sport per giovani, ma alla Sanremo, dopo oltre sei ore di corsa, servono qualità che si migliorano col tempo.

Infine ultima menzione per Davide Bais, ormai specialista delle fughe, corridore che pare quasi di un tempo che non c'è più e che in questa maniera, la fuga che all'apparenza non ha speranza, ha conquistato al Giro d'Italia la sua unica vittoria in carriera. È il protagonista della fuga di giornata, ma non solo, una volta ripresi sulla Cipressa lui e i suoi compagni d'avventura, non contento, imperterrito, ci riprova in vista del Poggio.


Questionario cicloproustiano di Mirco Maestri

Il tratto principale del tuo carattere?
Sincero, altruista, determinato.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità, lealtà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Solarità, complicità.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Presenza e supporto (reciproco).

Il tuo peggior difetto?
Essere sincero.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Videogame.

Cosa sogni per la tua felicità?
Che la famiglia stia bene e che io riesca a contribuire al progetto della squadra.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcuno che amo.

Cosa vorresti essere?
Goku.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Gatto.

Il tuo scrittore preferito?
Akira Toriyama (fumettista).

Il tuo film preferito?
Forrest Gump.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Gli 883.

Il tuo corridore preferito?
Peter Sagan.

Un eroe nella tua vita reale?
Javier Zanetti.

Una tua eroina nella vita reale?
Jennifer Aniston.

Il tuo nome preferito?
Paperino.

Cosa detesti?
Spinaci.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler.

L’impresa storica che ammiri di più?
L'Impero Romano.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Colbrelli alla Roubaix.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.

Un dono che vorresti avere?
200 watt in più.

Come ti senti attualmente?
Bene, ma con l'idea di migliorarmi.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
"Insisti e resisti che raggiungi e conquisti".


Torto Cicli, Alba

Federico Torto era ancora un bambino, ma i suoi pomeriggi li trascorreva già in quel negozio di Corso Piave 93, ad Alba: ad un certo punto metteva da parte i libri e si guardava attorno, fra le biciclette e le attrezzature, qualche volta si affacciava dalla finestra e restava a fissare quel che accadeva dall'altra parte del vetro. All'orizzonte, si distinguono le colline del Barolo e del Barbaresco, una via di fuga affascinante per gli adulti, mentre le papille gustative già riconoscono le note fruttate e floreali delle uve, quelle speziate, magari, e gli occhi immaginano il colore rosso rubino, talvolta granato, nel calice, fra le mani. A un bambino basta molto meno, a Federico, ad esempio, bastava stare nei pressi del bancone e, quando qualcuno apriva quella porta, correre nel retro dell'officina e chiamare il padre che, spesso, era lì a lavare altre biciclette. I più piccoli si rendono utili così, si sentono grandi così e, nel frattempo, mentre imitano i genitori o i nonni, crescono davvero e, un giorno, anni dopo, sono dall'altra parte del bancone a raccontare la lunga storia, ben quarant'anni, dal 1983, di Torto Cicli. In volto e nelle parole, un'umiltà giovane e un pizzico di ritrosia, mista al forte senso di responsabilità tipico delle strade che si incontrano e si seguono, senza che nessuno le abbia imposte, senza, forse, averle nemmeno mai scelte del tutto, ma sicuri che siano quelle giuste. Così è successo, fra quelle mura, a Federico Torto.

«I tempi sono cambiati talmente tanto, sia a livello di società che a livello economico, che la responsabilità è sempre più forte. Non credo che potrò mai fare meglio di mio padre, forse non potrò nemmeno mai eguagliare quello che lui ha fatto. Una volta, i sacrifici erano molti, ma, assieme, c'era anche una sottile spensieratezza ad accompagnarli: di questi tempi, la spensieratezza è quasi impossibile da trovare e questo complica le cose. Nel mio piccolo, sono contento di aver portato avanti l'attività, di non averla abbandonata, di non essermela dimenticata come, purtroppo, succede tante volte. Capita che i negozi chiudano o che vengano messi da parte: non l'ho fatto e succede ancora di andare in quel retro officina e chiamare papà, quando qualcuno entra da quella porta. Come ai vecchi tempi». Tanti di questi pensieri svaniscono appena mette le mani su una bicicletta: l'aspetto meccanico resta quello che più gli piace, quando si approccia a una bici, da lì arrivano le endorfine e la dopamina che lo fanno stare bene e lo gratificano mentre si prende cura del mezzo e fa manutenzione. Il mezzo è un oggetto pieno zeppo di libertà: «Subisco il fascino di quella libertà totale. Una bicicletta non ha serbatoi, non richiede carburante, bastano le gambe fresche, riposate o stanche ma ancora ostinate, ed è possibile andare ovunque, senza alcun limite, nei paesi vicini o in quelli lontani, dietro le montagne». Suo padre Costanzo, probabilmente, ha iniziato anche per questo, per una voglia sottile ma profonda di trasmettere questa idea alle persone che incontrava. Pensate che gestiva una squadra di cicloamatori: bici e divise tutte uguali e anche qualche ex professionista che, dopo la carriera, pedalava con loro: oggi succede spesso, ai tempi del signor Torto era qualcosa di innovativo, da pionieri.

Qualche volta, il signor Costanzo si rivolgeva a Federico, proprio nei momenti in cui stava riparando qualche bicicletta: «Lavora bene. Ricorda che serve lo stesso tempo a fare un lavoro fatto bene od un lavoro fatto male, ma di quello fatto bene potrai essere fiero. Impara dall'esempio perché è da lì che vengono gli insegnamenti più importanti, prima si guarda, si ascolta e poi si applica, cercando di stare il più attenti possibili ai dettagli, che fanno la differenza». Il loro rapporto si è sincronizzato nel tempo e ciascuno, con le proprie caratteristiche, ha cercato di completare il lavoro dell'altro. Al suo ingresso a titolo definitivo nel negozio, nel 2011, Federico Torto ha pensato alle novità, a modernizzare, ad aggiungere qualcosa, a cambiare qualcos'altro, nel segno dei tempi che gli corrispondevano, che viveva, e che si riflettevano anche nel settore biciclette: era aumentata la professionalità, la base dell'oggetto era la stessa, ma nei dettagli c'era molta più tecnica, così ogni attrezzatura diventava più delicata e anche per la manutenzione serviva un'attenzione finissima. Si andavano a toccare biciclette provenienti direttamente dal futuro, era davvero difficile, impegnativo.
Suo padre gli lascia spazio, fa in modo che la gestione delle novità sia davvero "una cosa sua": «Papà lo ha fatto nel modo più onesto possibile. Certe volte si lascia un incarico a qualcuno più a parole che nei fatti, si fa fatica a fidarsi davvero dei cambiamenti, delle innovazioni. Allora resta la paura di sbagliare, il giudizio in agguato, e non si lavora tranquillamente. Mio padre si è sempre fidato delle mie idee e me lo ha dimostrato, permettendomi di renderle reali, di applicarle».

Il locale, in cui questa storia è cresciuta e con lei Federico, è medio grande, l'idea è quella di un restyling, a breve: il colore che fa da sfondo è il celeste, una sorta di richiamo alle biciclette Bianchi. Lo spazio espositivo è abbastanza semplice, le biciclette sono esposte frontalmente, sulla sinistra, per ogni tipologia, da quelle che domano le colline dei vini a quelle a pedalate assistita, su un soppalco, invece, troviamo lo spazio dedicato ai più giovani, dai tre ai quattordici anni, mentre sotto c'è il reparto abbigliamento.
Proprio guardando al soppalco, Federico Torto pensa alla scelta della prima bicicletta, qualcosa di cui lui è spesso testimone, un momento da ricordare, ma anche una grande responsabilità: «Io dico spesso che chi va in bicicletta è coraggioso e dobbiamo essergliene grati, ringraziarlo perché affronta da solo, ogni giorno, una realtà che spesso si disinteressa di lui. Chi pedala cerca di sconfiggere questa forma di menefreghismo e di "violenza". La frase tipica è: "Non ti ho visto". Mi sembra un'affermazione davvero grave: significa che, come automobilista, non contempli nemmeno la possibilità della mia presenza in bici. Di più: ti fai forte della tua auto e ignori i più deboli sulla strada, inveendo contro un ciclista per un secondo di attesa, ma portando pazienza se tocca rallentare per un trattore. Nella nostra società, un ciclista pare quasi un elemento di disturbo. Perché? Qualcuno può spiegarmelo? Sì, a livello urbano c'è molto da fare e la responsabilità spaventa. Ci sono le strade sterrate, gravel, noi consigliamo anche questi percorsi, ma un ciclista non può dover fuggire dalla strada per sentirsi sicuro. Non è giusto. Bisogna continuare con la formazione, sempre più». Le colline, quelle ordinate, pulite, della zona di Alba, sono per eccellenza luogo di pace e tranquillità, fuori dal caos della quotidianità, Torto ci indica i percorsi verso Monforte e verso La Morra, i suoi posti preferiti. Il consiglio, spesso, ai turisti, è quello di viaggiare con una e-bike: le pendenze non sono sempre agevoli, un piccolo aiuto è la soluzione ideale per non privarsi del vento in faccia e della continua scoperta che rappresenta la velocità di una bicicletta nell'osservazione, durante un viaggio.

Muovendo altri passi, si arriva all'officina, nel retro del negozio, ma ben visibile: «In realtà è la parte centrale della nostra attività, perché è qui che possiamo fare la differenza, che possiamo rompere gli schemi. Le porte del cambiamento sono le porte dell'officina. Quando ha iniziato mio padre, le bici portavano il nome di chi le produceva, poi è stato il momento dei brand e della promozione dei brand. Ora anche i brand sono consolidati, ma diventano asettici se non si mette al centro la persona. Allora è spesso il luogo in cui si compra la bicicletta a fare la differenza. Un posto in cui si racconti la storia di quell'oggetto, dove lo si provi e lo si racconti, lo si descriva. La persona è il fulcro di tutto». Allora da Torto Cicli qualunque prodotto viene testato, d'estate e d'inverno, e, successivamente, narrato: la tesi è che l'affezione nei confronti della bicicletta aumenti sempre più conoscendone la storia, un poco come accade con le persone che entrano ed escono da una casa o da un negozio. Una questione di confidenza, insomma.


Torto Cicli vuole essere tutto questo: un negozio che somigli ad una casa, quindi non più solo un negozio ma un punto di ritrovo, di aggregazione, in cui la porta che Federico osservava da bambino si apra sempre di più ed accolga le persone che sono là fuori, con le stesse idee, magari con qualche sogno comune e la voglia di parlarne, di scambiarsi prospettive e desideri, una sorta di piccola comunità: «Mi piace il verbo "umanificare". Cerchiamo di umanificare l'acquisto di una bicicletta. Tutte le persone raccontano quel che cercano, il nostro compito è capirlo e lavorare perché, fuori da qui, possano vivere un'esperienza che sia la più simile possibile a quella che avevano in mente». Al centro di quel punto di incontro sempre la bicicletta e varie sfaccettature di libertà: «Qualcuno la usa per gareggiare, qualcuno per un viaggio, altri semplicemente per una gita, la domenica mattina. La bicicletta è tutto questo e molto altro. Fa bene alle persone stesse, mentre la utilizzano, e fa bene al mondo, perché non inquina, perché è ecologica. In ogni spostamento permette un considerevole risparmio di tempo e tutti vogliono avere più tempo. Insomma la bicicletta è un oggetto che entra sempre più in vari ambiti della nostra quotidianità, che deve entrarvi. Per questo è così ricercata e su di lei c'è sempre più attenzione».
Tutto intorno ancora le colline, un cliente arriva, chiede un pezzo a cui Federico Torto aveva lavorato nei giorni precedenti, suo padre lo cerca, gli chiede qualcosa, uno scambio di informazioni e si ritorna dal ciclista che aspetta, guardandosi in giro, con curiosità: un gesto semplice, basilare, profondo ed immutato, che si ripete uguale. Fino a quando ci sarà una bicicletta e fino a quando ci sarà un negozio di biciclette.


La Milano-Sanremo e i suoi scenari

Milano Sanremo: corsa che ha del filosofico. Marcia ambigua: polarizzante nel dibattito che la precede e nel suo svolgimento. Corsa che non lascia speranze allo spettatore: ore di nulla prima di un finale che si accende all’improvviso; quaranta, quarantacinque minuti di crescendo che spesso ti manda il cuore in orbita.
Si vive in maniera empatica con i corridori:  il mal di gambe aumenta progressivamente, è vero si sta in pancia al gruppo per mezza giornata, ma dopo un po’ le ore ti consumano, così come le ore ti consumano a guardare poco e nulla se non panorami che conosci a memoria, fino a quello che il più delle volte è un tumultuoso epilogo finale. Più che Tarkovskij, Hamaguchi.
Corsa dai risvolti più disparati, da lì forse il fascino, quando questo non è legato a una meravigliosa abitudine.

 

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Abbiamo provato a immaginare cinque scenari, consapevoli che poi sarà il sesto quello che si avvera.

SCENARIO 1 - Ovvero Pogačar e van der Poel che se ne vanno.

Milano Sanremo 2023 - 114th Edition - Abbiategrasso - Sanremo 294 km - 18/03/2023 - Tadej Pogačar (SLO - UAE Team Emirates) - Filippo Ganna (ITA - INEOS Grenadiers) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Le Manie o non Le Manie (nel momento in cui scriviamo non è stata ancora presa una decisione in merito all’inserimento della salita a causa di problemi di viabilità sul percorso per via di una frana) questo è lo scenario che tutti ci aspettiamo. Gara dura dalla Cipressa: UAE a tutta, con Covi, Hirschi e Ulissi; si scollina ancora in tanti, ma non tantissimi, soprattutto pochi quelli che salvano le gambe. Si arriva in pianura, tirano sempre loro, a tutta, fino al Poggio e poi di nuovo marce alte, ancora l’UAE che usa prima Del Toro e poi Wellens che a un certo punto si sposta. Sparata di Pogačar - stavolta solo una e al momento giusto  - e van der Poel unico a rispondere. I due se ne vanno. Discesa, rettilineo finale, vince il migliore. In alternativa Pogačar fa il vuoto anche su van der Poel che resiste in discesa al rientro del gruppo o ciò che c'è dietro: fanno primo e secondo. La costante è un gruppetto dietro che si gioca il terzo posto sul podio e gli altri piazzamenti.

Favoriti scenario 1

⭐⭐⭐⭐⭐Pogačar, van der Poel
⭐⭐⭐⭐
⭐⭐⭐ Laporte, Pedersen, Pidcock
⭐⭐
⭐ Bettiol, Van Gils

 

SCENARIO 2 - In solo, ma più a sorpresa: ricordate Nibali o perché no, Mohorič?

Milano Sanremo 2018 - 109th Edition - Milano - Sanremo 294 km - 17/03/2018 - Vincenzo Nibali (ITA - Bahrain - Merida) - photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2018

È una corsa un po’ sorniona, sonnacchiosa, il vento contro non permette chissà cosa sulla Cipressa, sull’Aurelia si sta bene a ruota e così sul Poggio. Tutti aspettano una mossa: UAE, Alpecin, chi altro? Ci prova qualcuno, si guardano i migliori, un corridore da solo se ne va, allunga o mantiene in discesa, vince in solitaria. Scegliete voi chi, il ventaglio dei nomi è ampio.

Favoriti scenario 2

⭐⭐⭐⭐⭐ facciamo venticinque, trenta corridori di ogni genere. È il bello della Sanremo, no?

 

SCENARIO 3 - Il Gruppetto assottigliato.

Milano Sanremo 2021 - 112th Edition - Milano - Sanremo 299 km - 20/03/2021 - Jasper Stuyven (BEL - Trek - Segafredo) - photo POOL Tim de Waele/BettiniPhoto©2021

Restiamo sul classico. La corsa inizia a farsi seria sulla Cipressa dove a un’andatura alta, ma costante, buona parte del gruppo risponde bene. Sul Poggio si va su una meraviglia, anche qui regolari, ma sempre più forti, a ruota, nemmeno a dirlo, si sta da Dio e si risparmia qualcosa. Fondamentale il posizionamento, già essere intorno alla quindicesima, ventesima ti taglia fuori. Poi iniziano gli attacchi, ci prova Pogačar (chi sennò?), rispondono bene van der Poel, Laporte, Pedersen, spunta la sagoma di Cosnefroy, con i denti anche Bettiol, Mohorič, Trentin, Pidcock, Skuijns, c'è persino Del Toro, inserito all'ultimo e all'esordio in una corsa così lunga, poi altri restano lì in scia. Differenza c’è, ma poca. Si arriva su, alla svolta, e in discesa si resta sfilacciati. Nel gruppetto c’è un po’ di tutto: uomini da classiche fatti e finiti, novità degli ultimi tempi, gente che ha una certa affinità con la Sanremo, sorprese assolute. L’epilogo in questo caso è avvolto nella nebbia. Una cosa è certa: non bastano velocità ed esplosività, ma ci vuole fortuna magari nel partire al momento giusto e c’è poi bisogno che nelle gambe sia rimasto qualcosa: alla Milano-Sanremo, nonostante si viaggi in gruppo per quasi tutta la gara, il serbatoio si svuota inevitabilmente.

Favoriti scenario 3

⭐⭐⭐⭐⭐ Laporte
⭐⭐⭐⭐Pedersen, van der Poel
⭐⭐⭐ Pogačar 
⭐⭐ Van Gils, Bettiol, Pidcock, Scaroni, Mohorič
⭐Skuijns, Cosnefroy, Trentin, Zimmermann, Ganna, Neilands, Wellens, Kwiatkowski, Narvaez, Velasco, Albanese, Del Toro

 

SCENARIO 4 - La Cipressa oppure il pensiero pieno di fiducia.

Milano Sanremo 2020 - 111th Edition - Milano - Sanremo 305 km - 08/08/2020 - Cipressa - Tadej Pogacar (SLO - UAE - Team Emirates) - Giulio Ciccone (ITA - Trek - Segafredo) - Foto POOL Nico Vereecken/PhotoNews/BettiniPhoto©2020

Gli inglesi usano un termine che suona benissimo: wishful thinking. In italiano esiste il suo corrispettivo, pensiero speranzoso, fiducioso, e visto che siamo alla Sanremo lo preferiamo, anche se magari in altre sedi siamo indotti a usare l’espressione anglofona. Senza entrare nel merito di cosa sia giusto o sbagliato, immaginiamo un attacco sulla Cipressa. È Pogačar che ci prova, non fa il vuoto ma porta via i migliori. In discesa il vantaggio aumenta, al ritorno sull’Aurelia, quando di solito da dietro si fa in tempo a chiudere, in gruppo ci si guarda un po’ troppo. E il gruppetto, quello di testa, invece, e che comprende i favoriti, gira a meraviglia, diverse le squadre di punta rappresentate e la corsa è già selezionata prima del Poggio, dove, succeda quel che succeda, tanto già fino a questo momento è stata una corsa bellissima. Il Poggio darà comunque il suo verdetto definitivo: sparpaglio dato dalla durezza della corsa. Si arriva, giù a Sanremo, uno alla volta o poco più mentre dietro ci si raggruppa per un piazzamento nei dieci, venti.

Favoriti scenario 4

⭐⭐⭐⭐⭐Pogačar 
⭐⭐⭐⭐ Laporte, van der Poel, Pedersen, 
⭐⭐⭐Pidcock, Bettiol, Vermaerke, Mohorič, Van Gils
⭐⭐ Scaroni, Cosnefroy, Matthews, Vendrame, Albanese, Pithie, Strong, Wellens
⭐ Milan, Trentin, Mayrhofer, Beullens, Lamperti, Velasco, Del Toro, Hirschi, Ganna, Kooij, Philipsen

 

SCENARIO 5 - La volata di gruppo

Milan Sanremo 2017 - 108th Edition - Milano - Sanremo 291km - 18/03/2017Ê- Fernando Gaviria (COL - QuickStep - Floors) - Alexander Kristoff (NOR - Katusha - Alpecin) - Arnaud Demare (FRA - FDJ) - John Degenkolb (GER - Trek - Segafredo) - Foto Dario Belingheri/BettiniPhoto©2017

Gruppo a giocarsi la vittoria più o meno numeroso - scegliete voi, un po’ come il triennio 2014 (Kristoff), 2015 (Degenkolb), 2016 (Démare), o quelle di inizio millennio - tra i venticinque e i trenta corridori. E allora in questo caso entrano in scena quelli veloci, che resistono alle ore di corsa, alla Cipressa fatta con buona andatura, al Poggio a tutta, ma non così selettivo. Venticinque, trenta corridori, e in mezzo a loro i più forti velocisti resistenti al via. Sì, pure Philipsen o Kooij.

Favoriti scenario 5

⭐⭐⭐⭐⭐ Kooij
⭐⭐⭐⭐Milan, Philipsen
⭐⭐⭐Pedersen, van der Poel
⭐⭐Waerenskjold, Kristoff, Matthews, Lamperti, Strong, Pithie
⭐Ewan, Mayrhofer, Trentin, Cimolai, Stuyven, Girmay, Vendrame, Van Poppel, Bol, Démare, Bittner, Ganna

E voi, quale scenario immaginate?


Il questionario cicloproustiano di Samantha Arnaudo

Il tratto principale del tuo carattere?
Credo sia la resilienza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
L’empatia.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
L’attutire la mia sincerità in certe circostanze, senza offendersi.

Il tuo peggior difetto?
Essere troppo severa con me stessa.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Pedalare in montagna.

Cosa sogni per la tua felicità?
Credo la felicità sia una scelta giornaliera, scelgo di vivere come credo giusto e senza rimpianti, inseguendo i miei sogni e stando con chi mi ama veramente.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Preferisco non pensarci.

Cosa vorresti essere?
Vorrei essere di ispirazione.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Per il cibo, il clima e i paesaggi l’Italia, per il “sentire-rispettare il ciclismo come sport nazionale” in Belgio o Olanda.

Il tuo colore preferito?
Fucsia.

Il tuo animale preferito?
Gatto.

Il tuo scrittore preferito?
J.K. Rowling.

Il tuo film preferito?
Harry Potter.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Muse.

Il tuo corridore preferito?
Marco Pantani e attualmente Wout Van Aert.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.

Il tuo nome preferito?
Tommaso e Beatrice.

Cosa detesti?
Fare i rulli.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Berlusconi.

L’impresa storica che ammiri di più?
L’invenzione della ruota

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Marco Pantani a Oropa.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d’Italia

Un dono che vorresti avere?
Rivivere alcuni momenti da prospettive diverse.

Come ti senti attualmente?
Serena e grintosa.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
I sogni, se ci credi, non sono che realtà in anticipo.


Tra Lettonia e Marche: intervista ad Anastasia Carbonari

«In agosto, prendevamo sempre un volo diretto in Lettonia per andare a trovare i nonni. A tavola c'erano i piatti di carne, le zucche e le patate che cucinava nonna, al parco vicino casa, invece, le corse in bicicletta dei bambini: si vincevano caramelle e poco altro, magari qualche giornalino. Sono ancora terre povere rispetto all'Italia. Noi portavamo qualche coppetta di quelle che qui si conquistano nelle gare giovanili, da mettere in palio, e quei bambini esultavano come se avessero vinto la Parigi-Roubaix. Uno degli anziani signori che organizzavano le corse segue ancora il mio percorso, vede le mie fotografie». La maglia di campionessa nazionale lettone che Anastasia Carbonari indossa tutt'oggi e la maglia della nazionale che veste nelle competizioni internazionali assumono, allora, un significato particolare, al termine di questo racconto. Sono maglie che Carbonari ha scelto, lei di Montegranaro, in provincia di Fermo, nelle Marche, una zona in cui mancano gare e squadre di ciclismo. Tante volte ha pensato a quella ingiustizia, spesso al ritorno da lunghi viaggi, lontano, mentre guardava fuori dalla finestra e si diceva che «non c'è panorama più bello di quello di casa», almeno per lei.

Vuelta Ciclista Andalucia Ruta Del Sol 2023 - Anastasia Carbonari - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Eppure è così, non ci si può fare nulla, ha imparato a convivere con quel "torto" di cui nessuno ha colpe. Di Riga è sua madre ed in Lettonia sono rimaste le sue origini anche oggi che i nonni sono mancati. Sta cercando casa a Bergamo, assieme al compagno, per motivi di lavoro, di entrambi, e, giusto qualche settimana fa, ha riflettuto sul vicino aeroporto, sulla possibilità di volare ancora in Lettonia, non solo per i Campionati Nazionali, in ottobre. Forse, per Parigi, partirà proprio da quell'aeroporto, per l'Olimpiade a cui pensava di non qualificarsi ed invece ce l'ha fatta e vi parteciperà con la maglia rosso scura, con una linea bianca, della Lettonia. In UAE Team Adq, Carbonari arriva quest'anno, a ventiquattro anni, classe 1999, dalla squadra Development: passista, tiene bene su strappi brevi e può giocarsela in volate ristrette, Uno dei suoi punti forti è, senza dubbio, la lettura della corsa, spiega di aver imparato correndo spesso in testa al gruppo, anche per il timore di restare nelle retrovie nelle fasi concitate di gara, ma, in questa capacità, rientrano anche tutte le competizioni viste in televisione, sin dall'infanzia, quando con la sua bicicletta girava in cortile e, mettendo una bottiglia di plastica sul tubolare, fingeva di essere una motociclista. Avrebbe scoperto solo anni dopo che essere una ciclista di mestiere significa «dover provare ad eccellere in ogni singolo dettaglio», qualcosa che, successivamente, si tende a traslare in ogni campo, quasi come un'abitudine. Nel 2022, al passaggio in Valcar, dopo anni complessi e una prima parte di carriera «abbastanza tormentata», Anastasia Carbonari si era promessa che avrebbe provato a dedicarsi solo al ciclismo, per vedere se, davvero, era la sua strada, se veramente avrebbe potuto essere il suo mestiere. Bastava davvero poco, in quel momento, per metterlo in dubbio: «Magari sbagliavo un allenamento o una gara mi andava storta ed entravo in un circolo vizioso in cui non esisteva più nulla di positivo. Non mi sentivo forte, non mi sentivo preparata, non mi sentivo un'atleta e passavo ore a chiedermi se non avessi sbagliato a correre in bicicletta». Solo pochi anni prima, nel 2019, dopo il Campionato italiano a Notaresco, in cui portò a termine una buona prestazione, si era quasi convinta di poter veramente essere una ciclista. Quella mattina di fine luglio era uscita così, in allenamento.

Internationale LOTTO Thuringen Ladies Tour 2023 - Anastasia Carbonari (UAE Team ADQ) - Foto Arne Mill/SprintCyclingAgency©2023

Un automobilista la investe, l'impatto è forte: frattura di una vertebra e la stagione finita lì. Poteva andare anche peggio, sul momento c'è un sospiro di sollievo, poi giorni e giorni, settimane, d'inferno: «Ero a letto, completamente immobile, non potevo fare nulla: alzarmi, prepararmi da mangiare, lavarmi. Avevo bisogno dei miei genitori e di mio fratello anche per i gesti più piccoli, quelli che solitamente ci paiono naturali». Tornò, anche se pareva impossibile in quegli istanti. Quasi mille giorni dopo, al Simac Ladies Tour, in ospedale, era accanto a Davide Arzeni, che l'aveva voluta in Valcar, e, mentre lui cercava di consolarla, dopo una caduta, a lei vennero solo poche parole: «Speriamo, Davide. Perché un'altra volta non la sopporterei, non tornerei più a correre, sarebbe troppo difficile». Il verdetto fu, se possibile, peggiore: cinque vertebre e sei costole fratturate. Eppure Anastasia Carbonari, oggi, è ancora una ciclista.
«Non so se sia il ciclismo ad aver formato il mio carattere, di sicuro, però, i due aspetti sono legati. Senza questo carattere non avrei potuto essere una ciclista e senza essere una ciclista non avrei avuto questo carattere, forse non mi sarebbe servito». Di arrivare fino al livello in cui è oggi non l'avrebbe nemmeno mai pensato. Al Giro d'Italia del 2021, il suo primo Giro, il carattere le servì la mattina in cui in corsa arrivò Roberto Baldoni, team manager di Born To Win. La partenza della tappa del 9 luglio era a San Vendemiano, l'arrivo a Mortegliano: proprio prima che la bandierina si abbassi, Baldoni parla con la squadra. «Oggi voglio qualcuna di voi all'attacco»: lo sguardo vaga tra le atlete, fino a che trova Anastasia e la indica. «Non mi sentivo pronta, non sapevo cosa pensare e nemmeno cosa fare. C'erano tante atlete forti, più forti di me, come avrei fatto ad andare in fuga? Tra l'altro, la fuga, in quella tappa, non riusciva nemmeno ad andare via». Carbonari, invece, se ne va, su una ripartenza, guadagna secondi, minuti, resta davanti per circa cinquanta chilometri, viene ripresa solo agli otto chilometri dal traguardo: «All'inizio, mi sembrava impossibile. Non sai quante volte mi sono maledetta, mentre ero a tutta. Maledivo me e le mie folli idee. Alla fine, però, quasi ci credevo. Non avevo nessuna esperienza, non sapevo che il gruppo lascia fare e rientra all'ultimo, tutto mi sembrava straordinario ed in un certo senso lo era. Non mi sono più rivista, non mi piace rivedermi, ma ricordo quasi tutto di quei momenti».
Davide Arzeni la seguiva da tempo, dalla sponda Valcar, in un periodo in cui, dopo l'addio di molte atlete, la squadra si doveva ricostruire. Probabilmente quella fuga ha aggiunto l'ultimo tassello, per proporle il passaggio di team. Studiava Scienze Politiche, l'appassionano i rapporti tra Stati ed il diritto Internazionale, ora studia Scienze Motorie. Non si abbatte più per un allenamento andato male, per i giorni in cui le sensazioni non sono buone, sa che può succedere, basta riposarsi e ripartire il giorno seguente. Intanto si cimenta in quella che definisce "gavetta" e che ritiene essenziale per l'atleta che potrà essere un domani. Quando ancora aspetterà un volo per la Lettonia e, al ritorno a Montegranaro, dopo settimane di gare, guardando fuori dalla finestra, sarà certa che casa è solo nelle Marche.


Bike Line, Bagnacavallo

«È una bottega, un piccolo negozietto, molto intimo, quasi romantico, dove la gente non arriva solo per una riparazione o per un acquisto, ma, ancora prima, per raccontare un'uscita, per parlare di bicicletta e biciclette, spesso per riempire l'attesa tra un appuntamento di lavoro e un altro. Mentre i fiori di maggio pullulano nei campi e pendono dai vasi, sui balconi, qualche sedia e, al nostro tavolino, si seguono le cronache del Giro d'Italia, quando, invece, luglio imbiondisce le spighe del grano, le parole arrivano dal Tour de France. Queste pareti non conoscono il silenzio, perché il brusio ed il continuo vociare sono linfa vitale, che corre in ogni nervatura, simile a una pianta in una primavera eterna. Questa bottega è fatta da tante cose, soprattutto, però, dalle persone, che da quel tavolo si alzano, aprono il frigorifero, prendono una birra gelata, in estate, se la versano e, con ancora l'amarognolo a pizzicare il palato, continuano a raccontare». Siamo a Bagnacavallo, in Emilia Romagna, in provincia di Ravenna: il paese del dolce di San Michele, una base di pasta frolla, rivestita di gelatina di frutta o ricoperta con panna, poi decorata con disegni geometrici costruiti con mandorle, noci, pinoli e nocciole, come ci dice un signore, interpellato per cognome o, forse, per soprannome (tal Capucci, assonante nel cognome al ben noto ciclista Chiappucci) da Fabio Conti, al bancone di Bike Line di Mattia Zoli, in via Giuseppe Garibaldi 74. Se cercassimo su un vocabolario Bike Line, troveremmo proprio il lemma che Fabio ci ha esposto poco fa.

La terra è una terra legata al ciclismo, radicato, storico, eroico: un fatto che i nonni trasmettono ai nipoti, ad accompagnarli tra l'infanzia e l'adolescenza, tutti ne parlano e tutti sanno che, poco lontano da qui, a Cotignola, è nato Alan Marangoni. Bagnacavallo è un paese vivo, dinamico, probabilmente il posto giusto per una persona come Fabio Conti che ama la natura e che crede «nell'essenzialità della bicicletta, anche dal punto vista meccanico, un aspetto che, a differenza delle auto, conosciamo approssimativamente tutti, perché quasi tutti abbiamo provato a metterci mano, nella sua capacità di riportare ad uno stato più genuino, sconfiggendo la continua frenesia in cui siamo costretti a vivere ad una velocità accelerata che non è quella degli esseri umani. In bicicletta respiro, sento gli odori, i profumi, sto in mezzo ai boschi, torno bambino. Certo, la bicicletta è essenziale anche nella meccanica, nelle sue componenti, ma l'essenzialità permea tutto ciò che la riguarda». La storia di Bike Line inizia ad essere scritta, da queste fondamenta, nel 2020, nel periodo della pandemia: assieme a Fabio Conti c'è Mattia Zoli, in bicicletta sin da bambino, alle gare, nel dilettantismo, per arrivare ai viaggi ed alle avventure. Quel locale, in fondo, fa come le biciclette che vi sono ospitate, come qualunque bicicletta, come quelle su cui pedala anche Conti: permette di riscoprire il primo contatto con gli altri, dopo l'isolamento, una ritrovata socialità, già a partire dal 2021, fino ad evolversi, in maniera naturale, non pensata o studiata, a diventare quella linfa vitale di cui accennavamo ed a formare, nel tempo, una comunità. «La bicicletta non può essere associata ad una sola idea, è molto di più, e, più pensiamo di conoscerla, meno torniamo vergini rispetto al suo incontro, più perdiamo occasioni. Chiunque sa rispondere ad una domanda su cosa sia una bicicletta, però molte sono risposte incomplete, che non prendono in considerazione tutte le possibilità: è un mezzo di trasporto, prima di tutto, anche se spesso non la pensiamo come tale, ma è anche un mezzo per fare sport, attività fisica, è molto altro, è tutto, azzeriamo le idee che già abbiamo e ripartiamo da zero, forse, allora, scopriremo tutto quel che c'è fra la catena, i freni, i raggi e tutti gli ingranaggi».
A questo azzeramento e ad un nuovo inizio, contribuiscono senza dubbio gli eventi che Bike Line organizza e quelli a cui partecipa: in agenda, ad esempio, Veneto Gravel e Tuscany Trail.


La vigilia è preceduta da tutta una serie di incontri in preparazione, sia a livello di allenamento che di nutrizione, ma anche a livello tecnico, il cambio della catena o della camera d'aria, supporto, quasi psicologico, per i dubbi che, ovviamente, assalgono alla vigilia di una prova a cui, magari, il fisico non è abituato, oppure, semplicemente, laddove si teme la valutazione, il giudizio, anche se ci si sta divertendo: «Ora accade meno, bisogna riconoscerlo, ma parte delle remore di alcune persone nel mettersi in sella erano, e talvolta ancora lo sono, date dall'immaginario dell'atleta perfetto, con un fisico impeccabile, inavvicinabile, a tal punto che, per evitare di "sfigurare", non sentendosi all'altezza, si evitava a priori di uscire in bicicletta. Questo scenario è stato molto ridimensionato dall'avvento del gravel, una disciplina che, pur comportando fatica e sacrificio, accomuna una vasta platea con caratteristiche differenti». La bicicletta, confessa Fabio Conti, sulle orme di Alfredo Martini, è amicizia: si progettano lunghi giri, chilometri e chilometri, con chi ci è già amico ed allo stesso tempo si conosce chi ancora ci è sconosciuto fino a diventare amici.
La bicicletta è anche sincerità, nulla è più sincero e onesto della fatica, così anche il mestiere di chi ha a che fare con le biciclette deve comprendere questo elemento, sin dal primo incontro, varcata la porta del locale: «All'inizio essere sinceri può fare paura, perché chiunque arrivi qui ha un'aspettativa, probabilmente anche un'idea abbastanza precisa della bicicletta che vorrebbe. Noi dobbiamo avere l'onestà di dire se, filtrata da ciò che chiediamo e dalla nostra professionalità, la scelta del cliente sia corretta per lui oppure no. Talvolta ci si illude, si desidera quel che non fa per noi e, se nessuno ci mette in guardia, può diventare un problema. Noi lo diciamo, sul momento c'è anche il rischio di perdere il cliente, va corso. Ne vale la pena a livello etico e, siccome comunque non facciamo filosofia ma commercio, anche a livello commerciale. Forse la persona in questione andrà altrove, ma, poi, tornerà e la fiducia, costruita su quella sincerità, sarà più forte». Dal negozio parte una sorta di traccia, di percorso permanente, un giro veloce per chiunque voglia mettersi alla prova, dal sito, inoltre, è possibile accedere ad un itinerario di circa trenta chilometri, un'ora e un quarto di pedalate, con partenza e ritorno a Bike Line e lunghi tratti tra le valli e le colline romagnole, denominato "Scaramello".


Le strade sono tante e portano ovunque, come le biciclette, ma la realtà ha sempre più spigoli di quelli immaginabili: «Pedala la signora che va a comprare il pane, pedala il ragazzino che va o torna dalla scuola, qualche difficoltà in più si riscontra con le distanze maggiori, il problema principale resta, anche se duole dirlo, la mancanza di infrastrutture che rende difficile muoversi in modo sicuro e confortevole. Certo, anche il rispetto è un punto, ma su quello non abbiamo grosse chiavi per agire, se non mettendoci nei panni dell'altro, visto che quasi tutti siamo sia ciclisti, che automobilisti, che pedoni. L'astio che vedo sulle strade è quanto di più assurdo possa esserci». Il pensiero costante ogni volta in cui si mette qualcuno di nuovo in sella, in cui un giovane acquista la sua prima bicicletta ed inizia a progettare viaggi ed avventure, è proprio rivolto a ciò che potrebbe accadere sulla strada, a ciò che chi pedala già conosce, purtroppo. Fabio Conti ha vissuto questi dubbi quando la fidanzata ha iniziato ad andare in bicicletta e a fare uscite in solitaria: «Le prime volte che viaggiava da sola ero in pensiero, purtroppo conosco le nostre strade e, quindi, pongo particolare attenzione ai pericoli».


La tematica della parità di genere è presa in considerazione da Conti che la segnala come uno dei punti principali per il futuro delle uscite in sella, della comunità, ma, a dire il vero, del ciclismo stesso: «Per alcuni anni si è portata avanti l'idea del ciclismo come "uno sport da uomini”. Che fesseria! Per fortuna superata, sconfitta, sicuramente basata sull'ignoranza. Però, almeno da noi, mi sembra che siano meno le donne che pedalano: se ho un desiderio è che questo gruppo si allarghi, è importante. Mi piacerebbe che chiunque passasse di qui e volesse iniziare a pedalare o a viaggiare in bicicletta ci provasse, chiedesse, si mettesse in gioco. Noi siamo qui».
Il tempo in negozio, in effetti, è sempre di più, le pedalate si sono ridotte e anche quando si va in bici, nei giri organizzati o negli eventi, il pensiero che si tratti di lavoro, le responsabilità connesse sono sempre presenti, forti, a tratti invadenti, ma il lato bello continua a prevalere, su e giù dalla sella.


Una sfaccettatura che ha a che vedere con i segreti. Sì, i piccoli segreti che ognuno di noi ha, spesso riguardanti sciocchezze della vita quotidiana, che, tuttavia, custodisce gelosamente e racconta a pochi, pochissimi, spesso solo agli amici più intimi: «Dico sempre che, nel nostro ruolo, dobbiamo ricordarci un sacco di cose: ci sono clienti che, a casa, non dicono o non vogliono dire di aver acquistato una bicicletta, altri, invece, cercano di non dire alle compagne o alle moglie il vero prezzo della bici. A quel punto, siccome il paese è piccolo ed il locale è frequentato da tutti, noi non dobbiamo confonderci, per non creare litigi. Qualche volta, invece, contribuiamo pure a risolvere qualche piccola discussione. Sai, forse è una delle parti più belle del mio lavoro». Quei minuscoli segreti, alla fine, sembrano essere sparsi nell'aria, un poco per tutto il negozio, quella bottega, piccola, intima e romantica, a Bagnacavallo, nel paese del dolce di San Michele.


I sogni fanno scalo in Sudafrica

Nel mezzo di una strada rossa, di quella sabbia che, ogni tanto si alza, con nulla all'orizzonte, su una bicicletta, alle sette del mattino, con già trenta gradi nell'aria, sugli occhi di Ettore Campana la crema solare colava assieme al sudore e bruciava, accecava. Dal nulla, però, un gruppetto di bambini africani rincorreva quella bicicletta: sandali rotti, pochi vestiti, spesso rovinati, ma grida forti. Talvolta unite in un canto di felicità, in un guizzo di energia proveniente da dentro, esploso fra le corde vocali e diretto in quella calura asfissiante, che pare luglio ma è la primavera del Sud Africa. Ettore sta in silenzio, le parole sono un pensiero: «Se loro hanno questa energia, come posso non averne io?».


In quell'esatto momento, nella mente di Campana era arrivata la certezza che, in quella telefonata con il primario di oncoematologia dell'Ospedale di Brescia, circa un mese prima, aveva davvero dato la risposta giusta, sebbene sembrasse una follia. Quel giorno, aveva spiegato che sarebbe partito lo stesso per il Sud Africa, anche se i tempi erano stretti, anche se non c'era molto modo di organizzarsi, per lui l'importante era che per i bambini ricoverati in ospedale quell'idea potesse portare un sorriso, un pensiero di libertà, di altrove, una fantasia, un sogno, per l'appunto. I problemi e tutto il resto sarebbero rimasti suoi, solo suoi. Del resto, non a caso il progetto si chiama "Scalo Sogni" ed è la continuazione di un altro viaggio, sulle Alpi, che già vi abbiamo narrato tempo fa. Un viaggio per motivare i bambini malati di tumore a restare forti, a credere nel futuro, a sapere che l'avventura li aspetta, che l'avventura esiste e può entrare a far parte delle loro giornate. Così il racconto dei ghiacci alpini diventa quello delle savane africane: attraverso un gruppo whatsapp e di persona, nelle stanze di ospedale.

La partenza è fissata per la metà di ottobre, il primo incontro qualche giorno prima: «Molti bambini non li avevo mai visti, qualcuno, invece, era ancora in quel lettino dai tempi del viaggio fra le Alpi: emotivamente bello e difficile incontrarli nuovamente. Hanno fatto molti disegni, a libera scelta, da donarmi per l'avventura. I soggetti erano spesso gli animali, la natura, anche una bandiera con la scritta pace e tanti cuori. Un'altra bandiera, quella italiana, è stata firmata da tutti quei bimbi nella parte bianca ed è venuta con me per essere firmata anche dai più piccoli fra i sudafricani sulla parte verde e su quella rossa dagli abitanti del Lesotho e della Swahili Coast». Quarantadue giorni di viaggio, trentacinque in bicicletta, circa 3200 chilometri percorsi. Attorno un'autentica tavolozza di colori; la primavera, dopo l'inverno piovoso, disegna campi verdi con fiori colorati, da un lato, e distese di fiori gialli dall'altro, si corre su strade mai pianeggianti, sterrate, gravel, lontano dal traffico, con un cielo blu acceso e nuvole che paiono dipinte. Si annusa il profumo dell'oceano che si percepisce anche senza vederlo: il vento forte lo trasporta ovunque, mentre rende l'aria tersa e limpida fra le fattorie dei paesi. «Se la natura potevo immaginarla, non avevo assolutamente idea degli incontri umani. Sapevo di una situazione sociale delicata: ho vissuto qualche attimo spiacevole, mai il pericolo reale. Tuttavia tutte le persone che incontravo e a cui dicevo che stavo affrontando un viaggio da Cape Town a Maputo mi chiedevano se non avessi paura, di non accamparmi, di non lasciare incustodita la bici e di non fidarmi di nessuno. Anche molti poliziotti me lo hanno raccomandato: sia nelle volte in cui ho dormito in caserma che quando mi hanno ospitato a casa. In realtà, mi sono fidato di molti e quella fiducia non l'ha tradita nessuno. Devo tanto a coloro che ho incontrato e che mi hanno aiutato».

Dapprima gli incontri sono casuali, magari al supermercato, come casuali sono le offerte di luoghi dove dormire, poi il passaparola è una catena che non si scioglie e si fa più forte da città a città: in questo modo ovunque c'è un parente di qualcuno pronto ad accoglierlo. Campana lascia spesso un link con il tracciato in tempo reale del suo viaggio, le persone lo seguono e gli segnalano dove andare a cenare o a dormire. Ben presto, ogni tappa è scandita così: da una cameretta, in mezzo alla campagna, al verde, in posti stupendi, con platani giganteschi, animali, cani, galline. Alla sera ci si ritrova tutti assieme a mangiare, a raccontarsi storie, con la nonna, magari con il pranzo al sacco già pronto per il giorno dopo. Qualche volta sono case di contadini, di agricoltori: nel giardino, con il bel tempo, si fanno grigliate, si sta insieme, si condivide tutto, persino l'essere stanchi, senza forze, sfiniti, come era Ettore, sul ciglio della strada, a Lesotho, quando una ragazza, vedendolo, gli ha offerto aiuto.

«Il gruppo whatsapp è servito per mantenere il contatto, anche quest'inverno, bastava la foto di una vetta per scatenare nei bambini la voglia di partire, di farcela. Mentre ero in viaggio, chiedevano di tutti gli animali che incontravo: scimmie, babbuini, struzzi, gnu, bufali, zebre, antilopi, kudu, giraffe, elefanti, facoceri, rapaci, uccelli, rettili ed insetti di ogni tipo, serpenti velenosi, ho persino avvistato balene. Per i bambini c'erano leoni ovunque da cui avrei dovuto difendermi, in realtà, pur se presenti, sono in delle riserve. Certo- sorride Campana- con quelle reti di recinzione così sottili non ci vuole nulla per uscirne. Tra l'altro, in certi punti, ci sono piante alte da cui un leopardo salterebbe come fosse niente. Eppure, chissà perché, i leoni restano lì». Nemmeno il vento furioso che non lascia tregua, che, talvolta, fa pensare di mollare tutto, di non farcela, ferma Ettore Campana, sono più forti le voci dei bambini che cantano fuori dalle scuole e le loro matite che donano disegni da riportare in Italia, all'ospedale di Brescia. Così, il 27 novembre, Campana farà ritorno a casa e, qualche giorno dopo in ospedale, a Brescia. Stanco, anche mentalmente, da un viaggio più difficile di quanto avrebbe pensato, senza attimi di riposo e relax completo, ma felice di essere partito nonostante le giustificate paure delle persone a lui più vicine.

«Quella bandiera piena di firme è, ora, appesa in reparto e dovreste vedere gli occhi con cui la scrutavano i bambini. Come dovreste vedere le mani ad afferrare i disegni donati e la loro curiosità. L'avventura è più viva che mai in loro, missione compiuta». Sì, missione compiuta, i sogni hanno fatto scalo un'altra volta.


Nos quedamos con lo bueno: intervista a Mavi Garcia

Le scarpe gliele aveva prestate suo fratello, come, del resto, la bicicletta, solo così Margarita Victoria García Cañellas poté partecipare alla sua prima gara di duathlon e vincerla, ma, in quegli istanti, nemmeno la sfiorava il pensiero della prestazione. Quella che la carta d'identità identifica come Margarita Victoria García Cañellas è, in realtà, per tutti, da vari anni, solo Mavi García, ora in Jayco AlUla, che, di quella competizione, in cui lei si dedicava alla corsa a piedi ed il fratello al ciclismo, ricorda, soprattutto, la sensazione legata a delle scarpe così grandi che il piede vi "ballava" all'interno. Non aveva una bicicletta e nemmeno scarpe adatte a correre perché da ragazzina sua madre la portava a fare ginnastica, a pattinare, mentre all'atletica si era sempre dedicato proprio il fratello: ormai, però, era circa nove anni che si era allontanata anche dal pattinaggio. Quella gara di duathlon e, poi, diverse uscite in bicicletta insieme ad amici del fratello stesso, che la "temevano" perché non avevano mai pedalato con una ragazza, per giunta così forte, mentre le scarpe erano sempre troppo grandi ed i piedi continuavano a navigarvi. Dovette presto capire che il ciclismo, probabilmente, era un suo talento da sempre, ma un talento che non avrebbe mai scoperto, se non per puro caso. Ben presto era la seconda del mondo nella disciplina individuale e la prima, considerando le squadre. In quel periodo, il training camp del team Bizkaia Durango, suggeritole da un amico, mostrava i suoi dati come ciclista, dati notevoli: «Vinsi la seconda gara a cui partecipai. Non sapevo ancora che la terza gara sarebbe stata la Freccia Vallone e sarebbe stato quasi un incubo. Del ciclismo non conoscevo praticamente nulla, stavo in fondo al gruppo perché mi intimoriva la sua "pancia" e ben presto quel timore sarebbe diventata una vera e propria paura». Mavi García si riferisce alla brutta caduta che la coinvolse in Argentina, all'ultimo anno in Bizkaia: picchiò la testa, restò traumatizzata da quel che era successo e, al ritorno in sella, si rese conto che quella paura la condizionava a tal punto da pensare di smettere per non stare così male ad ogni corsa.

Nei primi tempi, García faceva duathlon, atletica, ciclismo e continuava a lavorare nell'azienda di hotellerie in cui si occupava di contabilità da circa dodici anni. Successivamente grazie all'aspettativa, in Spagna denominata "excedencia", era riuscita a concentrarsi solo sullo sport: «L'excedencia permette di conservare il proprio posto di lavoro per almeno cinque anni, ovviamente non percependo più lo stipendio. Ogni anno, tornavo in azienda a firmare chiedendo altri 365 giorni e, poi, mi buttavo sull'allenamento per migliorare in tutte le discipline che praticavo. Decisivo è stato il momento in cui ho scelto di dedicarmi solo al ciclismo: lì i risultati sono fioccati ed il mio margine di crescita si è espanso di molto. Tutto assieme non si poteva più fare». Il 2018 è l'anno in cui Movistar le propone il primo contratto da professionista, è l'anno della conquista del suo primo Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro ed è anche l'anno in cui García lascia definitivamente l'azienda in cui lavorava: «Ho sempre firmato contratti di un anno, solo ultimamente sono biennali, e, soprattutto all'inizio, credevo che sarebbe durata per due o tre anni, non mi aspettavo di certo di arrivare a quarant'anni ancora in sella. Ma, a parte questo, ho sempre fatto questa scelta perché nella vita si cambia e non potrei accettare di fare un lavoro in cui non mi riconosco più, soprattutto un mestiere complesso come quello della ciclista. Avevo paura, certo, come tutti in una situazione simile, anche in famiglia avevano dubbi, ma riconoscevano il mio talento e questo li ha spinti a incoraggiarmi in quella scelta».

Mavi Garcia (ESP - Liv AlUla Jayco) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

In spagnolo si dice "nos quedamos con lo bueno" ed è la filosofia di Mavi: salvaguardare le cose buone, gli aspetti positivi, di quel che accade. L'ha applicata soprattutto l'anno scorso, una stagione in cui nulla girava come avrebbe dovuto e come avrebbe voluto: i risultati non arrivavano, ogni gara era un poco meglio o un poco peggio della precedente, ma non risolveva mai quel malessere persistente. «Stentavo a riconoscermi e non ne capivo il motivo: la mononucleosi, scoperta solo successivamente. Il risultato, nel ciclismo, ti permette di riprendere fiato, di vivere con serenità la gara successiva. Ogni volta mi dicevo che nella corsa successiva avrei fatto qualcosa di buono, non succedeva mai. Più il tempo in cui i risultati non arrivano si dilata, più diventa pesante, difficile da gestire, più pare impossibile tornare a fare risultato».

Mavi Garcia (ESP - Liv AlUla Jayco) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

Così, anche lei che spiega di riuscire a gestire bene la pressione, almeno generalmente, e che sottolinea che gli obiettivi sono necessari per avere una direzione, ma, alla fine, dopo tutto il lavoro, non bisogna fare in modo che qualche traguardo non centrato possa mettere in discussione il percorso, rivela di essere particolarmente serena dopo il podio, terzo posto, centrato all'UAE Tour, ad inizio stagione: «Non pensavo ad un risultato di questo tipo, vuol dire che le cose stanno andando bene». L'anno scorso, dopo il secondo posto nel Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro, ha avvertito intorno alla propria persona una delusione che non pensava di trovare: la sua storia con la maglia di campionessa nazionale ha origini lontane, quel 2018, per l'appunto, e l'ha spesso conquistata da sola, senza una squadra a sostegno, spesso con notevoli pressioni, per esempio quando la gara si è svolta a Maiorca, suo paese natale. «All'esterno sembra che per me sia facile, quasi scontato vincere, invece è dura, sempre più dura. Anche chi vince fa fatica, pure se è il più forte in corsa».

Spiega di essere cresciuta assieme al ciclismo, negli anni, e di essere contenta di aver potuto vivere questa crescita del movimento, l'unico neo potrebbero essere quei limiti posti alle squadre più piccole che, non raggiungendo il budget, resteranno escluse, però «ai molti passi in avanti corrisponde sempre qualche passo indietro, va accettato». Scalatrice, nei dintorni di Maiorca ha scalato non sa quante volte il Puig Major, una delle salite più lunghe della zona, ama il caldo, il sole di Maiorca e della Spagna che cerca invano in ogni parte del mondo e il mare che ha più che mai bisogno di vedere. Fra i momenti più belli della sua carriera ricorda la Strade Bianche del 2020, negli sterrati roventi dal sole d'agosto, superata solo da Annemiek van Vleuten, i più difficili, invece, fatica a trovarli. Non perché non ce ne siano stati, anzi, è la prima ad ammettere che sono stati molti, ad esempio quell'inizio di stagione in UAE Team Emirates, nel 2022, anno in cui centrò il terzo posto al Giro d'Italia, quando tutti si aspettavano da lei "Pogačar" in versione femminile, ma il suo voler salvare il buono le impedisce di restare fissa su quelli: «Quando le cose vanno male, tendiamo tutti a pensare che andranno sempre così. Forse è naturale, ma non è vero. Non andranno sempre male, miglioreranno o, comunque, cambieranno. Questa è la certezza che deve farci forti».