Cinque amici e un'avventura in Marocco
La lunga strada, a tratti sterrata, che porta da Marrakech a Agadir, poco più di 850 chilometri e 13000 metri di dislivello, a tratti assume contorni alienanti e pare perdersi nel deserto roccioso che non si capisce dove inizi e dove finisca, mentre la destinazione resta sullo sfondo, quasi irraggiungibile. Il repentino cambio di paesaggio umbro è ormai troppo lontano. Qui il sole è bianco e pare quello anche il colore della solitudine dei ciclisti, mentre si incontrano davvero poche persone in bicicletta, talvolta qualche compagnia di ragazzini. In Italia, l'autunno sfuma nell'inverno, Lorenzo Sensi e i suoi amici, Alberto, Mattia, Andrea e Massimo, infatti, sono partiti tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre, ma in Marocco le temperature ricordano un tiepido maggio. Il viaggio è un'abitudine per loro, appena il lavoro molla la presa: almeno una volta all'anno partono assieme, cercano mete adrenaliniche, non usuali, le inventano, oppure le percorrono «al modo della tribù», ma a questo arriveremo presto.
Nell'autunno 2023 era il Rwanda, l'anno scorso il Marocco, sulla via dell'Atlas Mountain Race. «I quarant'anni hanno cambiato qualcosa. Hanno acceso il desiderio di sfruttare questo tempo perché, per quanto sembri lunghissimo, ma è limitato, come le esperienze che ciascuno può fare. Siamo dei "cani sciolti", senza bici all'ultimo grido, senza un fotografo professionista che ci segua, senza abbigliamento top di gamma e anche senza strutture prenotate. L'attitudine è questa ed è l'attitudine a lasciare una traccia in chi incontri. Così le persone si sentono accolte, al sicuro, e si uniscono a questo entusiasmo. Augh, in fondo, è nato in questo modo: due giorni immersi nella natura dell’Appennino Umbro, per pedalare su una traccia off-road, raggiungere il villaggio, piazzare la tenda, nutrirsi con buon cibo e fare festa». Ed ecco la tribù, non solo quella di Augh, ma quella di tutti coloro che si riconoscono in questa filosofia e montano in sella. Magari cercano su Komoot le tracce gratuite, caricate da questi amici, progettano un viaggio e partono insieme. Il Marocco, alla fine, è una possibilità da raccontare anche per questo.
Allora torniamo sulla strada e torniamo alla solitudine, lenita da pochi ma significativi incontri. L'arrivo a Marrakech avviene di notte: il tempo di montare le biciclette, a letto alle quattro, sveglia alle sette e via a pedalare, verso Taddart. C'è un signore, avvisato del loro arrivo, ad aspettarli sulla strada, ma dovrà attenderli circa due ore, perché il viaggio sarà più lungo di quanto programmato. «Ahmed, così si chiamava, si sarà chiesto dove eravamo finiti, ma al nostro arrivo non ci ha detto nulla. Era solo preoccupato per noi, ci ha preparato la cena e accolti in un piccolo albergo» . Qualche tempo dopo sarà un altro Ahmed a farli sentire a casa, a Tiouadou. Un ragazzo di soli ventotto anni, seduto con loro accanto al fuoco: era partito per studiare inglese all'università, a Casablanca e chissà quanto avrebbe potuto viaggiare quel ragazzo, quanti sogni avrebbe potuto realizzare, eppure è tornato al borgo. Suo zio era un importante politico locale, che ha molto aiutato l'economia della zona, mancato in un tragico incidente in moto e Ahmed ha sentito di dover tornare per continuare a realizzare quel progetto, per gestire la struttura ricettiva avviata, assieme al fratello. «Mentre il fuoco crepitava, lui ci insegnava a giocare a carte e anche qualche parola di arabo. Stavamo bene, eravamo felici e bastava questo incontro a farci sorridere». E ancora quel signore alle Oasi Aguinane che non parlava inglese e nemmeno italiano, ma aveva un figlio a Modena: così gli ha telefonato e la cena l'hanno ordinata al telefono, con una traduzione istantanea.
Nel ricordo di Taznakht sempre più vicino al deserto e lontano dai classici luoghi turistici, e la strada coloniale che dalle Oasi Aguinane, in discesa, si tuffa in un tramonto stupendo: solo cinque amici, una strada carrareccia, le rocce e uno strano senso di libertà. Sulla pelle il caldo, sino ai 35 gradi, e il lungo mare che accoglie la fine di questa avventura ad Agadir: «Avrebbe potuto essere Rimini, con qualche turista in infradito e un locale sul mare: abbiamo bevuto un boccale di birra fresca e brindato ad un'esperienza rara. E, dico la verità, mentre ne parlo penso a cosa potremmo organizzare il prossimo autunno».
Così il gruppetto di questi amici storici è tornato a casa, dopo giorni e giorni a progettare, organizzare la sera quel che avrebbe fatto il giorno successivo, dividendosi i compiti, in modo che ciascuno potesse fare quel che gli riusciva meglio, quello in cui più si sentiva a proprio agio, aiutandosi e sostenendosi. «Ero già stato in Marocco- spiega Lorenzo- ma alla velocità sbagliata, la bicicletta mi ha permesso di ritrovare il ritmo giusto per guardarmi attorno e per gustare ogni chilometro in più fatto perché frutto della nostra fatica, del nostro sacrificio. Il sapore viene anche da lì. Se, negli ultimi anni, ad Augh arrivano quattrocento iscrizioni in poche ore, crediamo sia anche per questo, per un reciproco riconoscersi in avventure che certamente non sono banali, ma nemmeno impossibili, però serve un poco di allenamento e tanta fantasia. Quelle avventure che, quando ci ripensi, ti dici: quanto bello è stato? E sorridi».
FVG Bike Trail: dal 4 al 7 settembre 2025 ritorna il grande evento bikepacking alla scoperta del Friuli Venezia Giulia
Annunciate le date e presentate le due nuove tracce dell’edizione 2025 di FVG Bike Trail: a partire dal 4 settembre si pedalerà tra Udine, Gorizia, Nova Gorica, Trieste, Grado e Aquileia, a scelta lungo un percorso da 200 o 380 km. La maglia ufficiale dell’evento è firmata dal Maestro Giorgio Celiberti e celebra l’affascinante commistione di diversità linguistiche, culturali e paesaggistiche del Friuli Venezia Giulia. Iscrizioni aperte da marzo.
Udine, 19 febbraio 2025 – La data da segnare sul calendario di tutti gli appassionati di bici e viaggi è il 4 settembre 2025, giorno in cui avrà ufficialmente inizio la seconda edizione di FVG Bike Trail, il grande evento bikepacking alla scoperta del Friuli Venezia Giulia. Dopo l’incredibile successo del 2024, ritorna anche quest’anno l’appuntamento cicloturistico made in FVG, che invita i suoi partecipanti a salire in sella a una bicicletta per pedalare al proprio ritmo lungo strade bianche e secondarie, attraverso boschi, colline, litorali e centri urbani dell’estremo nord-est italiano.
Un debutto memorabile
Lanciato per la prima volta nel 2024, l’evento FVG Bike Trail ha riscosso enorme successo fin dalla sua prima edizione: 475 iscritti (tra questi circa il 23% proveniente dall’estero) e oltre 180 mila km percorsi in bici, in una media di tre o quattro giorni consecutivi. L’edizione 2025 conferma il formato unsupported non competitivo, ma introduce interessanti novità e punta al raddoppio dei partecipanti. “Abbiamo raccolto feedback estremamente entusiasti da parte di chi ha pedalato l’anno scorso, non solo per l’organizzazione dell’evento, ma anche e soprattutto per l’effetto sorpresa regalato dalle tracce che avevamo studiato. Quest’anno abbiamo lavorato sodo per non tradire le aspettative dei nostri partecipanti, curando l’evento nei minimi dettagli e studiando due nuovi percorsi capaci di emozionare e di lasciare un ricordo indelebile del Friuli Venezia Giulia, pedalata dopo pedalata”, dichiara Giacomo Miranda, ideatore e organizzatore di FVG Bike Trail.
I due percorsi 2025 alla scoperta della regione Capitale del Cicloturismo 2025
FVG Bike Trail 2025 offrirà ai suoi partecipanti due percorsi ad anello completamente nuovi, rivolti a cicloturisti di diverso livello e grado di preparazione: il più lungo da 380 km e 4.300 D+, il più corto da 200 km e 2.000 D+. Punto di partenza e di arrivo per entrambi i percorsi sarà la città di Udine. Da lì, le due tracce si snoderanno verso Est e attraverseranno Cividale, Nova Gorica e Gorizia (Capitale europea della cultura 2025), la bellissima Trieste e poi Grado, Aquileia, Palmanova. “Il Friuli Venezia Giulia, Capitale del Cicloturismo 2025, è una regione bellissima da pedalare e offre una grande varietà di paesaggi, culture e storie da scoprire. Basti pensare che la traccia Unlimited di quest’anno, ovvero quella più lunga, attraverserà ben tre diversi siti patrimonio UNESCO (Cividale, Aquileia e Palmanova)”, commenta Miranda.
La maglia dell’evento
Ispirata all’opera “Labirinto dei sogni” del grande Giorgio Celiberti, poliedrico artista friulano di fama internazionale, la maglia ufficiale dell’edizione 2025 di FVG Bike Trail celebra la ricca diversità di lingue, culture e paesaggi del Friuli Venezia Giulia. Lettere e numeri, impressi con segni essenziali e materici sul tessuto dei modelli Supergiara Jersey e Flow Giara Tee di Sportful (partner tecnico dell’evento), si mescolano tra di loro, dando vita a un linguaggio universale, un intreccio di emozioni, incontri e ricordi che racchiude l’essenza di FVG Bike Trail.
Come partecipare
Per prendere parte alla prossima edizione di FVG Bike Trail, è necessario effettuare l’iscrizione tramite il portale www.fvgbiketrail.com:
Dal 3 marzo 2025 - iscrizioni in modalità early bird riservata ai partecipanti FVG Bike Trail 2024
Dal 27 marzo - iscrizioni aperte a tutti
Il pacchetto di iscrizione comprensivo di maglia ufficiale FVG Bike Trail x Giorgio Celiberti sarà disponibile in pre-order solo fino al 31 maggio 2025.
FVG Bike Trail è un evento ideato e organizzato da It Takes Two srl società benefit, con il supporto di PromoturismoFVG, il patrocinio della Regione FVG e in partnership con PM2 agenzia di comunicazione e marketing, X-Zone Bike, PrimaCassa Credito Cooperativo FVG, Marzocco Assicurazioni, Sportful e Udog. Per maggiori informazioni visitare www.fvgbiketrail.com.
It Takes Two srl società benefit che opera nel campo degli eventi. La società è guidata da una purpose: rendere il business coerente con la propria vocazione. La società ha sede a Udine e integra nell’oggetto sociale lo scopo di avere un impatto positivo sulla società, a beneficio di persone, comunità e ambiente. Con l’obiettivo di creare valore sostenibile, per tutti.
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Il ritorno di Alex Krieger
Oggi, 17 febbraio 2025, torna in corsa Alex Krieger, vittima, ormai nove mesi fa, di un gravissimo incidente al Giro d'Italia di cui si è parlato molto poco. Il pezzo che state per leggere è stato tradotto e adattato dalla nostra redazione e lo potete trovare in originale sul sito della Tudor Pro Cycling, la squadra in cui milita il corridore tedesco.
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"Una cosa che ho imparato è che nessuna emozione dura per sempre. È importante apprezzare i bei momenti della vita e lottare per averne di più, perché siamo noi gli artefici della nostra esistenza."
12 maggio 2024 - Giro d'Italia, tappa 9. Il gruppo si sta dirigendo verso il traguardo di Napoli quando un corridore della Tudor Pro Cycling cade violentemente è Alexander Krieger. Viene trasportato d'urgenza in ospedale e lì i medici diagnosticano fratture multiple alle costole e una frattura al bacino.
17 febbraio 2025 - UAE Tour. Nove mesi dopo la sua ultima gara, Alex è sulla linea di partenza, pronto a tornare nel gruppo.
Quei nove mesi si ripetono nella sua mente come un film: immagini nitide che si mostrano in tutta la loro tensione.
Dalle quattro notti in un ospedale di Napoli alle altre due settimane in Germania, Alex ricorda il dolore e un momento decisivo: l'operazione al bacino. Un punto di svolta, la chiave che ha portato alla guarigione e alla possibilità di avere ancora una carriera in bicicletta. Prima le stampelle a sostenerlo per 6 settimane, poi un respiro di sollievo quando ha potuto iniziare il suo programma di riabilitazione, principalmente confinato a casa a causa della difficoltà di movimento.
Alex ricorda quel periodo: «L'inizio è stato davvero duro. Provavo un dolore enorme. Ma ora, quando ci ripenso, è una sensazione... quasi bella. Perché so che bello è stato il finale». Tra tutti gli infortuni della sua carriera, questo rivaleggiava con il trauma subito dopo un incidente d'auto del 2020. Ma questa volta il danno è stato ancora peggiore, fisicamente ed emotivamente. «Sei o sette settimane dopo l'incidente, avremmo potuto accelerare la mia guarigione, ma insieme alla squadra abbiamo deciso che non avrei più corso nella stagione. Non c'era bisogno di correre rischi inutili per il mio futuro. Guardando indietro, è stata la scelta giusta. Ci si aspettavano delle battute d'arresto, ma alla fine non sono mai arrivate».
Quella decisione è stata fondamentale, un sollievo per Alex. Il team lo ha supportato e i medici dell'ospedale hanno fatto la differenza. I legami che ha costruito durante la convalescenza sono continuati anche dopo aver lasciato l'ospedale.
Il suo primo ritorno in bici è stato quasi traumatico, è durato circa un quarto d'ora ed avvenuto il 18 luglio: «Passati otto minuti non avevo idea di come sarei tornato a casa».
Sebbene abbia trascorso l'intera estate a casa, cosa insolita per un ciclista professionista, non si è mai annoiato: «Inizialmente è stato fondamentale come gli amici si siano presi cura di me. Poi quando ho iniziato a camminare e muovermi un po' di più, ho iniziato a intraprendere una vita sorprendentemente normale, forse persino migliore del normale. Andavo a nuotare al lago, cenavo con gli amici, organizzavo serate di barbecue e ping-pong, andavo in giro con la Vespa. Ho amato questa parte della mia esistenza».
Oltre a questi momenti personali, Alex ha anche trovato nuovi modi per restare in contatto con il Team. A luglio, ha visitato il campo di allenamento in quota del Team per un paio di giorni a Kühtai, in Austria. Al Tour of Germany, ha visitato la sede centrale della SRAM e ha pedalato per supportare i suoi compagni di squadra. La sua prima vera e propria corsa è stata alla Granfondo Vaduz, parte della serie Chasing Cancellara, dove ha guidato uno dei gruppi insieme al suo migliore amico. Al campionato mondiale UCI a Zurigo, ha trascorso la settimana con la divisione marketing del Team, ospitando una corsa BMC e interagendo con sponsor e ospiti.
La sua curiosità per le persone, il suo desiderio di entrare in contatto, non facevano che rafforzarsi. Voleva restituire qualcosa. Ecco perché, ad agosto, Alex ha assunto un nuovo ruolo: è stato direttore sportivo per il team Devo nei criterium in Germania e Svizzera: «Quando ero in ospedale, ho avuto molto tempo per pensare e un'idea mi è rimasta impressa: colmare il divario tra i team Pro e Devo. Ho spiegato la mia visione a Raphi (Meyer) e Boris (Zimine), ed entrambi erano d'accordo. Volevo aprire gli orizzonti dei ciclisti più giovani e, poiché Boris era desideroso di migliorare i leadout, i criterium erano il campo di allenamento perfetto. Ogni 10 chilometri, uno sprint e così un altro modo e un'altra possibilità per perfezionare le tattiche».
Racconta ancora Alex: «Al di là della performance, questa esperienza è stata fondamentale per stabilire una rapporto, una connessione. Abbiamo trascorso del tempo insieme, condiviso storie, imparato gli uni dagli altri. Spero che un giorno ripenseranno a quella settimana e la considereranno un'esperienza preziosa. Personalmente, lo spero: mi ha insegnato molto. Ho gestito la logistica, la strategia, la preparazione e la distribuzione delle borracce».
In procinto di tornare alle corse, Alex confessa: «Non vedol'ora. Sono teso, ma è una tensione positiva. La prima gara della stagione è sempre speciale, ma questa volta significa ancora di più. Non sono ancora al massimo della forma, ma sono sicuramente abbastanza forte da fare il mio lavoro per la squadra. Onestamente, metterò più pressione su me stesso che sulla squadra. Ho un ruolo chiaro da svolgere. Mi integrerò in un nuovo treno di testa (per Arvid De Kleijn), quindi il mio compito è duplice: imparare il loro processo e portare la mia esperienza. Idealmente, ne trarremo tutti beneficio l'uno dall'altro. Oltre a ciò, cercherò di supportare Michael (Storer) per le tappe di montagna. Ma soprattutto, non dimenticherò di divertirmi. Sono stato ambizioso in questi mesi. Ora, spero solo di riuscire a gestire la pressione come facevo prima».
In cucina da Chef Sut
È l'agosto del 2021. Dal volo per Tokyo, assieme alla nazionale italiana di ciclismo, scende uno chef: fra i suoi bagagli un insieme di fogli, pieni di ricette, trascritte e tradotte solo pochi giorni prima. Tanti fogli, un ricettario intero. La nazionale di ciclismo non alloggia nel villaggio olimpico, bensì in un albergo ed è proprio nella cucina di quell'hotel che quei fogli verranno depositati su un tavolo attorno a cui stanno conversando diversi chef giapponesi. L'albergo sarà adoperato esclusivamente dalla nazionale in quelle settimane e Mirko Sut, sì, il viaggiatore sceso da quell'aereo, ha voluto incontrarli subito e formulare una proposta: «Ascoltate: queste ricette sono vostre, ve le regalo con tutta la mia esperienza ed i piccoli segreti che metto nei miei piatti. Voi avrete altre cose da insegnarmi, cose che io non potrei mai imparare senza il vostro supporto: rinuncio ad ogni pomeriggio libero solo per apprendere le vostre ricette, le vostre abilità. Se siete d'accordo, è questo lo scambio che vi propongo». Uno scambio culturale, nulla di diverso. Quegli chef hanno accettato ed in quel mese Sut ha scoperto i segreti del sushi e non poteva immaginare nulla di simile. Il riso, ad esempio. La sua scelta avviene attraverso il raffronto di diverse tipologie di riso di varia età, prediligendo sempre quello più "vecchio" in quanto più consistente, più sfumato al gusto: qualcosa di simile a ciò che in Europa avviene con le farine, nella panificazione. Ora che Mirko Sut sa tutto questo, il sushi è spesso sulle tavole degli atleti di Lidl-Trek per cui cucina: in particolare gli Onigiri. Altre preparazioni non sono replicabili, perché mancano gli ingredienti da noi, ma quell'esperienza ha continuato a costruire allo stesso modo la professionalità dello chef veneto e degli chef giapponesi: «Mi hanno raccontato che i principi dietro la cucina italiana e giapponese sono simili: al centro c'è la materia prima, da ricercare con cura, e la preparazione, che deve essere minuziosa. Forse per questo, erano interessati alle crostate e alla pasta al pomodoro. Un piatto semplice, eppur complesso come tutte le cose semplici. Pochi ingredienti: la pasta, l'olio, il pomodoro, il basilico. Pochi passaggi. Basta un errore ed il risultato è compromesso, non si può rimediare». Avrebbe pensato a tutto questo un bambino cresciuto al tavolo di un'altra cucina, in Germania? Probabilmente no.
Eppure Mirko Sut passava tutti i suoi pomeriggi nella cucina in cui i suoi genitori lavoravano e ad ispirarlo è stato proprio suo padre, nonostante in famiglia i cuochi fossero molti, tre degli otto fratelli della madre. Tuttavia «ogni papà è una sorta di eroe negli occhi di un bambino, così nasce l'emulazione». Mirko Sut ha sempre pranzato in quella cucina e la sala da pranzo di casa l'ha vissuta ben poche volte. Disegnava, colorava, leggeva: il suo piccolo mondo era tutto fra quelle mura. È cresciuto in questo modo: da ragazzino, d'estate faceva la stagione tra Caorle e Bibione, in inverno, invece, era pizzaiolo. «La possibilità migliore che abbiamo è quella di creare qualcosa che ancora non c'è e con i cibi basta cambiare un accostamento per dare vita a qualcosa di nuovo, perché sono davvero mille le sfumature che si possono ottenere partendo dagli stessi ingredienti». Il ciclismo l'ha sempre amato, tuttavia è stato un giorno del 2009 a farglielo incontrare più da vicino, quando un manager di Liquigas, passando da quel ristorante, l'ha conosciuto e gli ha proposto di accompagnare la squadra alla Vuelta a España. Non ha avuto bisogno di pensarci molto prima di dire sì. «Era un'altra era per quanto concerne il mio lavoro. Non c'erano nutrizionisti con le squadre, solo i medici. Pochi gli chef. Ricordo che prima delle tappe di montagna mi chiedevano di preparare la carne rossa: oggi è quasi esclusa dall'alimentazione di un ciclista in una corsa a tappe. Forse due volte, prima del giorno di riposo. Non c'erano nemmeno bilance, oggi si pesa tutto e ne servono almeno due ad ogni cuoco». Già in quel momento, Sut avrebbe voluto che fosse quello il suo mestiere, avrebbe voluto cucinare per i ciclisti, per gli sportivi.
C'era un contratto firmato di mezzo, viaggi tra Venezia, Roma, Londra e stelle Michelin da ottenere, così attese. Ma avrebbe aspettato lo stesso, per acquisire tutta l'esperienza necessaria e l'esperienza ha a che vedere con le ore di volo, con gli imprevisti che si incontrano e si risolvono, perché nel ciclismo è tutto un poco diverso, un poco più difficile. «La preparazione meticolosa e la materia prima eccellente sono la base in entrambi i casi, tuttavia in un ristorante ci si può permettere di spaziare maggiormente: non bisogna badare ad un pizzico di sale in più, ad un cucchiaio d'olio aggiunto ad un soffritto, a quanto burro si usa. Nel ciclismo è necessario controllare tutto, anche quanto finemente sono tagliate le cipolle. Immaginiamo un recinto: da lì non si può uscire, i paletti sono vincolanti, ma, all'interno, si può, anzi, si deve sbizzarrire la fantasia, sperimentare, innovare ed è una sfida, un banco di prova quotidiano». Il dovere di uno chef è eliminare ogni possibile fonte di stress, dal punto di vista alimentare, per l'atleta che, una volta a tavola, sa che tutto quel che c'è è controllato, sicuro, ma non si ferma qui. «In mesi e mesi lontani da casa, anche il gusto è importante, perché aiuta ad appagare, a soddisfare. Pensate ai bambini: non mangerebbero mai un broccolo al vapore, in una tortina, con una forma particolare, invece, magari, ne mangerebbero anche più di uno. I miei tacos al cavolfiore sono nati da questa intuizione e piacciono. Sembrano tacos ma sono cavolfiori. Gli atleti si nutrono così di ciò che è necessario, con piacere». La responsabilità è importante, perché una disattenzione nella pulizia o nella materia prima potrebbe provocare il ritiro di un atleta da una gara, un danno enorme di cui Mirko Sut vive il peso, con dedizione ed impegno. Per esempio quando, a casa, prova nuovi accostamenti oppure nel momento in cui, al supermercato, si lascia ispirare dagli alimenti e studia per ore ed ore nuove pietanze in modo da non avere più dubbi nel momento in cui le proporrà agli atleti. Il dubbio si toglie solo così in cucina: con il lavoro.
Un lavoro itinerante, in cui le cucine cambiano continuamente, i tempi sono contingentati, le liste degli ingredienti richiesti sempre più dettagliate, eppure talvolta gli ingredienti stessi non sono all'altezza di ciò che serve e bisogna cambiare piani. Ecco il perché di quell'esperienza che Sut voleva acquisire, la stessa che nel 2016 l'ha riportato nel ciclismo e dal 2014 in nazionale. Ha ripreso a viaggiare, a conoscere nuove usanze culinarie, a chiedere a cuochi di altri paesi, mutuando una tradizione italiana, quella per cui in Liguria vengono offerte le trofie al pesto e a Napoli le sfogliatelle. Resta un lavoro in cui la comprensione ha un ruolo decisivo, perché il mondo che si esplora all'esterno è, in realtà, lo stesso che compone le squadre: «Per un ragazzo americano, la pasta al sugo è la pasta con il ketchup che è ben differente da un piatto di pasta con un buon sugo e una foglia di basilico. All'inizio, pare assurdo ma è vero, può non piacere la nostra proposta, è questione di abituarsi. Bene, non c'è soddisfazione maggiore di quando un atleta, ad un certo punto, afferma: "Non c'è storia, da oggi in poi mangerò solo questa". Un cambio di usanze e di gusti significativo».
Restano e resteranno sempre la pasta, il riso, le patate, dolci o salate che siano, aumenteranno sempre più gli chef con le squadre, perché sempre più saranno i dettagli da controllare, sempre "a blocco" dal mattino alla sera: per questo, già qualche squadra ha almeno due chef nell'organico. Gli ingredienti freschi, la materia prima, saranno ancor più importanti, unico e riconoscibile il loro sapore, simili ai pomodori nell'orto dei genitori di Mirko Sut, perché quel bambino che passava i pomeriggi nella loro cucina ora è uno chef ed in cucina crea, esplora, costruisce, accosta, racconta, assaggia, prepara.
Foto di Mirko Sut: Sean Hardy
Foto Pedersen: Sprint Cycling Agency
Dispacci dal World Tour #4
15 Febbraio 2025Corse,Approfondimenti
Ancora niente World Tour, ma, nella settimana in cui è passato San Valentino, siamo qui a parlare di amore: Egan Bernal e Ivan Romeo, c'è pure assonanza.
Egan Bernal tornato alla vittoria è un fatto tutt'altro che banale ed è quello che ci interessa. Quando taglia il traguardo nella prova in linea del campionate nazionale colombiano si lascia andare e mima con le mani, gesticolando, il cuore. Forse dedicato a qualcuno oppure gli sarà venuto fuori così, in un impeto d'amore e passione; forse non importa perché a volte ci sono delle vittorie che hanno un sapore diverso a seconda di chi le ottiene e da come arrivano.
A Egan Bernal abbiamo imparato a volere bene, da subito. Abbiamo studiato il suo passato, da dove arriva. La sua storia la conosciamo e l'abbiamo raccontata in diverse salse. Lo abbiamo tifato, al Giro d'Italia del 2021, quando vinse, senza stravincere, perché già quella volta subentrarono gli scricchiolii alla schiena che ne hanno condizionato una buona parte di carriera. Abbiamo tutti negli occhi l'immagine di Daniel Felipe Martinez che lo sprona in un momento di difficoltà, sembrò affondare e invece restò a galla. Quel Giro d'Italia fu la sua ultima vittoria per anni. Bernal che, quando iniziò a farsi vedere nel 2018 sembrava destinato a dominare, ma il futuro non è mai una pagina scritta ben chiara. A volte quell'inchiostro è come uno scherzo che tende a consumarsi, a scomparire.
Nessuno avrebbe mai immaginato le pieghe che avrebbe preso la sua vita, quell'incidente nel gennaio del 2022 che poteva cancellarlo via per sempre e poi rischiò di spezzarne la carriera. Si è rimesso e tempo ce ne ha messo per ritornare ad alzare le braccia al cielo. Parafrasando Orwell, ci sono vittorie e vittorie e questa è più vittoria di altre - ci sia perdonata la formuletta semplice semplice.
E siccome si parla d'amore non potevamo che omaggiare il suo ritorno al successo 1347 giorni dopo quella volta al Giro d'Italia. Ha conquistato il titolo nazionale a cronometro, vincendo poi, due giorni dopo, anche la prova in linea, su un tracciato impegnativo, come sono sempre impegnativi i tracciati che si trovano in Colombia, 237 km che non davano scampo. Se n'è andato nel finale con Diego Camargo - dopo un grande lavoro dell'amico e compagno di squadra Rivera. Ha staccato Camargo e ha vinto, ha mostrato il cuore, ci ha fatto gioire, e all'improvviso, così pare, lo vedremo al Giro. La scelta è quella giusta, non per nostro egoismo, ma per Bernal: tornare competitivo e mostrarlo al Giro è un conto, andare al macello al Tour è un altro.
Lo ritroveremo dalle prossime gare riconoscibilissimo con la maglia di campione colombiano: un regalo che si è fatto, che ci ha fatto, che ha fatto alla sua famiglia, a Ronald, suo fratello, che lo ha applaudito commosso sotto il palco. Come accadeva 6 anni fa al Tour. Lo rivedremo alla Strade Bianche dove ci fece ammattire nel 2021 in quella che fu una fuga con tutto il meglio del ciclismo e che a vederla oggi sembra il prologo di ciò che sarebbe avvenuto gli anni dopo, quasi un manifesto o un teorema.
Sarà presente nelle prossime settimane alla Tirreno-Adriatico: si testerà sui 9.9 km della cronometro. Come ha raccontato di recente il suo allenatore, il suo rendimento in una prova contro il tempo e con atleti di alto livello sarà il termometro di come sta veramente Bernal. Lì non si potrà mentire.
Abbiamo accennato che, in una puntata in cui si parla d'amore, non potevamo esimerci dal nominare Ivan Romeo. Il campione del mondo tra gli Under 23, vincitore anche di una bella tappa al Tour de l'Avenir, oltre al nome che richiama romantiche tradizioni, è uno spilungone che va forte ovunque e comunque come successo di recente in una tappa della Volta Comunitat Valenciana. Di solito gli piace andare all'attacco scrollandosi di dosso la compagnia altrui. Più che un egoista è un solitario, uno che probabilmente farebbe il guardiano del faro, vivessimo in un'altra epoca. Ama la fuga, ama la montagna, ama la cronometro, ama le azioni da lontano, ma anche quelle in prossimità del traguardo: gli basta sentire un ronzio nella testa e un prurito nelle cosce e se ci aggiungi un cavalcavia lui parte e va. Noi lo amiamo già. Anzi li amiamo. Forza Romeo, forza Bernal.
Locanda Hirondelle, Aosta
13 Febbraio 2025Newsletteralvento points
Quel nido di rondini, in un angolo, sotto il tetto della locanda, c'era già ai tempi di Rita e Aurelio. Poi le rondini erano tornate, come ogni primavera, e quei due signori avevano pensato che fosse un segno, per questo la loro locanda l'hanno chiamata "Hirondelle", ovvero rondine in lingua d'oltralpe. Qualche anno più tardi, anche Nathalie e Alice Pellissier, le loro nipoti, dopo tanto studiare, viaggiare, provare diversi lavori, avevano fatto ritorno in quel luogo, dove erano cresciute. I nonni se ne erano andati e i ricordi che ne hanno queste ragazze che, oggi, gestiscono questa attività ad Aosta, sono testimonianze, perché di loro hanno spesso raccontato i genitori, Vanda e Livio, magari a sera, comunque in quella locanda visto che Alice e Nathalie, sin da bambine, sono cresciute in una casa che era un albergo, quell'albergo dove lavoravano mamma e papà, dopo nonno e nonna. Erano gli anni degli 883 e di una canzone che recitava «questa casa non è un albergo» e con gli amici, a scuola, ne ridevano, si prendevano in giro. Ricordavano quando, ancora piccole, giravano per i corridoi in pigiama, disseminavano giocattoli ovunque, si avvicinavano ai tavoli mentre i clienti facevano colazione, pranzavano, cenavano e, qualche volta, venivano invitate ad uscire in gita, forse per quella naturale simpatia che suscitano i bambini. «Mamma e papà erano sempre impegnati, di corsa, di fretta, perché questo è un lavoro difficile, un lavoro che toglie tempo alla sfera privata e diventa il centro, assorbe qualunque cosa con cui venga a contatto: nella ristorazione, nell'accoglienza, non esiste il sabato, non esiste la domenica e nemmeno il Natale o la Pasqua. Se queste mura sono sopravvissute a decenni e decenni, lo dobbiamo ai loro sacrifici. Nell'infanzia, però, si desidera un adulto accanto, con cui giocare oppure uscire a camminare. Noi non potevamo chiederlo a loro, così lo chiedevamo agli ospiti che, alla fine, si affezionavano». Allora, fra tanti pomeriggi afosi d'estate, bui di inverno, tempestosi d'autunno e freschi di primavera, indirettamente, continuando a respirare quelle abitudini, Alice e Nathalie avevano imparato quel mestiere. Una consapevolezza arrivata d'improvviso: «Alla fine, noi quello sappiamo fare. E, forse, proprio quello dovremmo fare». Sì, le rondini che tornano a casa, con i primi cieli azzurri della bella stagione.
In gergo si parla di ristrutturazione ed è questo ciò che fanno le sorelle Pelissier appena presa in mano l'attività. Ristrutturare significa mettere a nuovo, pur facendo i conti con quello che già c'è stato, con il passato. L'impostazione di base viene mantenuta, ma alcune scelte si distanziano abbastanza da quello che è l'arredamento classico delle case in Valle d'Aosta, con molti orpelli ed un particolare legno tipico: «L'idea comune è che così si trasmetta calore. Noi abbiamo sempre seguito una filosofia: less is more. Meglio togliere che aggiungere e, togliendo, alla fine aggiungerai. La semplicità, se ben interpretata, non priva di nulla, anzi porta altri significati e le persone se ne accorgono. Il calore qui giunge attraverso la luce ed uno stile nordico: sono chiare le pareti, è chiaro il legno. I colori vengono dai tavoli, dalle sedie, dalle poltrone, dagli elementi d'arredo. Il tutto crea luminosità». All'ingresso si incontra subito la reception a destra ed il bar a sinistra, spazi che, di solito, sono anonimi, poco abitati negli alberghi, in quanto, di base, luoghi di transito per pochi minuti, il tempo di fare il check in oppure di bere un caffè: in locanda "Hirondelle" proprio in questi luoghi vi è una libreria, vi sono dei giochi, per favorire la socializzazione fra gli ospiti stessi e fra gli ospiti ed i gestori dell'hotel. Il sottofondo è in una parola che Nathalie, Alice e Beatrice, loro fidata collaboratrice, hanno fatto propria: sostenibilità.
«Si tratta di un discorso a 360 gradi. Parte dall'alimentazione, ad esempio, dalla nostra scelta vegana, anche se l'etichetta non ci piace, però non si ferma lì: intendiamo un modo di vivere che non causi sofferenza ad altri esseri viventi, che ci rimetta in pari con la natura e con i nostri ritmi naturali. Quelli umani che, troppo spesso, dimentichiamo». Nathalie e Alice parlano anche di loro stesse, del loro modo di affrontare quel lavoro, ad esempio. Il primo impatto le ha messe a dura prova, perché, come i genitori, si stavano lasciando trascinare nel vortice di un'attività che annullava tutto il resto, che prosciugava, attraverso lo stress che c'è, in ogni mestiere, ma era tanto, troppo: «Riconosciamo il merito di mamma e papà, senza alcun dubbio, però ricordiamo anche come passavano le loro giornate. Siamo state distanti per diverso tempo, vivevamo in paesi differenti, ma, quando siamo ritornate ad "Hirondelle", ci siamo dette che, pur ammirando l'esempio, dovevamo staccarcene, per il nostro bene. Solo un'altra strada ci avrebbe permesso di continuare a lavorare qui. La persona deve essere al centro, nonostante il lavoro sia importantissimo. Tuttavia prima noi stessi, poi il lavoro, qualunque lavoro». Di fatto, aprire un'altra via vuol dire lasciare la via maestra, il percorso ed il modo di vivere segnato dai genitori e non è mai facile. Racconta Alice che il cambiamento è stato impattante, soprattutto quando ne ha parlato con la madre che, per cultura, non ha mai detto no al lavoro, ha sempre cercato di accontentare tutti e ha rinunciato a molto per quella locanda, senza rammarico, era soddisfatta: «Ha patito questa nostra volontà di cambiare completamente approccio, soprattutto all'inizio, ed era normale. Per lei è stata quasi una messa in discussione personale. In realtà, alla fine, è come se avessimo vissuto una sorta di psicoterapia transgenerazionale e anche mia mamma, così ansiosa, piano piano ha capito ed ha acquisito morbidezza. Ha compreso che è possibile dire no, che talvolta è necessario farlo».
Un passaggio che non riguarda solo Nathalie e Alice, ma anche Beatrice Durantini, «energia nuova e travolgente», che si è unita all'attività da qualche anno, provenendo dalle Marche ed avendo alle spalle studi in giurisprudenza, perché si era stancata di quel tipo di vita "standard" e cercava altro. A lei i genitori hanno ricordato gli studi pagati, la carriera che avrebbe potuto avere e quella scelta di un lavoro che, a fronte di molto impegno, spesso restituisce poco. Beatrice non ha avuto dubbi e, oggi, "Hirondelle" è una locanda gestita da tre donne: «Ognuna di noi ha portato e porta una propria parte, una propria peculiarità in questo progetto: io con la mia passione per il ciclismo e la bicicletta, Nathalie con lo yoga e la meditazione e Beatrice con questa ventata di aria fresca, attenta alle nuove generazioni, alla città, alla stand up comedy, alla cinematografia. Non a caso organizzeremo delle rassegne cinematografiche, tra cui una retrospettiva su David Lynch, ma anche dei corsi di ceramica e delle cene con delitto. Non mi piace usare la parola orgoglio, tuttavia, sono contenta di questo esempio di imprenditoria femminile, per la sinergia che poniamo in atto, per l'attenzione alla questione di genere e alla questione sostenibilità. Senza perdere la delicatezza». Sì, le persone che entrano in locanda si confrontano con questi temi, spesso, attraverso l'occhiata ad un libro nella libreria, piuttosto che per avere sfiorato l'argomento, senza che nessuno lo imponga, perché non sarebbe giusto e perché dalle imposizioni nasce il conflitto, il rifiuto e questo Nathalie, Alice e Beatrice lo sanno, perché hanno sbagliato anche loro, hanno alzato i toni anche loro per un'idea, pur giusta, e poi sono state male. Da una parte c'è il messaggio che Hirondelle prova a trasmettere, dall'altro, la quotidianità.
«Io e Nathalie fatichiamo ancora a trovare il giusto equilibrio. Qualche volta, soprattutto in estate, quando il lavoro è sempre più ed il tempo libero sempre meno, Nathalie e Beatrice mi vedono stanca e mi propongono di andare a farmi un giro in bici. Bastano un paio d'ore e torno rigenerata». Alice confessa che il suo luogo preferito è un sentiero chiamato Ru Neuf: parliamo, il più delle volte, di antichi percorsi di ruscelli, canali di irrigazione in epoca medievale, che si addentrano nei boschi, nella natura, nel silenzio, per, magari, venti chilometri, sempre in pianura. Democratici, perché possono essere percorsi da chiunque, basta una gravel, una mountain bike, talvolta a piedi. Anche Nathalie e Beatrice, quasi per osmosi, hanno iniziato ad interessarsi di biciclette e ciclismo. Beatrice, poi, avendo anche un compagno pedalatore è «circondata» e non può che imparare cose. Per Alice è iniziato tutto da una vecchia bicicletta e da un viaggio in Sardegna: da quel momento non è più riuscita a viaggiare al ritmo di aerei, bus e macchine. Ha sempre cercato una bicicletta, più simile a lei, con la possibilità di scoprire, addentrandosi in paesini e vicoli che altrimenti non sarebbero esplorabili. Una bicicletta come inno alla lentezza ed alla riflessione.
«Mia sorella Nathalie, invece, è la nostra parte spirituale. Ogni tanto la prendiamo anche in giro, perché i nostri ospiti avvertono questa sua vocazione e si confidano molto con lei, la cercano. Grazie a lei non mi abbatto quando arrivano i momenti difficili, perché mi ha insegnato che se arrivano c'è un motivo, ed è giusto affrontarli e proseguire, trarre ciò che possono darci. Nathalie è il motore di tutto questo. La locanda è un luogo tranquillo, in cui organizziamo anche incontri di yoga, invitando insegnanti, cercando di coccolare chi viene a trovarci, come proviamo a fare sempre».
Inclusività è la parola chiave ed è attraverso questa inclusività che, spiega Alice, dalla locanda "Hirondelle" si guarda il mondo. Certo, perché chi fa il suo lavoro conosce il mondo attraverso le persone che, soggiornando, lo portano fra quelle mura. Bisogna restare curiosi, attenti, è necessario averne cura, proprio mentre si lavora. «La nostra strada è iniziata da poco, impareremo molto e probabilmente cambieremo anche. Però non modificheremo mai la sincerità verso i clienti: non è stato facile intraprendere la via vegana, perché comunque è un lavoro e la preoccupazione di perdere una fetta di clienti poteva esserci. Non li abbiamo persi, nonostante la nostra clientela sia per la maggior parte onnivora, perché hanno compreso la nostra sincerità. Il lavoro crediamo sia questo e speriamo resti sempre questo. Ci sono i problemi, le avversità, le difficoltà, ma il lavoro può nutrire. Anzi, deve nutrire qualcosa nelle persone». Il nido di rondini là sopra, sul tetto, c'è ancora e le rondini continueranno a tornare perché, ormai, è casa loro.
Foto: Tommaso Longo
Ricordi, speranze, futuro: intervista a Nadia Quagliotto
Sono trascorsi ormai più di cinque anni da quell'otto luglio 2019 a Carate Brianza, al Giro d'Italia femminile, e ora che «è acqua passata, ci si può quasi ridere sopra», ma a Nadia Quagliotto quel giorno è come se fosse caduto il mondo addosso. Una volata a tre in un pomeriggio lombardo ed afoso e la fuga, inizialmente senza speranze, che arriva al traguardo: Nadia Quagliotto era all'attacco da diversi chilometri con Letizia Borghesi e Chiara Perin ed in quello sprint pareva la più veloce. La sua ruota è stata davanti a tutte fino all'ultimo, quando Quagliotto ha alzato le braccia al cielo e Borghesi l'ha superata, prendendosi la vittoria. In quell'esatto istante il mondo era crollato con un rumore fragoroso e un silenzio impossibile da ascoltare, quello della delusione e del dolore, dell'imbarazzo e della vergogna, anche.

«Sarebbe cambiato qualcosa per me? Non si può sapere ed il senno di poi vale quel che vale, tuttavia non credo. Ricordo perfettamente la sensazione di essere messa in croce: il giorno dopo non avrebbero voluto farmi ripartire. Ho sbagliato ed è stato un grosso errore, qualcosa che io stessa non mi perdonavo. Forse, però, non meritavo quella reazione, perché può succedere, non sono stata la prima e non sono stata l'ultima. Avrei dovuto reagire diversamente, ma avevo ventuno anni e si è più fragili a quell'età. Ero succube delle situazioni, subivo tutto quello che mi accadeva: ho imparato in quell'anno e in quello successivo a dire qualche sano "va a quel paese", a non logorarmi il fegato per quello che, alla fine, è solo un lavoro. No, non ho mai parlato con Letizia di quell'episodio». Classe 1997, da ragazzina si cimentava con il nuoto, anche a livello professionistico: ha smesso perché le sembrava troppo impegnativo e adesso si prende in giro: «Non so se nella scelta ci ho guadagnato, anzi sono convinta di averci perso ma, quando avevo una decina di anni, volevo a tutti i costi fare la ciclista. Non sono stata molto furba, dai». A casa Quagliotto il ciclismo non era praticamente mai entrato e tra il 2019 ed il 2020 stava per uscirne definitivamente. Perché dopo quella tappa, ci fu la parentesi in Cronos Casa Dorada.

«Tuttora non so cosa accadde, però so che per sette, otto mesi continuavano a dirci che sarebbero arrivati i soldi per ripartire e quei soldi non arrivavano. Era il periodo della pandemia, nessuno correva. Non sai del tuo futuro, non sai più nulla: se corri, qualcuno può notarti, ma se non corri? Finisci nel dimenticatoio, il nostro mondo è così. Ho pensato di mollare tutto e fare altro. Mi ha salvato Walter Zini che conoscendomi mi ha voluto con lui». Proprio con Zini ha imparato una certa leggerezza, la capacità di non far caso a tutto, di lasciarsi scivolare le cose addosso, «altrimenti con Walter smetti di correre»: Zini che tatticamente difficilmente sbaglia, Zini che ancora oggi la prende in giro con qualche battuta e lei ricambia allo stesso modo. Non molto tempo fa, le solite borracce che utilizza hanno cambiato colore e lei l'ha subito notato e ne ha parlato con una compagna: «Ora vedo anche quando una borraccia ha un colore differente, pensa te. Ha a che vedere con quel periodo buio. Ho iniziato lì a far caso alle piccole cose». Ha messo da parte l'ansia che ne caratterizzava il carattere, mentre le è rimasto un certo pessimismo su cui continua a lavorare: a casa, i genitori sono contenti della sua scelta, soprattutto dell'impegno che mette nel proprio mestiere. Le augurano successi perché è così che si continua a costruire una carriera ed anche lei li spera perché «sono stati anni di sacrifici economici anche per loro, per accompagnarmi alle gare, per sostenermi e nel ciclismo, da bambina o da ragazzina, se il genitore non ci crede devi fermarti, perché da sola non puoi andare da nessuna parte, sono trasferte lunghe, pesanti. Di certezze non ce n'erano, tanto più che non è un mondo che naviga nell'oro». Si definisce "all rounder" perché ha un buono spunto in volata e si difende in salita, poi scherza: «In sostanza è un modo carino per dire che non sono carne e non sono pesce: vado bene un poco ovunque ma non vinco, mi stacco sulle salite troppo impegnative e in volata fatico perché sono troppo magra. Non ho una corsa preferita, mi si addicono le gare di un giorno, non troppo lunghe, sennò mi annoio e, di conseguenza, mi deconcentro, e mosse. Sono sempre lì, ma vorrei la vittoria».
Lo scorso anno, in Laboral Kutxa, racconta di essere mancata a metà stagione, pagando forse l'intensità del mese di aprile e maggio: dapprima qualche malanno fisico dovuto al freddo nelle Ardenne, successivamente, a luglio, svuotata completamente dal Covid al Giro d'Italia. Il fisico ko, ma, soprattutto, la testa che ad un certo punto cede: è sicura di peccare più di testa che di condizione e su questo sta concentrando i propri sforzi, in questo modo spiega di essere riuscita, talvolta, ad andare anche oltre quello che lei stessa si aspettava. «Pativo la pressione e questo non mi permetteva di rendere al meglio. A metà stagione il cambiamento: mi hanno chiesto di fare un passo indietro e mettermi a disposizione delle compagne. Mi è servito, ho preso consapevolezza ed è stato tutto più semplice. Mi hanno detto che raramente hanno conosciuto un'atleta capace di mettersi a disposizione così volentieri: a me non pesa ed anzi mi sento gratificata da un ringraziamento, semplice semplice. Del resto anche queste sono piccole cose da apprezzare. Il ciclismo non è uno sport individuale, è una disciplina di squadra». Alle ultime gare di stagione, il suo allenatore l'ha presa da parte: «Nadia, sei arrivata qui che eri una persona e te ne vai completamente diversa, ci spiace perderti». Lei si è commossa. Sì, da quest'anno veste i colori di Cofidis: i primi contatti ci sono stati a marzo, successivamente alcune call ed a giugno la firma definitiva. Sarà un altro step nella sua carriera e le permetterà di disputare le classiche che, per tracciato, le si addicono. Sta studiando francese, anzi, a dire il vero sta provando a ripassarlo perché ha studiato all'Istituto Tecnico Turistico e fra le materie c'erano inglese, francese e spagnolo: «Studiato è una parola grossa, perché studiare non mi piaceva, col senno di poi, però, avrei preferito farlo prima che dover recuperare adesso. A parte gli scherzi, da casa mia alla scuola c'erano trenta chilometri: le mie compagne mi dicevano che al ritorno a casa vedevano i cartoni animati. Io tornavo sfinita dagli allenamenti e studiavo a sera. Già non era il mio forte, in queste condizioni poi. Però gli insegnanti mi hanno aiutato, devo dirlo».

In Cofidis ha ritrovato Martina Alzini, si conoscono da molti anni, da quando Quagliotto si cimentava con la pista, nel quartetto: quel periodo le ha cambiato il fisico perché spingere rapporti così duri ha certamente influito sul fisico. Ora probabilmente gli effetti non si sentono più, ma all'inizio riconosce siano stati importanti: «Ho smesso quando sono approdata in Fassa Bortolo nel 2016 ed era ovvio che accadesse così. Facevamo il Fiandre, sono cresciuta bene con loro, Lucio Rigato mi ha insegnato molto e, a dire la verità, credo di aver sbagliato ad andare via, avrei dovuto fare un altro anno lì e crescere con più calma. Ma non avevo molto la testa, non ero molto in bolla, così ho scelto frettolosamente. Del resto, fuori dalle gare sono un poco un disastro, è la mia indole». Alle gare ritrova la concentrazione ma il mondo professionistico diventa pesante ed ora della fine dell'anno si sente la necessità di staccare: «Di fatto siamo intrappolate nella solita routine: allenamento, rulli, massaggi, camera, cena, sonno e si ricomincia. Vero che giriamo molto, ma non esistono visite alle città, al massimo una pausa caffè al bar. Anche gli argomenti di dialogo sono più o meno sempre quelli. Non c'è altro, viviamo per il ciclismo. Sento la necessità di tornare a casa, fosse pure una toccata e fuga». Nata e cresciuta a Maser, da qualche mese si è trasferita a Bergamo, per stare accanto al suo compagno. Segue molti sport, in particolare documentari su Formula1, atletica, nuoto e tennis. Nel gruppo del ciclismo si dice ammirata dalla bellezza stilistica di Van der Poel in sella, ma ha imparato a mettere tutto al giusto posto ed a vivere di conseguenza, così è possibile soffrire meno, pur impiegando la stessa passione. Se deve buttarsi in volata, il pensiero di quel giorno del 2019 non c'è più e lei è libera.
Ogni tanto si ferma a pensare, perché sa che, per quanto sia giovane, la carriera da atleta prima o poi finirà: non sa cosa potrà fare quando scenderà di sella e la cosa la preoccupa. Poi scherza, sorride, ride forte e chiosa: «Finirà che arriverà il momento e ci penserò, altre soluzioni non ne ho. Sono fatta così».
Dispacci dal World Tour #3
8 Febbraio 2025Corse,Approfondimenti
Prima di ripartire dal medio oriente (dal 17 febbraio con l'UAE Tour, quel giorno farà anche l'esordio stagionale Pogačar) il World Tour scrive l'ultimo capitolo del racconto australiano della stagione 2025, una lunga premessa ai discorsi che si svilupperanno lungo l'arco della stagione. Gli spunti sono rimasti soltanto abbozzati, ciò che abbiamo visto al Tour Down Under non è stato rivelatorio per la Cadel Evans Great Ocean Road Race (le corse cambiano nome, molto spesso e in realtà non ho capito se si chiama ufficialmente ancora così, ma credo possa andare bene lo stesso), che piaccia o no, la prima corsa di un giorno del massimo calendario mondiale del ciclismo maschile. In una giornata caldissima e selettiva ne esce fuori Mauro Schmid avvezzo alle montagne russe in fatto di continuità, che si lasciò male qualche stagione fa con la Quick Step entrando anche lui nel lungo elenco di corridori svergognati da Lefevere a mezzo stampa nei tanti anni in cui l'ex Team Manager belga, andato in pensione quest'anno, ha usato i microfoni nel tentativo da una parte di stimolare, dall'altra di screditare il lavoro dei suoi corridori.
Fatto sta che Schmid è un mastino, gli manca la continuità, ma nonostante tutto si sta costruendo una bella carriera, considerando la giovane età (25 anni) e i diversi periodi persi tra infortuni, lo scorso anno, separazioni improvvise (per l'appunto con la Quick Step) o momenti complicati (vedi la chiusura della Qhubeka nel 2021). Ha vinto una tappa al Giro, primo successo in carriera da professionista, una vittoria tutt'altro che semplice a dimostrazione della sua duttilità: sua la tappa degli sterrati di Montalcino, dominando in uno sprint a due Covi, dopo una lunga fuga. Ha vinto tre brevi corse a tappe: nel 2022 il Giro del Belgio, nel 2023 la Coppi & Bartali, nel 2024 il Giro di Slovacchia. Va forte a cronometro, si difende nelle salite brevi, è veloce, si esalta con condizioni di meteo complicate. Corridore trasversale, che dove lo metti sta, alla costante ricerca di quel risultato che lo possa proiettare ai vertici assoluti.
Sono state difficile le condizioni con cui è andato a vincere alla Cadel Evans Road Race, prima corsa di un giorno vinta a parte il campionato svizzero lo scorso anno: avverse per il grande caldo che lui non teme e difatti è emerso, grazie anche all'aiuto di una squadra che, perso Plapp (ne avrà per un po' causa operazione a un polso), ha puntato tutto su di lui che ha potuto contare sull'aiuto di Harper e Durbridge, ancora una volta tra i migliori gregari al mondo. E puntare su Schmid alla fine è valso un successo "in casa" importante, dopo un Tour Down Under più complicato del previsto per la squadra di matrice australiana al momento sponsorizzata da un distretto saudita che vuole promuovere il turismo in quella zona. Schmid, sfruttando anche l'immenso lavoro di Harper, anticipa, infila e precede un gruppetto molto ben assortito che nell'ordine gli finisce dietro così: Aaron Gate, Laurence Pithie, Javier Romo, Andrea Bagioli, Corbin Strong, Magnus Sheffield, Remy Rochas, Oscar Onley.
C'entra solo in parte con il World Tour, ma spendo due parole sul ritiro dall'attività agonistica di Karel Vacek, avvenuto nei giorni in cui suo fratello Mathias continua a progredire in maglia Lidl Trek facendo presagire sempre di più un futuro da grandissimo corridore, sia come uomo squadra che come capitano su diversi terreni (in particolare le gare di un giorno). Karel Vacek annuncia il ritiro e da un punto di vista strettamente agonistico o riflessioni riguardanti i risultati ottenuti ne lascia pochi, da professionista un solo momento brillante, tra l'altro venuto fuori in una delle più brutte tappe della storia del Giro d'Italia, ovvero quella del Gran Sasso nel 2023 quando il gruppo dei migliori quasi scioperò lasciando alla fuga la possibilità di giocarsi il successo. Lui arrivò secondo battuto da Davide Bais.
Karel Vacek condivide con pochi altri un singolare primato, ovvero quello dell'aver relegato Remco Evenepoel al secondo posto in una corsa del 2018. Anzi lui ha fatto meglio perché c’è riuscito due volte, come nessun altro e all'epoca prometteva di diventare un buonissimo corridore - non di certo un talento generazionale, sia chiaro. Questo, anche per farci capire come le cose possono cambiare quando si va forti nelle categorie giovanili: non sempre si riescono a mantenere le promesse e l'elenco è infinito anche a partire da i nomi che arriveranno a breve.
Vacek vinse davanti a Evenepoel la quinta tappa della Course de la Paix Juniors un arrivo in salita in cui relegò allo sprint, oltre a Evenepoel, Tiberi, il norvegese Aasheim e Samuele Rubino. Anche questi ultimi due non hanno avuto poi molta fortuna nel ciclismo finendo uno per ritrarsi nel 2021 e l'altro al termine della scorsa stagione. Vacek di nuovo finì davanti a Remco poche settimane dopo nella crono del Lunigiana.
Gli altri corridori con cui condivide questa statistica il buon Karel Vacek: Luca de Meester (ovvero Luca il Maestro), era il Trofeo Serge Baguet di Sint Maria Lierde. Dopo essere stato all'attacco tutto il giorno, de Meester vinse lo sprint a tre contro Remco e Vandenabeele. Oggi de Meester corre con la Wagner Bazin e insegue il primo successo tra i professionisti.
Joe Laverick nel prologo della Ster van Zuid-Limburg, stesso tempo di Remco, vinse per una questione di centesimi. Oggi Laverick, che è stata una buona promessa del ciclismo britannico e internazionale, fa il giornalista.
Søren Wærenskjold, di nuovo a cronometro, e di nuovo per un'incollatura, stavolta non sono centesimi ma un secondo: il norvegese, che tutti conosciamo perché va forte sia come velocista, che come specialista delle crono brevi e come pesce pilota, lo superò nella seconda tappa del Trophée Morbihan - Remco poi vinse la classifica finale davanti ad Andrea Piccolo.
Bini Girmay alla Aubel Stavelot Juniors superò Evenepoel allo sprint dopo che i due avevano anticipato il gruppo partendo lontani dal traguardo. Evenepoel quel giorno indossava la maglia da campione europeo ed era grande favorito, Girmay era ancora uno sconosciuto che correva con la maglia del Centre Mondial du Cyclisme. Bini è stato anche il primo classe 2000 a imporsi in una gara tra i professionisti (23 gennaio 2019) anticipando di qualche mese proprio Evenepoel.
Infine Fredrik Thomsen, danese, il quale, sempre alla Aubel Stavelot Juniors, si prese il lusso di battere Evenepoel in uno sprint a due dopo una tappa dura e ricca di salitelle che decise la classifica finale, vinta da Evenepoel. La carriera del danese durò poco: dopo qualche apparizione tra i dilettanti, esclusivamente in corse di casa sua, si ritira nel 2023.
Palo Alto Bikes, Rivignano
5 Febbraio 2025Newsletteralvento points
Palo Alto era Palo Alto Market, a Poblenou, Barcellona: una vecchia fabbrica tessile di mattoncini rossi, con una ciminiera che svetta alta nel cielo, il cosiddetto Palo Alto, per l'appunto. Questo spazio, un tempo simbolo dell'industria, oggi pulsa di nuova vita, ospitando giovani artigiani e creativi che ogni mese danno vita a un mercatino, un magico equilibrio tra modernità e tradizione. In Spagna, a Barcellona, Lorenzo Sandrin era arrivato per incontrare Michela, la sua attuale compagna, ma quello strano nome e la scelta di quegli artigiani l'avevano, da subito, meravigliato.
Che a Palo Alto, in California, esistesse già un negozio di biciclette dal nome Palo Alto Bicycles, l'avrebbe scoperto solo anni dopo, quando in via Umberto 79, a Rivignano, in provincia di Udine, i vetri di una piccola vetrina si affacciavano già su un altro Palo Alto Bikes, quello nato dalla sua idea di ricreare quell’atmosfera magica di artigianato moderno. In California, Lorenzo non è mai stato, ma Italo, un signore all'epoca ottantenne, gestore della ferramenta del paese, sì, per trovare suo figlio che vive negli Stati Uniti. «Italo aveva un inglese incerto e le movenze di un padre anziano, ma in quel negozio lontano, riuscì a spiegare che pure nel suo paese c'era una realtà con lo stesso nome. Non so quanto quel titolare, con svariati dipendenti e un giro d'affari importante, potesse essere interessato al racconto della mia storia, ricordo però l'ultima volta che Italo venne da noi e mi narrò questo fatto. Purtroppo Italo non c'è più, ma io lo rivedo orgoglioso come quel giorno e, nella mente, risento la sua descrizione, mentre lo immagino che parla in inglese del proprio paese e del nostro negozio». Così questa è la storia di quel nome curioso, dietro a cui se ne nasconde un'altra, schietta e sincera, come sono i friulani: senza fronzoli, senza retorica.
La verità è che Palo Alto Bikes è nato da una necessità, di più, è nato da diverse insoddisfazioni lavorative. Suo padre faceva il lamierista carrozziere, un mestiere quasi ormai scomparso, dedito alla riparazione degli oggetti in lamiera: che fossero pezzi di una vecchia Alfa Romeo Giulia, di una Lambretta o di un trattore non faceva differenza. Li portava a casa e ci lavorava pazientemente, mentre Lorenzo e suo fratello imparavano. All’epoca uno scooter usato, con qualche sistemazione e una riverniciatura, pareva come nuovo. Lo spazio per tutto questo era l'officina sotto casa, fino a che, un giorno, papà tornò con un telaio in acciaio datato, montato Campagnolo: era il periodo delle biciclette a scatto fisso, della Red Hook. Quell'officina diventò improvvisamente dedicata a quella e ad altre biciclette: Lorenzo montava, smontava, lucidava e costruiva ruote. Michela, di tanto in tanto, passava da quelle parti e le sue parole erano sempre più o meno le stesse: «Che bella la tua manualità, perché non ne fai qualcosa in più? Dovresti provare».
«Di fatto, fu un salto nel buio, un azzardo, seguendo un’ispirazione e un modo diverso di vedere il ciclismo. Ho viaggiato per le principali capitali europee, oppure a Barcellona e Berlino, ad esempio, cercando ispirazione ed imparando tutto quel che potevo captare, per poi applicarlo nel mio progetto. Avevo uno studio di produzione che, però, non riusciva a fornirmi alcun sostentamento a livello economico: dove c'era l'attrezzatura audio, ora ci sono attrezzature per biciclette, la musica degli strumenti è diventata vento tra le ruote e la passione è divenuta un lavoro».
Palo Alto Bikes è cresciuto di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno: nel primo periodo vi trovavano casa biciclette molto standard, ora in esposizione è possibile trovare brand di nicchia (come BROTHER Cycles, O.P.E.N. e Bombtrack) e qualche ruota in carbonio assemblata a mano. Col tempo sempre più persone sono arrivate qui attratte dalla passione e dalla cura che Lorenzo mette nel suo lavoro. L'attenzione di Lorenzo è stata quella di rimanere al passo coi tempi, ricercare prodotti e soluzioni interessanti e dedicare tempo alle esigenze dei clienti e ai loro montaggi personalizzati. «Credo che questo mondo, quello del ciclismo, si possa dividere in tre macrocategorie: gli amatori, gli agonisti e gli appassionati. Da questi ultimi si trae sempre nuova linfa per le giornate: conoscono ogni salita e ogni altimetria, in vacanza, a tempo perso, vanno in bicicletta, magari salgono al Galibier o al Mont Ventoux, soprattutto conoscono cose a cui gli agonisti non fanno nemmeno più caso, presi dal risultato, dai numeri. Il mio lavoro mi ha permesso e mi permette ogni volta di vedere le diverse facce di questo piccolo universo chiamato ciclismo».
Un gestore, specifica Lorenzo, nel 2025, non può fermarsi alla vecchia logica del negoziante o del meccanico, bisogna, invece, entrare nell'ottica di una sorta di "meccanico 2.0", perché «mi si permetta il gioco di parole, fare solo ciò che paga, in realtà, non paga. Le persone ormai acquistano tutto dal divano di casa: bisogna aiutarle a fidarsi e, al giorno d'oggi, non è facile». Lorenzo non si sente venditore, anzi, narra che quella è la cosa che ha più difficoltà a fare, lui si diverte a costruire bici su misura, per quella persona o per quell'evento, quando, tuttavia, si trova a dover vendere inizia a fare domande, a chiedere, a rovistare fra le varie esperienze, fra le vecchie biciclette per reperire le misure corrette: qualche cliente non è rimasto al passo con i tempi, allora Lorenzo improvvisa, sa farlo bene, gli riesce, e così cerca di capire la persona che ha davanti, quel che vuole, che desidera.
«Mi interfaccio anche io con quello che chiamo "l'arrangismo friulano", un atteggiamento ben riassunto da una frase tipica: “fasin di bessôi”, ovvero "facciamo da soli", omaggio alle capacità ed ai talenti friulani e forse anche un poco alla proverbiale diffidenza di questo popolo. Mi capita che mi arrivino qui persone con biciclette in condizioni abbastanza precarie che, magari, hanno intenzione di fare lunghi viaggi, all'altro capo del mondo: in quel caso serve spiegare, è necessario mettere davanti alla realtà dei fatti. Non sempre capiscono perché è un qualcosa di ancestrale quel modo di fare, quello del pensare di non aver bisogno di nessuno, ma talvolta si riesce a cambiare. Dalla stessa origine deriva l'avversione che spesso, anche sui social, si ha nei confronti dei meccanici, quasi non fossero idonei ad occuparsi delle nostre biciclette perché "faremmo meglio da soli". La problematica è la stessa e vale per ogni zona d'Italia». Il friulano, inoltre, è diffidente, anzi, forse, molto diffidente, ma, una volta che si riesce a fare breccia nel suo scudo, si rivela una persona aperta e calorosa. Bene, in quel momento diventa impossibile anche solo passare dalla regione senza avvisare: ci tiene a mantenere il contatto, la conoscenza, l'amicizia.
Il locale è articolato in due ambienti distinti, caratterizzati da altrettanti, spazi, come fossero due mondi: uno relativo alla vendita con qualche bici in esposizione, l'altro all'officina, con una piccola vetrina ad attirare l'attenzione sul negozio. L'idea è sempre quella di cercare di offrire non solo prodotti e servizi ma anche un’esperienza divertente ed originale al cliente: «Penso, ad esempio, alla Cimiteri Ride, la nostra gravel annuale che organizziamo nel periodo della festa di Ognissanti. Sarà per il nome assurdo o il periodo particolare ma ogni anno attira sempre più partecipanti. Non serve molto: una traccia particolare, i ristori con prodotti appetibili, magari locali. La chiave è mantenere tutto semplice, genuino, anche se non è così scontato: alla fine, si tratta solo di una pedalata insieme, nulla di più. Un altro esempio potrei portarlo parlando delle uscite che organizziamo in notturna, al mercoledì, e, visto che siamo un poco distanti dalle principali città, ci siamo inventati una sorta di tour: siamo stati ad Udine, a Pordenone e in altre località. Sapete il bello? Alcune di quelle persone, che hanno pedalato nei nostri eventi, si scambiano nomi e numeri di telefono e, successivamente, si ritrovano per correre assieme: questo per me è un risultato, forse il più importante».
L'invito di Lorenzo è quello di restituire il maggior potere possibile all'utente finale, un potere che, di fatto, gli appartiene. Per farlo, spiega, è necessaria una sorta di involuzione, un ritorno alle origini. Si tratta di riscoprire le botteghe, dove trovavi non più di una ventina di biciclette, in contrapposizione ai grandi negozi, dove spesso «si vendono scatole vuote». In quelle botteghe, l’utente si riconnetteva con l’artigianato e con una dimensione più umana e autentica. Secondo Lorenzo Sandrin, quando queste due strade – tecnologia e artigianalità, modernità e tradizione – torneranno a incontrarsi, sarà stato fatto un grande passo avanti. È una visione in cui crede fermamente.
Intanto, da quel 9 marzo 2019, sono già trascorsi ben più di cinque anni, quasi sei, a dire la verità, mesi e giorni in cui quel salto nel buio e quella scelta coraggiosa si sono rivelati un successo. Di passi avanti se ne sono fatti e tanti e se ne vorrebbero fare ancora. Crescere, certo, ma con un punto fermo: la natura artigianale, che, ancora oggi, è preziosa e da preservare. Nelle pieghe dell'artigianalità ci sono le origini e le origini sono la base da cui costruire qualunque cosa: anche Palo Alto Bikes, dal nome californiano, dal ricordo spagnolo, dalla base friulana, dalla realtà a due ruote, come due ruote hanno le biciclette di qualunque ordine e grado.