Tracce Bike Shop, Genova

Potrebbe essere una sera, una delle tante, in cui Genova ed il suo mare sono avvolti nel buio. Genova in un ritratto, come la narrava Giorgio Caproni, nella notte la pensiamo così: "Genova di solitudine, straducole, ebrietudine. Genova di limone. Di specchio. Di cannone. Genova da intravedere, mattoni, ghiaia, scogliere. Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole". Le finestre delle case sono quadri illuminati e chissà cosa accade dietro le tende, mentre il mare è mosso. Chissà la felicità, la paura, la stanchezza ed i pensieri. Chissà il giorno che nascerà, il domani, ora dov'è, come suona o risuona alle orecchie, come si compone nell'immaginazione. Da qualche parte c'è Marco Bragagnolo, già nel letto, è una delle sere in cui il sonno non vuole arrivare, turbato da qualche preoccupazione: «Ti giri e ti rigiri nel letto, non funziona. Qualcuno conta le pecore in questa circostanza, ognuno ha i propri trucchi. Personalmente mi visualizzo in bicicletta, da solo, tranquillo, con una leggera brezza che mi viene incontro, magari sull'Alta Via dei Monti Liguri, dove compaiono i pascoli e la natura regna sovrana. Riempio questa situazione di dettagli e, lentamente, le braccia di Morfeo mi avvolgono». Qualcosa di simile allo stare sdraiati sul letto, occhi al soffitto, dopo il click che spegne la luce in camera, a pensare ad un amore per ritrovare serenità. La bicicletta è un amore per Marco Bragagnolo, un amore nato presto, forse un poco "immaturo", o solamente diverso, più forte, toccante, com'è nell'adolescenza, ed evolutosi negli anni, cresciuto con lui, migliorato come un buon vino, non più quel che "strazia", che toglie la fame, ma che si deposita e resta.

«Era un sentimento morboso, che, dapprima, aveva molto a che fare anche con l'estetica dell'oggetto bicicletta, che mi affascinava, mi ammaliava. Mi piaceva andare a pedalare e su quell'istante si è costruito quel che c'è ancora oggi, perché quando prendo la bicicletta percepisco qualcosa di simile ai superpoteri. A cinquantotto anni posso ancora alzarmi dieci metri sopra il terreno e isolarmi da tutto il resto, dimenticarlo, metterlo all'angolo. Non servono grandi giri, anche il bike to work è sufficiente». La prima bicicletta è quella acquistata con tutti i risparmi di un'estate di lavoro, ai tempi della scuola, quella che pareva bellissima, unica, invece, con gli occhi degli adulti e con lo sguardo di oggi, era davvero modesta, "un cancello", come si dice in gergo ciclistico. La prima mountain bike, invece, è arrivata all'inizio degli anni novanta, «quando prendevo e mi rifugiavo nei boschi a pedalare, per, poi, finire a fare portage, a portarla in spalla quella bici perchè, ad un certo punto, non avevo la forza per spingere sui pedali». Così, sulla terra, c'erano le orme della sua camminata e le tracce incise di quei copertoni. Traccia è una parola chiave, in questa storia, non solo perché "Tracce Bike Shop" è il nome del negozio di Marco, in via Monte Grappa 26r, a Genova. Si tratta di una parola importante perché può essere declinata in più modi: traccia come segno, come orma, come percorso da seguire, come indizio di un qualcosa da cercare, come ispirazione. Proprio per questo motivo Marco è legato a quel nome anche se, a dire il vero, non l'ha ideato lui, bensì il suo socio dei primi anni di attività, all'inizio degli anni duemila, «in un vero e proprio buco di trenta metri quadrati, con officina e abbigliamento all'interno». Bragagnolo aveva iniziato a lavorare in una videoteca e, nel tempo, anche quella era diventata una passione, ma il richiamo del primo negozio di biciclette a Genova era irresistibile: così forte da recarvisi sempre per dare una mano, appena poteva, ma i tempi non erano ancora maturi. Giusto qualche anno, la cessione della videoteca, un lavoro da rappresentante e questa nuova realtà che permetteva a quelle farfalle nello stomaco di trasformarsi in un mestiere, con al centro la mountain bike ed il gravel di cui Bragagnolo si prende cura da tanti anni.

«La videoteca aveva fatto germogliare una passione, un interesse, che prima non c'era. Nel caso delle biciclette è accaduto esattamente l'opposto: la passione ha costruito quel che c'è oggi. Non è facile perché la passione è un filo ossessione, tormento, qualcosa che non ti molla mai, che non ti concede respiro. Da quando lavoro con le biciclette, il mio mondo è tutto concentrato qui, pedalo molto meno, ogni tanto mi manca. Sono un lavoratore autonomo, lo sono sempre stato, e come tale non ho altra scelta che prendere il lavoro che c'è, anche se sono stanco, anche se è il periodo delle ferie. Non si va via finchè non è finita: la mia dimensione del dovere è questa». Nel 2007, il negozio viene ingrandito, ma quello che vediamo oggi è nato nel 2015: siamo sopra la stazione Brignole, il locale è esteticamente piacevole, non ci sono arredi standard, bensì molta artigianalità, oggetti pensati e realizzati da chi vi lavora, le lampade, ad esempio, costruite con vecchie ruote libere. Nel periodo dei lavori, della ristrutturazione, il negozio è restato chiuso solo dieci giorni e, se qualcuno fosse passato di lì, avrebbe visto proprio Marco ed i suoi dipendenti, la sua famiglia, a progettare, montare, smontare, ripulire, dopo aver girato per paesi e città e aver osservato altri negozi simili, qualche "bike cafè", per raccogliere idee ed imparare. «Lo dico con fierezza ed un certo orgoglio: ovviamente non potevamo occuparci noi dei quadri elettrici, i professionisti erano necessari, ma direi che circa l'80% dei lavori è stato eseguito da me, parenti e amici. Qualcosa di simile ai tempi dell'alluvione». La ferita che si cela dietro il ricordo dell'alluvione è profonda, sottolineata da un inciso spiazzante e sincero: «Era già successo nel 2011, è ricapitato nel 2014. Ricordo come ora un dialogo con l'unico dipendente che avevo in quel periodo, che mi aveva anche aiutato nella strutturazione del locale: è stato il primo a dirmi che dovevamo cambiare luogo, andare via da lì». Quel signore sapeva che Marco da molte notti non dormiva più, controllava il cielo e, se qualche goccia d'acqua cadeva a terra, restava a controllare, temendo l'ennesimo disastro.

Eppure, anche dopo l'alluvione del 2014, Tracce Bike Shop è ripartito e Bragagnolo ha progettato il nuovo negozio come mai aveva fatto prima, con una cura al dettaglio e al particolare che avrebbe ben potuto essere spazzata via da quell'acqua a fiotti e dal dover ricostruire tutto da capo, così chiedere "perché" viene spontaneo: «Il fango e la terra da quei locali non li abbiamo tolti da soli, sono venute tante persone ad aiutarci: amici, clienti, conoscenti, che non hanno esitato a sporcarsi le mani per noi. Abbiamo scoperto una vicinanza che non ricordavamo, che, forse, nemmeno sapevamo di avere. Quei sentimenti che si manifestano nei momenti più difficili. Allora siamo riusciti a trovare la forza per ripartire». A Genova, dove probabilmente il genovese puro non c'è nemmeno più, ma le sue caratteristiche, quelle stereotipate che strappano un sorriso, sono ben riconosciute e riconoscibili, oltre ad essere sintetizzate da un detto: “Sono di Genova, rido poco, stringo i denti e parlo chiaro" . A Genova, dove la bicicletta sta divenendo sempre più un mezzo di trasporto, dove si sono ampliate le ciclabili e si è investito su un nuovo tipo di mobilità, dove il clima è mite, la neve non c'è praticamente mai, e la natura è dietro al mare, ma la convivenza con gli automobilisti continua ad essere complessa e per quella serve solo il tempo, la cultura ed il reciproco rispetto, in un settore, quello delle biciclette, che, come dice Marco, ha ancora un mercato immaturo ed in periodi di difficoltà, come gli ultimi tempi, questo emerge: «Se dovessi narrare il mio lavoro tramite le soddisfazioni economiche, ti direi di lasciare perdere, di cambiare discorso. Invece non te lo dico, perché per descrivere il mio lavoro non c'è altro di meglio di raccontarti che, nonostante i sacrifici, le rinunce, non trovo, nemmeno nel pensiero, un mestiere in grado di farmi stare meglio e rendermi più felice di quanto lo sia oggi. A questo potrei aggiungerti la voglia di imparare, senza cui non avrebbe senso essere qui. Senza l'umiltà di cosa staremmo parlando?».

Da questa percezione deriva il bisogno, la necessità costante, di imparare, soprattutto rispetto alla bicicletta, un oggetto, un mezzo di cui la conoscenza difetta ancora oggi, pur con tutte le differenze date dalle varie tipologie di bici: la mountain bike, ad esempio, spiega Bragagnolo, è più un "gioco", "alla buona", qualcosa di rustico, diversa, in questo, dal professionismo su strada. In comune c'è sempre il senso di comunità, pur in qualcosa che è e resta molto personale, anche intimo, se vogliamo, perché l'esperienza in bici è, di fatto, qualcosa di unico per ciascuno. La possibilità di stare insieme deve diventare una chiave di lettura costante quando si parla di ciclismo: «Ci sarà sempre un negozio che avrà prodotti migliori, che venderà di più, a cui, in questo senso, non ci si potrà nemmeno raffrontare, perché se ne uscirebbe sconfitti, ma non deve essere questa la gara. Tracce vorrà organizzare sempre più eventi, incontri, permettere lo svilupparsi di quel dialogo, di quell'empatia, sempre difficile da raggiungere, anche perché i genovesi sono abbastanza freddi, diffidenti, devono conoscere prima di aprirsi. Ma è un fatto generale, l'empatia è essenziale per questo lavoro e per ogni rapporto umano che abbia una base solida, noi intendiamo dare questa interpretazione al nostro mestiere». Marco Bragagnolo torna con il ricordo ad una pedalata prima di Natale, organizzata dal negozio, che ha avvicinato molte persone in un momento no, è questo che intende: ritrovarsi e stare meglio. Ognuno con una propria lettura del ciclismo, per questo in "Tracce" ci sono quattro diverse generazioni a lavorare, sino ai più giovani, perché ciascuno traduce a proprio modo l'esperienza dei pedali e così la trasmette.

Ora la sera è davvero calata: "Genova città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. Genova città pulita. Brezza e luce in salita". In una camera, appena spenta la luce, qualcuno starà prendendo sonno e chissà che non pensi a un viaggio in bici, come Marco Bragagnolo da tanti anni a questa parte.


Il questionario cicloproustiano di Matteo Fabbro

Il tratto principale del tuo carattere?
Diretto e deciso.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Il carattere.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Umorismo.

Il tuo peggior difetto?
Testardo.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare.

Cosa sogni per la tua felicità?
Il benessere mio e della mia famiglia.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcuno.

Cosa vorresti essere?
Vorrei essere il vento.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Mangusta.

Il tuo scrittore preferito?
Tolkien e Coelho.

Il tuo film preferito?
American Pie.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
883.

Il tuo corridore preferito?
Peter Sagan.

Un eroe nella tua vita reale?
Nessun eroe.

Una tua eroina nella vita reale?
Nessun eroina.

Il tuo nome preferito?
Fari (soprannome).

Cosa detesti?
Scarafaggi.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Nessuno.

L’impresa storica che ammiri di più?
Annibale e gli elefanti.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Sagan al Fiandre.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.

Un dono che vorresti avere?
30 cm in più di altezza.

Come ti senti attualmente?
Bene ma non benissimo.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
"Volere è potere".


Un fattore esaltante, catalizzante

Lo conosciamo così e in nessun altro modo. Quando sta bene, in bicicletta vuole solo andarsene. Il gusto dell’avventura solitaria è il motore che lo spinge, le sue azioni sono paragonabili alla sete di conoscenza. Conosce e ama questo sport, Tadej Pogačar, assorbe e ogni anno si rimette in gioco. Ogni anno e in ogni corsa. Conosce il piacere che provocano le sue azioni, anche qualche prurito, si sa; è ben cosciente di come lui e pochissimi altri abbiano in questo momento in mano il potere di trasformare l'idea in forza catalizzatrice per rimettere il ciclismo al centro del discorso. In Italia è complicato, se non impossibile, ci si può provare, ma i risultati sono scarsi: sono ormai più di vent’anni e non sono bastati un paio di ottimi corridori come Nibali e Ganna a rilanciare, il dopo Pantani è questo. Noi Pogačar, dalle nostri parti, lo abbiamo visto - Strade Bianche - lo vedremo fra qualche giorno - Milano-Sanremo - e poi ce lo godremo tutto al Giro d’Italia, dove, imprese come quelle di settimana scorsa alla Strade Bianche saranno gioia e dolore della Corsa Rosa. Rischierà di ammazzarla, ma allo stesso tempo sarà un fattore esaltante, catalizzante, sarà un gesto di spessore vedere il suo atto carnale in sella alla bicicletta. Il suo sorriso, anche, come successo verso Siena, anche perché la sua sofferenza l’abbiamo già percepita al Tour contro Jonas Vingegaard Hansen: avrà pensato come sia meglio prendersi tutto il prendibile da subito, poi al resto ci penserà, ci penseremo. Lui, van der Poel, Evenepoel, van Aert, nessun altro (non ce ne vogliano il pur fortissimo Pedersen, il ritornante Bernal), sono loro che bramiamo vedere correre, sono loro che hanno spinto il ciclismo di nuovo in alto, che ci fanno maledire le dirette che partono alle 14 invece che tre ore prima. Abbiamo pensato: vi sareste immaginati se il gruppo fosse andato un po’ più forte alla Strade Bianche prima di imboccare Sante Marie? Ci saremmo persi l’attacco di Pogačar, per l’anno prossimo bisogna porre rimedio in qualche modo. Tuttavia, Pogačar. Uno che ama e rispetta il ciclismo, che a volte sembra prenderci per i fondelli, che scherza così tanto da sembrarci quasi costruito, ma in realtà lui è questo. Uno che fra qualche giorno, alla Milano-Sanremo, potrebbe pure inventarsi qualche diavoleria atta a negare il canovaccio. Uno come Pogačar. Unico. Come quando prende e parte, se ne va.


Breve guida alla Strade Bianche 2024

Sabato 2 marzo, Strade Bianche, con una modifica al percorso che aumenta ulteriormente il blasone di una gara che in pochi anni - siamo alla diciottesima edizione - si è elevata a rango di grande classica del calendario: appuntamento imperdibile per i tifosi e obiettivo da perseguire per alcuni tra i corridori più forti del momento.

L’albo d’oro, da questo punto di vista, non mente. Nelle ultime edizioni spiccano, nell’ordine, van der Poel, Alaphilippe, van Aert, Pogačar e Pidcock. Di questi, ahinoi, al via non ci saranno i due van che ritroveremo uno alla Sanremo, l’olandese, l’altro un po’ più avanti, il belga, mentre Alaphilippe, nonostante la buona volontà, ci pare da diverso tempo sulla via di un inesorabile declino.

IL PERCORSO

Un cambiamento deciso: intanto facciamo un sentito applauso agli organizzatori che hanno deciso di mettere mano a un percorso già (quasi) perfetto così com’era e ci chiediamo se magari un giorno quella stessa mano, ma ne basterebbe una simile, verrà data anche alla Milano-Sanremo: lo sappiamo, non succederà, ma siamo inguaribili ottimisti.

Si passa da 184 a 215 chilometri, con quindici settori in sterrato rispetto agli undici del 2023; 71,5 i chilometri di strade bianche contro i 63 dello scorso anno. Trentuno in più per una corsa già dura di suo peseranno e non poco, considerando, poi, che lo sterrato sarà, sì, battuto, sia per via della pioggia caduta in questi giorni  - e che dovrebbe dare tregua sabato - e dal passaggio dei tantissimi mezzi che precedono la corsa, ma rischierà in diversi tratti di appesantire e indurire la gara. E poi perché quei chilometri aggiunti non sono casuali tratti in asfalto a inizio gara come si poteva temere. No, perché il passaggio di Colle Pinzuto e Le Tolfe, il più scenografico, variopinto, spesso anche tecnicamente decisivo, raddoppia.

Questo darà la possibilità ai tifosi (che saranno come sempre tantissimi) di vedere i corridori passare due volte e renderà il finale ancora più selettivo, ma chissà, forse rischierà di far diventare Monte Sante Marie, ora situato a quasi ottanta chilometri dall'arrivo, non un tratto meramente caratteristico, ok, perché comunque una selezione naturale avverrà, ma magari non più decisivo, o quasi, ai fini del risultato finale. Vedremo, perché poi funziona sempre come recita la più nota delle frasi fatte legate al ciclismo: la corsa la faranno i corridori e se qualcuno di importante vorrà portare via un gruppo sul tratto dedicato a Cancellara, la possibilità ci sarà. Inutile, per concludere, soffermarci ulteriormente su quello che sarà il finale, arcinoto, piuttosto andiamo a vedere i nomi più interessanti al via.

FAVORITI

⭐⭐⭐⭐⭐

Tadej Pogačar. Qui ha corso quattro volte e una volta ha vinto. Ha deciso di partire da lontano e nessuno gli è stato dietro: era il 2022. Può vincere in qualsiasi modo, anche perché viene da chiedersi, senza l’amico rivale van der Poel, chi può stargli dietro? Ecco, forse l’unico dubbio deriva dal fatto che sarà la sua prima corsa stagionale e non gli è mai capitato di vincere all’esordio. Mettiamo le mani avanti: una sua controprestazione (da leggere come risultato diverso dal primo posto) sarà legata all'alea di uno sport come il ciclismo e in particolare a una corsa con così tante insidie come cadute o problemi meccanici.

⭐⭐⭐⭐

Tom Pidcock. Vincitore uscente, ha mostrato una buona gamba tra Portogallo e Belgio, buona, ma non irresistibile, anche se questa è stata finora la sua caratteristica più spiccata almeno nelle gare su strada. È un corridore che non sembra mai poter fare la differenza eppure è sempre lì, anche quando conta. Guida la bici come pochi, lo scorso anno l’attacco decisivo arrivò in discesa sullo sterrato. Ecco, potrebbe essere una delle debolezze del suo avversario principale: chissà che non possa provare qualcosa di simile giù per le Sante Marie, un attacco magari congeniato con la squadra - avere qualcuno in appoggio più avanti nel lungo tratto tra la discesa delle Sante Marie e il settore successivo, potrebbe essere una buona idea. Anche se, vista la distanza dal traguardo, appare un'azione da tutto o niente: ma lo scorso anno l'azione dalla media distanza pagò e, se si vuole battere lo sloveno, qualcosa bisognerà pur inventarsi.

Sepp Kuss. Perché sugli sterrati va e come, perché la corsa sa premiare anche i pesi leggeri, perché se corresse più spesso le corse di un giorno dure ci farebbe divertire, e quindi ci aspettiamo che ci faccia divertire, perché sarà il capitano della squadra più forte al mondo e quindi non è un caso averlo inserito così in alto. E poi perché preferiamo corridori che si mettono in gioco anno dopo anno allontanandosi da quella che è la propria zona di benessere. Kuss è uno che, quando lo fa, lo fa bene.

⭐⭐⭐

Romain Grégoire. Trenta chilometri in più per il classe 2003 potrebbero non essere banali, ma visto l’impatto avuto in questo primo anno e tre mesi con il professionismo, pensiamo che difficilmente potranno scalfirlo. Profilo perfetto per questa corsa: guida benissimo, sa tenere su salite non troppo lunghe, è veloce, oltretutto pure lui corre in una squadra che sta bene ed è particolarmente agguerrita. Lo scorso anno all’esordio ha chiuso ottavo.

Ben Healy. Ha terminato in crescendo la Volta ao Algarve mandando un segnale per quella che sarà la sua lunga primavera - che chiuderà con il Giro d’Italia. Domani, alla Strade Bianche, Ben Healy sarà uno dei profili da seguire con maggiore attenzione soprattutto lontano dal traguardo. Un suo attacco a lunga gittata non è nemmeno quotato e chi volesse anticipare per poi chiudere con un piazzamento dignitoso è pregato di seguire la maglia del campione irlandese. Oltretutto è uno che non soffre, anzi, le tante ore passate in sella: per lui il podio è alla portata.

Tim Wellens. Nelle prime uscite stagionali, come peraltro accadeva con regolarità in passato, Tim Wellens ha mostrato di avere una gamba tirata a lucido. Eccezionale soprattutto alla Kuurne Brusseles Kuurne dove non ha mai esitato agli allunghi di van Aert. Mai peggio di tredicesimo in Piazza del Campo, e sul podio nel 2017, approfittando della spinta UAE, domani Wellens è uno dei maggiori candidati a un posto tra i primi tre.

Toms Skujiņš. Fino a due anni fa era un ottimo corridore in gare di secondo piano, importantissimo di fianco ai suoi capitani, a volte riusciva a tirare fuori una zampata a livello personale anche nelle corse importanti, con colpi da top ten. Lo scorso anno ha fatto un ulteriore salto di qualità, quest’anno, alla Omloop Het Nieuwsblad, ci ha impressionati: a un certo punto ha staccato van Aert su uno strappetto. Le conclusioni traetele voi.

Matej Mohorič. È vero, non ha un grande feeling con questa corsa, a eccezione del 2023 quando chiuse a ridosso del podio. È vero, non è partito così forte, nonostante abbia già vinto e si sia visto al contrattacco sia alla Omloop Het Nieuwsblad che alla Kuurne Bruxelles Kuurne. L’impressione è che manchi ancora qualcosa per vedere il miglior Mohorič, in generale la migliore Bahrain, ma escluderlo dal novero dei favoriti sarebbe un errore.

⭐⭐

Lenny Martinez: dopo la vittoria al Laigueglia è da tenere d'occhio. L'altimetria non gli fa paura, è migliorato nella guida del mezzo e la giovane età e l'inesperienza ormai non sono più una debolezza nel ciclismo di oggi;
Attila Valter: è il piano B in casa Visma, andato fortissimo già l'anno scorso;
Neilson Powless: come il suo compagno di squadra Healy è uno che più la corsa è dura e lunga e più va forte;
Romain Bardet: qui ha già fatto molto bene e con condizioni di meteo simili e insieme a Kevin Vermaerke forma una coppia di outsider molto interessante;
Michał Kwiatkowski: ha un talento noto innato e un feeling particolare con una corsa già vinta due volte. Magari la sua parabola sarà discendente, ma per un piazzamento nei 10 lui c'è;
Quinn Simmons: qui ha offerto sempre ottime prestazioni. Non lo aiuta il suo essere spesso indecifrabile a livello di risultati e anche la discontinuità nella stessa gara;
Daniel Felipe Martinez: è forse nel miglior momento della carriera e sulle salite brevi non teme nessuno;
Bastien Tronchon: giovanissimo, è uno dei leader di una Decathlon partita fortissimo e lui per caratteristiche ci sembra il più adatto;
Maxim Van Gils: migliora di gara in gara, di anno in anno. Esplosivo, dotato di spunto veloce, resistente su salite da 5, 10 minuti. Cliente molto scomodo per tutti.
Krists Neilands e Dylan Teuns: la coppia della Israel PT è partita forte e mira a un piazzamento nei dieci; ,
Jan Christen e Marc Hirschi: potranno essere sfruttati in diversi modi da quella che sarà a tutti gli effetti la squadra di riferimento in corsa. Entrambi a nozze con questo tipo di percorso hanno dimostrato, recentemente, di stare molto bene.

Filippo Zana, Davide Formolo, Carlos Canal, Magnus Sheffield, Quinten Hermans, Valentin Madouas, Lenny Martinez, Axel Zingle, Alberto Bettiol, Richard Carapaz, Julian Alaphilippe, Simone Velasco, Lennard Kämna, Andrea Vendrame, Paul Lapeira, Lorenzo Rota, Simon Clarke, Andrea Bagioli, Lennart Van Eetvelt, Gianluca Brambilla, Julian Alaphilippe, Davide De Pretto, Jonathan Restrepo, Sergio Higuita, Ben Tulett e Kevin Vauquelin, sono alternative con poche ambizioni da vittoria, ma con buone possibilità di fare una buona gara e ottenere un ottimo piazzamento.

 

 


Residence Les Fleurs, Gressan

Le mani di nonno Stefano e dei suoi amici più stretti, circa settant'anni fa, a Gressan, nella conca di Pila, in Valle d'Aosta, mescolavano la malta e posizionavano mattoni dalle prime luci dell'alba sino a quando la sera allungava le prime ombre nei cortili e la luna brillava tra le montagne. Erano gli inizi degli anni cinquanta, gli anni della ricostruzione: quell'uomo, dopo essersi dedicato all'agricoltura, al commercio del legno ed anche alla siderurgia, senza l'aiuto di alcuna ditta edile, iniziava a costruire il primo albergo della zona, «un alberghetto a gestione familiare», nel periodo in cui il turismo estivo cominciava a svilupparsi in una regione a prevalente vocazione agricola. "Les Fleurs", sarebbe stato il suo nome, come la frazione del paese: dove nonna passava ore ed ore in cucina, per più di quarant'anni, preparando "i suoi piatti" per chi chiedeva ospitalità e una calda pietanza. Il bar, il ristorante, l'albergo e anche i vecchi "alimentari", negozi che oggi non esistono praticamente più, dove, allora, la gente del paese faceva la spesa e chiamava per nome la signora alla cassa: più lontano, i loro vigneti e meleti che li avrebbero accolti nel periodo della pensione, quando a "Les Fleurs" sarebbero giunti dapprima la mamma e lo zio di Tiziano Saltarelli e, ancora dopo, Tiziano stesso e la moglie Nathalie.

Nel frattempo, negli anni sessanta, anche l'inverno diventava stagione di viaggi e la neve, lo sci, cambiavano forma: si vedevano le prime seggiovie ad un posto, i nuovi impianti, le telecabine, fino alle seggiovie, da Aosta a Pila, che facevano sembrare lontanissimo il periodo in cui quei nonni sciavano con mezzi primitivi e risalivano la montagna a piedi, battendo in questo modo la pista. In fondo, quei momenti si possono intuire osservando l'arredamento del Residence Les Fleurs, il cui tema principale è il territorio: ecco gli sci del nonno e dello zio di Tiziano, da un lato, dall'altro lo slittino che adoperava la nonna, oppure quella vecchia e ben curata bicicletta Bianchi degli anni cinquanta: «Noi viviamo qui dalla mattina alle sei fino alla sera a mezzanotte, non voglio pensare a tutte le ore che passo qui perché, se lo facessi, probabilmente, un giorno o l'altro, finirei per darmi del matto, ma, proprio per questo, le pareti di questi locali non potevano che essere riempite dalla nostra vita, dai nostri ricordi». Nathalie, spesso, lo rammenta al marito: gli dice che, non appena lascia il paese di Pont- Saint-Martin, gli si legge la nostalgia sul volto, allora Tiziano si volta, sorride e, rassegnato, esclama: «Per me la montagna è tutto, sono maestro di sci, appena sveglio cerco il Grand Combin, il Monte Bianco, il Cervino: come potrei accettare un altro orizzonte?».

Tiziano Saltarelli conosce bene la lontananza, l'ha vissuta sulla propria pelle: è cresciuto fra queste strade, qui ha studiato, ha iniziato ad andare in bicicletta, poi, quella bicicletta, da ragazzino, l'ha portato altrove. «Capisco perfettamente la metafora del ciclismo, il sacrificio, la distanza, la fatica. Non per sentito dire, non per romanticismo, bensì perché mi è successo. Non so nemmeno perché sono tornato qui, quasi come seguendo un richiamo delle origini, delle radici che che ti restano incise sulla pelle. Ad un certo punto non potevo fare altro: dovevo tornare a Gressan, dovevo continuare quel che aveva intrapreso mio nonno»: era la fine degli anni novanta, "Le Fleurs" era chiuso da qualche tempo e Tiziano non ci pensava nemmeno più, almeno fino a quel giorno, a quella nostalgia, a quell'istinto. Dove prima c'era un albergo, Saltarelli progetta un residence, attraverso una ristrutturazione completa: le camere diventano appartamenti, ma i visitatori trovano la stessa ospitalità, a tutto tondo, degli inizi, il bar ed il ristorante e la storicità di un luogo che era entrato negli anni duemila. Tiziano e Nathalie lavorano, sistemano, si guardano attorno, osservano tutto quel che accade, sono la terza generazione a farlo, e, in anni di esperienza, sono certi che quei locali, quel residence, siano, per molti, qualcosa in più. La loro è una sorta di teoria, un teorema dimostrato grazie a formule fatte di incontri e piccole o grandi condivisioni: «Esiste una sorta di trasformazione che si verifica in luoghi come questo, sarebbe bello studiarla. Basta osservare le persone quando arrivano e quando se ne vanno, tornano a casa: all'inizio c'è freddezza, talvolta spaesamento nel ritmo della vita quotidiana, un poco di cinismo, di aggressività, quella forma di pretesa che si manifesta nelle richieste. Qualche giorno, qualche notte e quello strato di negatività si dissolve, si manifesta una nuova gentilezza, il desiderio di restare qualche minuto a parlare, cercando qualcuno da ascoltare e che possa, a propria volta, ascoltarci».
La società, prosegue Tiziano, è cambiata in maniera netta in questi settant'anni, le persone si sentono sempre più sole, isolate, faticano ad interagire con gli altri e, con il mondo virtuale, spesso questa interazione non è nemmeno più richiesta. Una situazione già complessa, con, sullo sfondo, la frenesia in cui tutti siamo immersi: la vacanza è una via di fuga, dove, giorno dopo giorno, si riscopre la possibilità, forse il dovere, della lentezza, allora i visitatori diventano libri aperti, spalancati: «Più di una volta, di fronte ad alcune confidenze, mi sono chiesto cosa avessi fatto per meritarmele, per essere degno di quella fiducia. La verità è che tutti abbiamo necessità di raccontare cosa facciamo e perché lo facciamo, se non accade, appena si apre un varco, che ci mette a nostro agio, iniziamo a parlare e non vorremmo più fermarci».

Le rose hanno mostrato le spine più di una volta, il bilancio del ritorno resta positivo, per i bei momenti, le situazioni vissute inaspettatamente e anche perché «mi ha lasciato la possibilità di sognare». Dice Tiziano che la sensazione è la medesima di quando si scala il Mont Ventoux o una salita epica, si fatica a stare a ruota e, ogni due per tre, ci si chiede perché lo si stia facendo, se non si poteva stare bene anche evitandosi quello strazio. Mentre si riflette, passano i metri, si arriva in cima e, dall'alto, quasi non si ricordano più le maledizioni lanciate a quell'asfalto, alla neve, alla grandine, al freddo. «Qualche volta ho pensato di acquistare un cartello enorme, il più grande possibile, e scriverci, a caratteri cubitali: "Chiuso per sempre". Giusto per esser certi che tutti lo sapessero, che nessuno venisse a cercarmi chiedendomi di riaprire. Tutti i giorni dubito, ma, alla fine, sono sempre sicuro che sia questo il mestiere che mi completa, che tutto il tempo libero in più non mi farebbe stare bene quanto mi fanno stare bene queste mura, in fondo, sono in un bel punto del cammino, così quel cartello non lo appendo mai». All'interno del Residence Les Fleurs, piuttosto, al mattino presto, soprattutto in estate, progetta tracce da percorrere in bicicletta e le affida ai clienti pedalatori: l'idea è di mostrare sempre nuove strade, luoghi meno conosciuti, ben sapendo che sarà quel destriero che ha nome bicicletta ad accompagnare il viaggiatore chissà dove.
Ecco perché se, quando inforca la bici, gli si chiede dove sia diretto, Tiziano non sa quasi mai cosa rispondere: «Sono nato nel 1973, ho cinquant'anni e la valle d'Aosta mi ha visto crescere eppure, a conti fatti, forse ho sempre conosciuto solo il cinque percento delle strade di casa. Grazie alla bicicletta ho iniziato ad andare nel paese vicino, a perdermi e tornare a casa entusiasta raccontando a mia moglie di un nuovo sentiero e vedendola sorpresa, con gli occhi sgranati a farsi trasportare dal racconto, come se stesse seguendo una traccia. Qualche ciclista torna qui, dopo il giro, e, ancora stanco, sudato, mi si avvicina e: "Ma in che posti meravigliosi mi hai mandato? Dai, preparami un'altra traccia per domani". In quell'attimo, sono la persona più felice del mondo». La bicicletta da corsa è stato il primo regalo che Tiziano ha chiesto ai genitori, per vedere delle biciclette da corsa ed i suoi idoli, Gianni Bugno o Claudio Chiappucci, ha seguito diversi Tour de France, è rimasto ore avvolto nella calura estiva del Tourmalet o della Croix de Fer, dopo aver sognato di incontrarli per così tanto tempo da non poterlo calcolare: sostiene che la bicicletta sia il mezzo migliore per pensare, per rimodulare i pensieri, mettere tutto nella giusta prospettiva, un inno alla giusta velocità, per fare amicizia, «bastano due chilometri o poco meno», e per vedere la fatica in un'altra ottica, per non temerla, come hanno insegnato le biciclette elettriche che hanno avvicinato ai pedali persone che, magari, li avrebbero evitati per timore di quella sofferenza.

L'ospitalità, nel suo vocabolario, è strettamente legata al valore dell'accoglienza, al rendere il luogo in cui si giunge come casa, «poi, non è possibile accontentare tutti, far sentire realmente ogni persona a casa, però è parte della realtà: le persone hanno esigenze differenti, desiderano un'accoglienza diversa e hanno necessità differenti, l'unica cosa possibile è augurarsi che trovino un posto che restituisca le sensazioni di casa». I progetti sono il pane quotidiano di chi fa il mestiere di Tiziano e Nathalie e anche loro ne hanno talmente tanti che «dovremmo chiacchierare minimo per altre sei ore», ma il più significativo, più che un progetto, è un auspicio: «Anche noi, prima o poi, dovremo fermarci, pensarci spaventa ma è inevitabile, nella natura delle cose. Ecco, io voglio sperare che ci sarà qualcuno pronto a continuare questo percorso, con il nostro stesso spirito. Sarebbe davvero un peccato doversi rassegnare all'idea che per "Les Fleurs", in questa società, in questo mercato, non ci sia più spazio, non vorremmo mai doverlo fare. Eppure è cambiato tutto rispetto a quando ero ragazzino io: le nuove generazioni si portano dietro un'indecisione che rende difficile anche a loro stessi scegliere come indirizzare il loro futuro. Ho due figli, tutto potrebbe essere molto naturale, chissà se lo sarà». Alla fine, il verbo più bello per ciò a cui teniamo è sempre "continuare", "proseguire: così anche per il Residence Les Fleurs, a Gressan, nell'omonima frazione, al numero 26.


Bicycle House, Napoli

Passo dopo passo, tra l'Accademia delle belle arti ed il Museo archeologico nazionale, ci inoltriamo in Galleria Principe di Napoli. Siamo nel centro storico della città, in un autentico crocevia di spunti culturali su scala metropolitana, nazionale ed internazionale, mentre all'orizzonte, nascosto dalla maestosità dei palazzi storici, si staglia il golfo e la spuma del mare a tratti invade e a tratti libera la spiaggia, proprio quando la sabbia bagnata è intiepidita da qualche raggio di sole invernale. "Bicycle House" è situata ai numeri 27-28 ed è sufficiente affacciarsi alla vetrina, tra le luci sul bancone e quelle proiettate sul muro, ad illuminare qualche bicicletta appesa, per comprendere appieno il significato di quel nome. Casa della bicicletta, sì, in senso letterale ed in senso figurato: casa ovvero costruzione adibita ad abitazione oppure luogo in cui ospitare ed essere ospitati. «Si tratta di una "casa"-esclama Massimo Minopoli, avvolto nei rumori della città- che vuole essere un punto di riferimento per ogni ciclista, urbano, da strada, mountain biker, per ogni cicloviaggiatore che arrivi a Napoli, come meta del suo viaggio, oppure che vi transiti con la prospettiva di un più ampio girovagare. Questa città, a fronte di tanta bellezza, è in grado di travolgere con la sua caoticità, di lasciare senza parole, quasi scioccato, colui che non sia abituato a viverla quotidianamente e, solo fino a qualche anno fa, pareva impossibile pensare di percorrerla in bicicletta: abbiamo riflettuto in quel periodo sul fatto che, forse, un luogo in cui sentirsi accolti potesse contribuire al cambiamento che doveva, però, necessariamente passare dalle infrastrutture». Il plurale è d'obbligo, perché parla Massimo ma si rivolge a tutti i ragazzi appassionati di biciclette che, da giovani, lavoravano assieme a lui in un'officina popolare e, non avendo gli attrezzi necessari, spesso, utilizzavano solo le mani per smontare e rimontare tutti i ferri. Era lo stesso gruppo di amici che, riunito in un movimento autonomo, organizzava critical mass e poneva l'accento sulla tutela degli utenti della strada più fragili e sui temi della sicurezza stradale, nei giorni in cui in Galleria Principe di Napoli dovevano cambiare molte cose e un progetto ministeriale, "giovani per la valorizzazione dei beni monumentali", stava ridisegnando i contorni di questa galleria dell'ottocento.

«Prima qui c'era una stazione di polizia, successivamente trasferita. All'inizio, ci trovavamo di fronte solo a tutto ciò che era da buttare per costruire un nuovo ambiente, per rinnovarlo e renderlo ospitale. Noi avevamo già in mente quello che sarebbe stato il primo "bike café" del sud Italia: ora bisognava realizzarlo». Quasi attraverso un'esperienza metafisica, mentre Massimo racconta, a noi sembra di abitare l'idea di cui parla, perché a fine 2018 quell'intenzione è diventata realtà. Allora vediamo i due ingressi, separati e comunicanti: da un lato il bike café vero e proprio, con una bicicletta Bianchi storica, quella bicicletta appesa che osservavamo da fuori, altre curiosità da scoprire e un dehors con tavolini per i clienti. Al bancone vengono studiati e serviti drinks e cocktails particolari, adattati agli avventori pedalatori: il Negroni del ciclista, ad esempio. L'altro locale, invece, è destinato all'officina, dove si effettua servizio di vendita, noleggio e assistenza, dal lunedì al sabato: la scelta di prodotti è ampia, maggiormente focalizzata sul ciclista urbano, vista la posizione al centro di Napoli, senza però, escludere accessori per il trekking e per ogni tipologia di ciclista. Ma l'officina non è solo il luogo del lavoro artigianale, in cui si smonta e si ripara: «La nostra è una ciclofficina aperta, ariosa, in tutti i sensi. Vi si svolgono dei corsi per gli utenti, in modo che possano imparare loro stessi ad aggiustare la propria bicicletta: è un calendario di sette incontri, programmati al martedì pomeriggio, in cui chiunque può iniziare a sporcarsi le mani e conoscere un mestiere. Di fatto la bicicletta è una questione culturale, ogni volta in cui si organizzano conferenze, libri, proiezioni ed incontri tematici si sta facendo un passo in avanti. Noi vogliamo provarci». Massimo Minopoli si perde così nel racconto in una serie di altre storie, conosciute negli incontri presso Bicycle House: da Paolo Franceschini, il "comicista", comico e ciclista, nativo di Ferrara, la città più ciclabile d'Italia, che vive a Napoli, al ragazzo che, per far conoscere la città, nei suoi viaggi, ha deciso di portare nello zaino una bottiglia di liquore al babà ed a chiunque gli chieda di descrivere Napoli porge un poco di quel liquore e dal profumo e dal sapore chiede di continuare ad immaginare, fino a chi viaggerà controvento per scoprire le opere d'arte che più gli interessano. Tre esperienze diverse e uguali che legano, allo stesso modo, la bicicletta, all'arte, ad un liquore e alla scrittura.

Anche la città, nel frattempo, è cambiata, è migliorata, sono aumentate le ZTL, la realizzazione di piste ciclabili è incrementata e, grazie ad una nuova concezione della mobilità, non sembra più impossibile pensare di utilizzare la bicicletta per andare a fare la spesa, a scuola ed al lavoro: «Napoli dovrebbe assomigliare sempre più ad Amsterdam, a Londra. Ci sono cartelli che segnalano la necessità di proteggere l'utente più fragile, che indicano i limiti di velocità; sono utili ma non bastano. Servono i fatti. A Bologna è successo qualcosa di davvero importante con l'introduzione della "città 30", sogno che avvenga anche qui. L'associazione "Napoli Pedala" si batte anche per questo, come la nostra vicinanza alle istanze della Fondazione Michele Scarponi». Sì, perché qualcuno che ha paura ad uscire in bicicletta c'è ancora ed è comprensibile, ma non è giusto, soprattutto nel 2024. Ad ogni visitatore Massimo e gli addetti del locale provano a fornire qualche semplice regola, istruzione, per sentirsi più tranquillo: come muoversi in strada, l'utilizzo della carreggiata, la possibilità di fare le prime uscite in bicicletta insieme a qualcuno maggiormente esperto per prendere confidenza, la necessità di indossare il casco, di rendersi il più visibili possibile sulla strada, l'opportunità di scegliere strade meno trafficate, anche se chilometricamente più lunghe, tra le altre cose. Gli aperitivi del giovedì, su questi temi, riuniscono persone delle più svariate provenienze e dai più svariati lavori: dal dottore di Capri, al ciclo-fattorino, passando per il ricercatore del CNR. Girare per Napoli in bicicletta significa anche andare a scovare nuovi angoli o avere la possibilità di vedere in maniera differente luoghi già ben conosciuti: è nata così Napoli Obliqua, con lo scopo di accompagnare alla scoperta di posti meno conosciuti o più difficili da visitare. Pensiamo, per citarne uno, al quartiere residenziale di Capodimonte, situato su una collina e noto per l'omonimo Museo che ospita arazzi, porcellane, ma anche opere pregevoli di Tiziano e Caravaggio.

Ciascuno, poi, ha un proprio stile e un proprio modo di interpretare lo spostamento in bicicletta: «Bisogna dirlo: prima di consigliare una bicicletta è indispensabile sapere che progetti ha colui che la comprerà. Ovvio è che, ad esigenze differenti, corrispondono modelli e necessità diverse. Le domande, tuttavia, spesso possono essere invasive, chiedere non è mai facile, allora si cerca di capire guardando, ascoltando, senza esagerare con le richieste. Una comprensione silenziosa, basata sull'osservazione. Spesso la bici identifica la persona, il suo carattere, la sua indole». Massimo smette qualche istante di parlare, guarda meglio: un cliente è appena arrivato in negozio, chiama un collaboratore, chiedendo di offrirgli assistenza, poi riprende concedendosi un ghigno in segno di entusiasmo per quel che sta per dire. «A me piace davvero ogni elemento della bicicletta, ogni pezzo, ogni ingranaggio. Mi innamoro di ogni bici come accade in adolescenza. Credo che un bambino vada messo il prima possibile su una balance bike. Ogni tanto prendo un catalogo e mi metto a sfogliarlo: perdo la cognizione del tempo, devono venire a cercarmi». La scelta delle biciclette in negozio segue una triplice direttiva: la qualità, l'affidabilità e la garanzia. Minopoli si concede una parentesi sull'uso di acquistare biciclette in negozi non specializzati che, quindi, per forza di cose, peccano nella conoscenza e nell'attenzione a determinati dettagli, talvolta anche grossolani: «Il mezzo è semplice ma ha una meccanica sofisticata che spesso non viene compresa dagli utenti. Sai il motivo? Perché il cliente si basa, di solito, sul tempo della riparazione effettuata da un professionista, allora pare tutto facile e anche il lavoro tende a perdere il suo vero valore economico. Il punto è che chi svolge questo lavoro ha studiato, si è preparato, non sono cose che può fare chiunque. Quella professionalità è da rispettare e da riconoscere».


Il tutto in un mercato delle bici che è cambiato, con l'evoluzione della tecnologia, dell'elettronica e, soprattutto, delle bici elettriche che hanno ampliato la platea dei pedalatori, in quanto anche coloro che inizialmente temevano la fatica o pensavano di non essere all'altezza hanno voluto provare e si sono sentiti a proprio agio. Le "porte da aprire", come le definisce Massimo, ovvero le innovazioni possibili, sono ancora molte e chi fa questo mestiere non vede l'ora di spalancarle.
Il cliente entrato pochi minuti prima si ferma davanti all'officina ad osservare il lavoro dei meccanici, Massimo Minopoli spiega che, ove possibile, si cerca di coinvolgere il cliente anche nella riparazione, poi la butta sul ridere, citando un cartello, visto qualche tempo fa, che recitava: «Cinquanta euro per la riparazione, cento euro per osservare, centocinquanta euro per suggerire al meccanico come operare». Un'ultima occhiata al dehors, ai tavolini all'esterno, alle persone che camminano in Galleria Principe di Napoli: il pensiero va proprio ad un buon caffè napoletano. La sensazione è di essere nel posto giusto, Minopoli ce la conferma, non prima di chiederci se sappiamo come debba essere un buon caffè. Tentenniamo, allora ci svela la regola delle cinque c: «Comm' Caspita Coce Chistu Cafè». La impariamo, prendiamo la tazzina ed iniziamo a sorseggiare.


Il questionario cicloproustiano di Greta Marturano

Il tratto principale del tuo carattere?
Timidezza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità e fedeltà.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità.

Il tuo peggior difetto?
A volte permalosa.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare oppure seguire qualche serie televisiva o film su Netflix.

Cosa sogni per la tua felicità?
Avere con me le persone più care e fare quello che più mi piace.

Cosa vorresti essere?
Sempre me stessa.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Sono un poco patriottica, forse, ma l'Italia va bene.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Tartaruga.

Il tuo corridore preferito?
Van der Poel.

Un eroe nella tua vita reale?
Papà e mamma sempre visti come i miei eroi fin da quando ero piccola.

Cosa detesti?
Le bugie e le persone false.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Ci sono tante imprese che mi sono rimaste impresse ed è forse per questo che mi sono sempre più appassionata al ciclismo.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Non ci si ritira mai, in nessuna gara.

Un dono che vorresti avere?
Serenità.

Come ti senti attualmente?
Bene e serena.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Quando arrivi al limite, superalo”.


Il questionario cicloproustiano di Omar Di Felice

Il tratto principale del tuo carattere?
Riservatezza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La discrezione e l’onestà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La discrezione e la dolcezza.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La capacità di rispettare gli spazi e la diversità che ci caratterizza.

Il tuo peggior difetto?
La testardaggine.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere.

Cosa sogni per la tua felicità?
Un mondo con più gentilezza.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Non poter pedalare.

Cosa vorresti essere?
Sono felice di ciò che sono.

In che paese/nazione vorresti vivere?
In un’Italia con maggior cura per il prossimo, meritocrazia e rispetto per i deboli (anche , e soprattutto, in strada).

Il tuo colore preferito?
Giallo.

Il tuo animale preferito?
I rapaci notturni in generale.

Il tuo scrittore preferito?
Ne ho diversi: Walter Isaacson per le biografie, Murakami per i suoi romanzi, Bonatti e Moro per i loro racconti dalle spedizioni incredibili che hanno affrontato.

Il tuo film preferito?
Notting Hill (si è una commedia, lo so!).

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sigur Ros.

Il tuo corridore preferito?
Lo è stato Marco Pantani, poi ho conservato stima e ammirazione per molti campioni.

Un eroe nella tua vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.

Una tua eroina nella vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.

Il tuo nome preferito?
Marco

Cosa detesti?
L’invidia e l’odio.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Mussolini.

L’impresa storica che ammiri di più?
La liberazione dal nazi-fascismo.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Pantani a Guzet de Neige (dire Les Deux Alpes sarebbe stato troppo scontato).

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Scegliere di ritirarsi non è mai semplice.

Un dono che vorresti avere?
Maggior capacità di fregarmene.

Come ti senti attualmente?
In pace.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Se pensi è la fine, se pedali arrivi”.


Ditta Artigianale, Firenze

Il caffè è pronto, in tazzina. «Calma, avvicinati lentamente e annusa l'anima della bevanda, prima di mettere la bustina di zucchero: cogli le note floreali e quelle di nocciola. Il tuo viaggio sarà suddiviso in tre sorsi. Il primo ti restituirà un'esplosione di gusto e acidità, durante il secondo, invece, avrai la possibilità di cogliere le note dolci, potrebbero essere di cioccolato, di nocciola, talvolta di frutta tropicale. Sarà, però, solo il terzo sorso a restituirti ciò che il tuo palato tratterrà: un sapore di mandorla, di nocciola, oppure di frutta, di mandarino, di ananas, di lime, di arancia». Siamo a Firenze, in Ditta Artigianale, ed a parlare è l'ideatore di questa realtà, Francesco Sanapo. Il suo linguaggio è quello di uno studioso, ma l'esperienza in cui affonda le radici tutto questo è originale, primigenia: il caffè che sua madre gli preparava ogni mattina, prima di svegliarlo per andare a scuola o all'Università. Solo qualche settimana fa, Francesco era in Colombia: più di quaranta ore di viaggi in macchina, almeno dieci aerei interni, da una parte all'altra del paese, su e giù, per conoscere, per capire come il gusto del caffè, in continuo cambiamento negli anni, continuerà a modificarsi, per scoprire nuove varietà, stare in contatto diretto con i produttori locali, visitare le loro piantagioni, scoprire eccellenze e tornare in Italia con dei piccoli quantitativi, trenta grammi, di quello che, probabilmente, sarà il caffè nel futuro. Così il caffè, l'abitudine di casa, quella parola molto simile in quasi tutte le lingue del mondo, con solo qualche venatura differente, l'ha portato lontano, dove non sarebbe potuto arrivare nemmeno con i più bei sogni, ma dove, in fondo, i desideri erano sempre andati. Ad un'altra velocità.


Scintille accese dallo studio, dai libri e Francesco Sanapo è certo che non vi siano molti altri modi per accendere "fuochi" che resistano alle avversità: siano essi sotto forma di passione o assumano qualunque altro aspetto o profilo. «Solo lo studio porta davvero a conoscere e per dedicarsi a qualcosa, anima e corpo, è necessario sapere, altrimenti non si può costruire nulla di duraturo. Lo studio fa "detonare", permette alle fiammelle che ci sfiorano di sorreggersi, altrimenti sono fuochi fatui, destinati ad estinguersi. Tutti i viaggi li ho affrontati così, guidato dalla curiosità, delle nuove varietà, dei processi di fermentazione, della tostatura e, appena conoscevo qualcosa, non vedevo l'ora di condividerlo». Così Ditta Artigianale è costruita anche grazie alle letture e alla conoscenza, non solo grazie ai sogni ed alle passioni. Nemmeno il nome è casuale: ad oggi, quasi nessuno usa più la parola ditta, tutti parlano di "aziende" o "attività", quello era, invece, un termine riferito alle piccole realtà di anni fa, ad un mondo artigianale. Ai periodi in cui le persone tostavano il caffè nei garages, con macchine costruite su misura, poi, l'industria ha un poco cancellato il valore dell'artigianalità: «Il nostro logo riporta ai colori degli anni settanta, noi ci siamo aggrappati a quei significati e abbiamo provato a rivederli in chiave moderna». Anche Sanapo ha iniziato lavorando per varie torrefazioni e, già all'epoca, viaggiava e scopriva diverse tipologie di caffè ma, per un motivo o per l'altro, non riusciva mai a importarle: si dispiaceva, si rammaricava. Intanto vinceva per tre anni il titolo nazionale di miglior barista, di assaggiatore di caffè e partecipava alla finale del Campionato Mondiale dei baristi, un traguardo mai raggiunto prima. «Mentre ero lì, con la coppa in mano, pronto per alzarla, decisi. "Al ritorno, rassegno le dimissioni da tutti i miei incarichi e creo un'attività tutta mia": era il 2013, acquistai la prima tostatrice, di otto chili e mi misi a tostare il caffè». Fare impresa è difficile, Francesco lo ribadisce, eppure la sequenza di fatti da quel momento in avanti è una progressione continua: il primo store, la caffetteria, per vendere il proprio caffè, quello preparato artigianalmente, ed ancora un secondo, un terzo, un quarto, fino al quinto store, di recente apertura.

«Vorremmo raccontare il caffè in tutto e per tutto e ravvivare l'antico legame che c'è tra caffè ed ospitalità, magari l'ospitalità fiorentina, in un luogo bello, da vedere e da vivere. Dico spesso che, negli anni, i bar sembrano aver perso l'anima, quasi fosse stata sfregiata da tante cose che hanno rovinato l'atmosfera e la personalità dei locali. Serve la musica giusta da ascoltare, persino la sedia giusta su cui sedere». Una personalità fatta di tante piccolezze, non a caso Francesco Sanapo spiega di aver introdotto la pasticceria in Ditta Artigianale dopo aver ricercato per anni il gusto del croissant che avrebbe voluto abbinare ai suoi caffè e non averlo mai trovato e sottolinea con orgoglio di non cercare esperti fra coloro che entrano dalla sua porta, ma, semplicemente, persone che abbiano voglia di un buon caffè, bevuto con consapevolezza. Accanto al legame del caffè con l'ospitalità c'è quello con la bicicletta: «Entrambi hanno la capacità di smascherare, di far cadere le maschere, di unire, di far incontrare. Le persone escono di casa per un giro in bicicletta, come escono di casa per un caffè: entrambe sono ottime scuse, per un viaggio nel paese vicino, dall'amico, dai genitori. Nei bar ci si ritrova per l'una o per l'altro, per entrambi capita di sedersi allo stesso tavolino». L'Italian Coffee Tour, organizzato da Francesco, prende spunto proprio da queste caratteristiche in comune: ci si ferma anche nei più piccoli borghi, nei paesini, si incontrano i sindaci ed i giornalisti, si parla e si fa parlare di caffè, magari si racconta anche l'aneddoto di quel coltivatore conosciuto in Honduras e della sua piantagione, del suo modo di lavorare. Ma la bicicletta, in realtà, è esperienza quotidiana e la Toscana offre paesaggi vari in cui spaziare: «Il mio giro classico è di circa cinquanta chilometri, attraversando le colline intorno a Firenze, tra Pontassieve e Fiesole, dove passeranno due macchine ogni ora, dove è possibile pedalare in meditazione, interrotti solamente da quella salita che scali da quando eri adolescente e che ogni volta maledici perché è dura, anzi, sempre più dura».

L'originalità è la chiave dello sviluppo di Ditta Artigianale: ogni store è differente, come è diverso ogni progetto, l'attenzione maggiore è alla comprensione del luogo in cui ci si trova e al modo per valorizzare quel palazzo o quella via. Forse la storia più affascinante a questo proposito riguarda il vecchio monastero che si trovava tra via Carducci e piazza Sant'Ambrogio: una costruzione iniziata nel 1300, proseguita nel 1800 e terminata nel 1900, dove c'erano suore e monaci, abbandonata, però, da circa cent'anni e fatiscente fino a che non è iniziato il recupero per restituirle una nuova luce. Una porzione è stata sottratta al commercio a favore dell'istituzione di un corso di formazione per i ragazzi che lavoreranno in Ditta Artigianale, ma anche per i consumatori. Formarsi su quel caffè che abbiamo in tazzina, delicata armonia, tra acidità, dolcezza, amaro e corposità, bevanda cantata anche dai cantautori, da Bob Marley fino a Francesco De Gregori, forse mai completamente conosciuta, se non superficialmente, certamente cambiata moltissimo anche solo negli ultimi quindici anni. I motivi sono vari, in primis, i figli di quei contadini che anni fa coltivavano il proprio terreno si sono specializzati, utilizzano nuove tecnologie, quindi la produzione si è modificata, ma non solo.

«Il caffè è l'esatto risultato di due componenti: l'aspetto umano, di cui abbiamo detto, e "madre natura", ovvero l'ambiente in cui è stato coltivato, l'altitudine. In Etiopia, la deforestazione ha raso al suolo interi pezzi di montagna, intere coltivazioni di bambù, altrove, nei paesi latino americani, la "roya" stermina le piantagioni, fa seccare le piante. Certo, è romantico parlare di una sorta di ricetta del caffè rimasta immutata negli anni, ma non è così, non può esserlo». Altro discorso rilevante è quello legato alla sostenibilità, al fatto che spesso chi lavora nei bar, nel nostro paese, è sottopagato, che in Italia un caffè arriva a costare al massimo un euro e cinquanta, mentre all'estero ci si trova molte volte sopra i due euro e cinquanta: una questione su cui bisognerebbe interrogarsi. Non molto tempo fa, Francesco Sanapo ha letto un articolo in cui si parlava della bassissima qualità del caffè italiano: «Potrei dire che quel pezzo abbia creato stupore, in realtà, non c'è da stupirsi: abbiamo iniziato a scegliere materie prime di non altissima qualità e tutto questo si ripercuote, per forza di cose, sulla qualità del caffè, con conseguenti strategie di mercato errate». La voce è alta, decisa, come ad indicare una via da seguire: «La mia idea è quella di riportare il caffè, la mia prima passione, al suo splendore, ai suoi periodi più belli, al sapore dell'artigianalità, della semplicità ma allo stesso tempo della competenza e della professionalità».

Siamo a Firenze e da Firenze, in estate, a giugno, per la precisione il 29 giugno, partirà il Tour de France 2024: un'occasione che cambierà la città, la riempirà di voci, colori e festa, della grande carovana della Grande Boucle, di ciclisti, professionisti o semplici appassionati. Non cambia molto, in fondo, ed il caffè resta elemento presente: ci sono macchinette anche sui bus dei professionisti, è un rito anche per loro, un momento di relax e di attesa. «Non vediamo l'ora di quei giorni, li aspettiamo da quando sono stati annunciati, ci pensiamo, fantastichiamo su quello che accadrà in città. Mi piacerebbe poter trasmettere l'idea di un luogo che non vede l'ora di accogliere, ciclisti e non, di prendere una tazzina di caffè e gustarla, in tre sorsi, dopo aver annusato il profumo che evapora, davanti a loro». Alla fine, basta davvero solo varcare la soglia di Ditta Artigianale e tutto questo accadrà, senza dubbi.


Cycle Café, Cuorgnè

I lidi ferraresi non erano cambiati in quell'estate del 2016. Le valli e le saline erano luogo di esplorazione ed escursione, talvolta l'ideale per il birdwatching, la vista, poi, cercava le pinete e le distese verdeggianti, lì vicino si sentivano i suoni ed i rumori di animali in libertà. Si poteva salire a cavallo, sugli splendidi ed agili cavalli del Delta, esemplari coraggiosi, abituati a resistere alle caratteristiche ostiche della zona, e proseguire al galoppo o al trotto, sotto il sole cocente, riprendendo fiato all'ombra di qualche albero. Addentrandosi nei paesi, tra canali e ponti, magari sul filo dell'acqua, attraverso un'imbarcazione tipica della zona, la "batana". A pochi chilometri, Ravenna, Bologna, Ferrara, Venezia, le loro strade di città, i musei ed il pullulare di voci e vita di una vacanza. Sì, era tutto uguale, anche l'afa ed il caldo di una nuova stagione, eppure Simone Magnino non era lo stesso. Era ormai da qualche giorno in quelle zone, ma non parlava, era sempre assorto, talvolta studiava, altre rifletteva, sembrava altrove, chiuso nella propria persona. In qualche pomeriggio in spiaggia, sua moglie gli aveva chiesto cosa stesse succedendo, se ci fosse qualcosa a preoccuparlo, ad inquietarlo: le risposte erano state evasive, fino a che, un giorno, appena arrivati allo stabilimento balneare, aveva iniziato a parlare e a raccontare tutte le idee che aveva riordinato in quei momenti di solitudine apparente. «Perché non apriamo un'attività per nostro conto? Ho in mente un bar, un piccolo bar caratteristico, che abbini il gusto del caffè ed il vento in faccia della bicicletta. Potremmo chiamarlo Cycle Café, anzi lo chiameremo proprio così, è il nome giusto». Lasciamoli lì e torniamo indietro a tutto quello che era successo prima di quella giornata.

Simone Magnino ricorda bene come, sin da ragazzo, sia sempre stato affascinato dalla figura del barista. Anche nelle serate, nelle nottate, in discoteca, lui restava a guardare la manualità, l'abilità di chi serviva i drink e pensava che "da grande", come si dice quando si è ragazzini, avrebbe voluto imparare quel mestiere, assomigliare, almeno in parte, a quella figura professionale. Ne aveva parlato con un amico, si era iscritto all'Istituto Alberghiero e aveva imparato i segreti del lavoro che, fino a quel momento, conosceva solo dall'esterno. Poi aveva iniziato la sua carriera lavorativa: nei locali notturni, nelle discoteche. «Di ogni giorno l'alba», potremmo dire così, e Simone era diventato il suo sogno: l'immaginazione e la realtà, ora, corrispondevano. L'arrivo della famiglia, la voglia di trascorrere la notte a casa, con la moglie e la figlia, che, oggi, ha dodici anni, il lavoro diventa diurno, in altri bar. Giorni, mesi, anni e qualcosa che si rompe proprio prima delle vacanze estive del 2016. L'esigenza di avere più spazio, di dare sfogo alle proprie idee, di interpretare in modo differente quella professione aveva iniziato "a bussare" e Magnino sentiva di dover "aprire la porta", per restare nella metafora, a quei pensieri.

Si torna ai lidi ferraresi: «Mia moglie restò qualche minuto a guardarmi, sapevo che mi capiva, ma siamo differenti a livello caratteriale e lei cercò subito di smorzare quell'entusiasmo, quella che pareva una boutade. Mi fece riflettere sul significato di ripartire da capo, sugli investimenti, sui debiti a cui saremmo andati incontro, nuovo stress, nuove preoccupazioni. Chi ce lo faceva fare? Non lo so. Sta di fatto che, appena tornammo dalle ferie, iniziai a girare per tutta la città, Cuorgnè, dove sono nato, è vero, ma dove non avevo mai lavorato, alla ricerca di un locale da trasformare nel Cycle Café». Lo trovò a inizio 2017: era un bar chiuso da tempo, anzi, chiuso più volte, con gestioni spesso sfortunate ed in particolare con un'ultima gestione che non godeva di buona nomina fra le persone del posto che, proprio per questo, dopo averlo sconsigliato rispetto a questa nuova avventura, a maggior ragione gli spiegavano che, partendo da lì, l'insuccesso sarebbe stato quasi sicuro.

«Il posto lo fanno le persone. Chi arriva a bere un caffè e chi lo gestisce. Ne avevo la certezza ed ho fatto di testa mai. Se fossi entrato qui in quel periodo, avresti avuto la sensazione di una rivoluzione imminente. Cambiai tutto, in una trasformazione radicale». Per molto tempo i vetri del locale si oscurano, mentre i lavori di ristrutturazione sono in corso. Simone Magnino ha attaccato alle vetrate vecchi fogli di giornali sportivi e soprattutto di riviste di ciclismo, già lette ed ancora custodite. Una sorta di prima traccia, di primo indizio su quello che si sta formando lì dentro. Tutt'oggi il locale è su misura, un abito perfetto per lui e per la moglie: vecchie biciclette, messe a nuovo, sono appese al soffitto, persino le luci ed i lampadari sono formati da ingranaggi o parti di biciclette. L'orologio è, in verità, formato da un cerchione di bicicletta ed anche il portabiciclette, all'esterno, è particolare: sembra quasi che, dove si appoggia il manubrio, inizi il bancone del bar. Il pannello che riporta la scritta "Cycle Café" reca anche qualche autografo di ciclisti passati da quelle parti, su tutti leggiamo il nome di Egan Bernal. Qualunque cosa, in un modo o nell'altro, riporta alla bicicletta, mentre il negozio si completa sempre più e, dalla caffetteria iniziale, cerca di introdurre nuovi servizi: esempio ne sono gli appendini con capi personalizzati, i marchi di abbigliamento da mtb, il noleggio di e-bike e un'altra idea che ronza nella testa di Simone Magnino da qualche settimana, mentre la moglie, scherzosamente, lo avverte di non cacciarsi in nuovi problemi, che non è il momento.

«Sai qual è il punto? Qui ci sarebbe tutto lo spazio per un'officina, ma è difficile trovare un meccanico che possa aiutarci. Se, però, domani mattina arrivasse un ragazzo competente e volesse lavorare qui, gli chiederei di iniziare subito. Noi siamo un punto di passaggio, per chi va al Nivolet, a Pian del Lupo, per chi arriva dall'altra parte dell'Europa o dal paese accanto, e molte volte qualcuno, vedendo il locale a tema bici, si ferma e ci chiede se le aggiustiamo anche: talvolta il problema è semplice, registrare un cambio, sostituire una camera d'aria, e posso aiutarli io, grazie agli insegnamenti di un amico, ma vorrei ci fosse un professionista. Vorrei non dover dire più quella frase: "Mi spiace, non posso aiutarti". Sì, qui starebbe bene un'officina». Forse, la prima volta in cui Magnino ci ha pensato era un giorno di pioggia battente, invernale, in cui un gruppo di ciclisti, nel corso di una gara, sfilava infreddolito da quella strada, verso Como, per concludere il tragitto nel tempo limite di una settimana: allora, a sera, Simone si sedeva al tavolo e controllava, sul cellulare, l'applicazione con i passaggi e, se un partecipante era nei paraggi del bar lo aspettava, magari gli lasciava un sacchetto con qualcosa da mangiare e da bere. A costo di cambiare orario di chiusura, di tornare più tardi a casa. Qualche mese fa, il giorno di Natale, fra i regali, una foto della bicicletta gravel che ha donato alla moglie e, soprattutto, la certezza che, ora, Cycle Café è davvero loro, l'hanno comprato, ci sono riusciti. Passando di lì, a Cuorgnè, in via Ivrea 111, si vede spesso un televisore che trasmette immagini di gare ciclistiche, d'estate la voce arriva anche fuori e sembra di essere in un altro tempo, quello in cui tutti si trovavano al bar a vedere le corse: «Anche una signora di più di settant'anni è restata meravigliata da alcuni paesaggi, quelli della Coppa del Mondo in Val di Sole, sulla neve, e ci ha chiesto se anche in Italia succedono queste cose. Altre volte, qualcuno ci chiede perché chi arriva in fondo al plotone è contento o viene festeggiato dai compagni. A noi piace spiegarlo, perché pure il ciclismo è una questione di cultura. Dovremmo farlo vedere più spesso, regalare libri e riviste di ciclismo, sfogliarle assieme, condividere un giro in bici con la famiglia, con un figlio o con i più giovani».

Quelle pedalate che a Simone, a tratti, mancano: sì, la domenica esce ancora e, quando torna, sta meglio, non a caso sostiene che la bicicletta abbia effetti benefici sia sul corpo che sulla mente, ma spesso il pensiero è rivolto al timore di cadere, di farsi male e, con il nuovo lavoro, non esistono giorni di malattia. Eppure, nonostante questo, nonostante il periodo della pandemia, arrivato solo tre anni dopo l'apertura del locale, Magnino non si è mai pentito di quella scelta, in spiaggia, ai lidi ferraresi: «Mi sono tolto la soddisfazione di partecipare alla Maratona delle Dolomiti, di concluderla e, dico di più, al ritorno, giusto una notte a casa, un passaggio dal bar, a controllare che tutto fosse apposto, per, poi, raggiungere mia moglie mia figlia a Sanremo, al mare. Quasi fossi un professionista che viene dall'altura: gli ultimi ottanta chilometri sono stati un incubo, in una calura soffocante. Mi ha salvato una Coca Cola gelata, acquistata ad una macchinetta, da un benzinaio, e un pacchetto di Haribo, mandate giù "a manate", nel corso di un calo di zuccheri. Sono partito poco dopo le cinque e mezza del mattino, sono arrivato alle diciotto: ero stanco, ma contento».

Qualche settimana fa, ad una fiera, a Rimini, Simone Magnino ha visto delle biciclette su cui erano installate, in un caso, delle carapine per il gelato, nell'altro, tutto il necessario per fare il caffè: «Non serve dire che sono partito in quarta, ho chiesto tutte le informazioni possibili e, ogni tanto, lo ricordo a mia moglie che, come qualche anno fa, mi chiede di non mettermi in testa altre stranezze, talvolta si arrabbia pure per la mia insistenza ma io non riesco ad essere che così. Mi sto immaginando spesso la bellezza del salire con una bicicletta simile sul Nivolet o a Pian del Lupo e stare lì: otto carapine di gelato o un caffè. Sono posti meravigliosi, in cui, però, mancano alcuni servizi. Potremmo portare noi qualcosa. Resta solo da convincere mia moglie». Simone Magnino sorride, è convinto che, con il suo entusiasmo, accadrà presto. Ne siamo convinti anche noi, mentre lassù, al Nivolet, la sera porta un freddo pungente, che fa da contrasto al gelato che, in estate, rinfrescherà le idee di molti. Ed è dalle idee fresche, di mare o di montagna, che si può ricominciare. Cycle Café, nel torinese, ne è la prova.