Il momento più bello

Forse il momento più bello ieri Filippo Baroncini lo ha regalato nell'intervista alla fine della tappa vinta, in un franco-romagnolo disinvolto, a tratti neorealista: "Nu speron de portè an italì la maion gion".
Invece, parlando sul serio: Baroncini ha fatto un numero d'alta scuola nella seconda semitappa dell'Étoile d'Or, in Francia, terza prova della Coppa delle Nazioni, categoria Under 23.
È partito a poco più di 10 km dall'arrivo, il ragazzo della Colpack classe 2000, che per l'occorrenza sta vestendo la maglia azzurra. Azione devastante, accelerazione fulminea con la quale si è scrollato di ruota tutti gli avversari. In un momento di esaltazione di diversi talenti internazionali, oggi fateci celebrare un talento italiano.
Sta coronando un periodo sopra le righe, Baroncini: tappa a cronometro al Giro Under 23, campionato italiano a cronometro, e ora vittoria di spessore in Francia battendo rivali di un certo lignaggio. In mezzo a questi successi, il contratto firmato con la Trek-Segafredo per il 2022 e l'amarezza per il quarto posto nell'ultima tappa del Giro - se qualcuno si aggirava nei pressi dell'arrivo, quel giorno, forse se si concentra può ancora sentire le sue imprecazioni.
Emerso definitivamente sul finire del 2020, Baroncini è un corridore versatile, longilineo e dallo stile impeccabile in sella. Forte a cronometro, veloce negli sprint ristretti, capace in questo momento di gamba superba di staccare di ruota i suoi avversari sugli strappi brevi. Ora, se Amadori lo convocherà (altrimenti il ritornello sarà: "Amadori: convocaci Baroncini" ) per i prossimi appuntamenti con la nazionale - Avenir, Europeo e Mondiale - il quasi ventunenne ha l'occasione di continuare a farci divertire, in corsa e, con la sua spontanea spavalderia, anche nel dopo corsa.


Qualcosa di speciale

Parigi? Van Aert. Vincere qui è come una classica, anzi una classicissima. Vederlo davanti così: uno spettacolo, qualcosa di speciale. Dopo aver vinto la tappa del Ventoux e la crono in mezzo alle vigne, la volata: pare si debba risalire a nomi tipo Merckx o Hinault per trovare qualcosa di simile. Roba da ubriacarsi.

Peccato non ci fosse la bolgia, nemmeno una bolgetta. A tratti pareva “28 giorni dopo” ambientato a Parigi a parte una timida avvisaglia di curva da stadio. Il gruppo? Quello c'era: una macchia colorata che brucia gli occhi, apparsi festosi, stanchi, vogliosi come dopo una sbornia.

È l'ultimo giorno di scuola e c'è sempre qualcosa di speciale da ricordare. È stato un anno - un Tour - faticoso. Da correre, da sopportare, da raccontare. Intorno si è cercato di incutere sospetti e infilarli ovunque, in corsa si è cercato in ogni modo di rendere tutto un po' speciale. Vincitori seriali, a volte casuali, fuoriclasse, dominatori. Oggi van Aert, uno che ha qualcosa di speciale, lo ribadiamo: uno spettacolo.

Il van Aert segnale è partito sui Campi Elisi: forza fatta a uomo-bici su ogni terreno. Montagna, pianura, i più attenti lo avranno visto comandare spesso anche in discesa, a cronometro. Volata, come oggi, a Parigi, dove ci si consacra. Classe pura, potenza. Watt, persino decibel. Van Aert: qualcosa di speciale. Con quella tendenza a farci godere.


Alfabeto Nova Eroica

A come Arrigo VII

Buonconvento è un bel posto per venirci a pedalare. Sterrati, salite, discese, borghi e pievi e castelli. Lo sanno tutti da quando l’Eroica ne ha fatto uno dei capisaldi del “Rinascimento ciclistico”. Un po’ meno per venirci a morire, tanto più se, come pare, avvelenato. Capitò nel 1313 all’imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, nel quale Dante, nell’eterna contesa temporale tra papato e impero, e nelle intestine lotte tra guelfi e ghibellini, riponeva le sue speranze di riscatto politico, sbagliando però clamorosamente “cavallo”. Pare che fosse stato avvelenato da un frate, durante la comunione. Si era in piena estate
(24 agosto) e non c’era verso di rimpatriare il cadavere imperiale in Germania. Si fece ricorso a un’usanza germanica: bollire il corpo del morto per separarne le ossa dal resto delle parti molli. Le ossa vennero trasportare insieme alle insegne imperiali, lo scettro e il globo, nel Duomo di Pisa, dove lo scultore Tino da Camaino eresse un monumento funebre al sovrano. Che da questo fatto derivi il nome della celebre ribollita, noto piatto dei mitici ristori eroici?

B come Berruti, Luciano

Perché son quattro anni che non c’è più ma è come se non fosse mai andato via. Sempre qui. Non c’è quasi bisogno di ricordarlo. E se ce ne fosse bisogno basterebbe incrociare gli occhi di Jacek, suo figlio, e quello che dice e che fa con la schiettezza ereditata da un padre che era anche “il suo migliore amico”. Luciano, numero uno per sempre.

C come Crine del Carube

Biondo era bello e di gentile aspetto. Oddio, proprio gentile magari no… Però biondo e bello Roberto Lencioni, detto Carube, s’è palesato iersera all’ombra delle mura trecentesche di Buonconvento “a miracol mostrare”. A colpire l’attenzione degli affezionati che lo hanno accolto, erano i boccoli dorati che sfuggivano alla sorveglianza d’un vezzoso cerchietto. “Oh Carube!” stupirono gli amici. “Tranquilli” disse il Gran connestabile del Re Leone “non vedo il barbiere da mesi”. Per poi aggiungere bellicosi propositi che si tacciono per prudenza e decenza.

F come Franchetti

Franco Rossi, detto Franchetti, è il motore organizzativo della gran macchina di Eroica. È la corrente alternata del generatore. Il pullulare di elettroni nell’elemento chimico eroico. È uno e trino. Ubiquo e polimorfo. Pettinato come se la Forestale gli avesse fatto un giro in testa, come dice il Gatto, il re dei numeri de L’Eroica. Elettrico e sempre in tensione. Ma col sorriso.

I come I’ Bbrocci

Tutto questo mondo eroico non esisterebbe proprio se un quarto e passa di secolo fa non si fosse accesa la luce visionaria e donchisciottesca di Giancarlo Brocci da Gaiole. Il Brocci, anzi I’ Bbrocci ha
michelangiolescamente toccato il dito degli eroici adamitici e ha dato il là alla genesi. Molte cose sono successe nel frattempo, anche di grosse e non sempre di dritte. Come tutti i fenomeni di “lunga durata” anche L’Eroica per sopravvivere ha dovuto accettare l’evoluzione: ma è impossibile dimenticare dove e come tutto prese inizio. Se si ha ben presente da dove si proviene, difficile che si perda il senso di dove si vuole arrivare.

L come Lampredotto

C’è ci storce il naso al solo pronunciare il nome di questa umile, enterica ma concreta dimostrazione dell’esistenza di Dio. Ci dispiace per loro. Soffermatevi invece a rimirare il pentolone ribollente di aromi, la maestria con cui viene arpionata la sfuggente materia dissimulata in sembianza ittica, la speditezza con la quale a colpi di coltello viene ridotta a una scomposta minuzia, e l’altrettanto prontezza con cui ratto s’intinge il panino nello stesso brodo, non troppo ammollato per preservarne la forma infrastrutturale del companatico, ma inumidito il giusto per assorbirne i vaporosi umori del sedano, della cipolla e della carota, per poi adornarla della gustosa bagna smeraldina. Lampredotto, m’hai provocato. E mo’ me te magno.

N come Nova Eroica

Nova Eroica è un manifesto alla declinazione della libertà in bicicletta. Le mitiche Strade bianche divenute da oltre venticinque anni patrimonio dell’umanità ciclistica vengono qui affrontate non soltanto dalle biciclette d’epoca, come avviene nell’Eroica primigenia e ottobrina di Gaiole, o in quella primaverile di Montalcino; ma anche dalle bici contemporanee, e in particolar modo dalle gravel, oggi il mezzo più adatto per pedalare su sterrati e fuoristrada, su percorsi dall’altimetrie non proibitive. Nova Eroica è per questo un simbolo del nuovo stile dell’andare in bicicletta che si apra a pubblici sempre più ampi ed appassionati. Il Dolce Stilnovo eroico.

M come Monte Sante Marie

È il Galibier, il Mortirolo dell’Eroica. Un susseguirsi di balzi dalle pendenze cattive, che di solito i veri eroici – quelli del “Lungo” dell’Eroica di ottobre – fanno quasi al termine della loro impresa. Vedendo, come dice il nome della salite, più di una Madonna. E invocandola spesso.

P come Panzanella

Era più o meno la metà del Trecento e nelle campagne del Senese si moriva di fame: pestilenze, carestie e quell’insopprimibile voglia di fare le guerre delle prepotenti città nei contadi avevano messo allo stremo la popolazione rurale. Giovanni Colombini apparteneva a una ricca e potente famiglia di mercanti senesi, che si erano poi dati ai banchi di prestito, diventando infine così ricchi e potenti da essere ammessi tra i nobili cittadini. Ma proprio a metà Trecento, Giovanni e tutta la sua famiglia, fulminati da una crisi mistica, donarono tutti i loro averi, si fecero monaci e vissero in povertà e letizia. In un anno ancor più crudo degli altri, intorno a Giovanni, venerato eremita, si strinsero disperati uno stuolo di contadini affamati. Giovanni li riunì in preghiera e fece il miracolo: le sue lacrime pietose bagnarono quel poco di pane secco che gli
rimaneva, e poi irrorarono un ulivo e poi ancora ridiedero vita all’ortaglia d’intorno, che tornò a produrre verdure di campo. Con l’olio, il pane secco ammollato e i frutti dell’orto sfamò centinaia e centinaia di mendicanti. E nacque la panzanella, la panzanella del Beato Colombini. Ora il nome stesso di questo glorioso piatto povero di riuso non rende forse fede alla leggenda. Però alla panzanella, soprattutto da queste parti, e nelle stagioni calde, non si può rinunciare. Io, modestamente, la faccio buona quasi quanto il Beato. E senza bisogno di piangere.

R come Rubino, Guido P.

Con Guido Rubino, giornalista e fotografo, da più di dieci anni ho combinato tante belle avventure sopra e intorno alle biciclette. Stare al suo fianco è per me garanzia di lavoro ben fatto e autentico divertimento. Guido P. Rubino quando è in forma, più o meno sempre, ti fa piegare dalle risate. Ma Guido non è che un esempio tra i molti del significato autenticamente comunitario e amichevole di Eroica: e quello che scrivo di Guido lo potrei dire, a diverso titolo, per Livio, Angela, Alessandra, Maurizio, Willy, Mauro, Cristina, Roberto, Ale, Vittorio… Tutte le volte che ho partecipato, fosse Gaiole o Montalcino, la Nova o in Limburgo o nelle Dolomiti, la cosa più importante è stata quella di sapere di incontrare i vecchi amici e di farne di nuovi.

V come Val d’Arbia

L’Arbia si colorò in rosso nel 1260, nella battaglia tra guelfi Fiorentini e ghibellini Senesi, per il gran spargimento di sangue. Con Nova Eroica in Val d’Arbia i colori, delle biciclette, delle maglie, dei caschi, degli stendardi e dei tendoni del village sotto le mura di Buonconvento non si contano. Un arcobaleno in bicicletta, a dispetto di un meteo capriccioso che ha ingrigito il weekend di mezzo luglio.


A grappoli

La guida alla città di Saint-Émilion che poi non è una città, ma un paesino, ci racconta di un gioiello incastonato nel cuore dell'Aquitania.
Ci racconta passaggi in mezzo a vigneti sacri per la gente del posto, un flash impercettibile per i corridori che impiegano circa 35, 36, 37 minuti per percorrere la distanza che li porta da Libourne a, per l'appunto, Saint-Émilion.
Instancabile monotonia quella della cronometro: l'abbiamo raccontata in tanti modi, oggi è un gesto tecnico, sì, ma affaticato, dolce e profondo come il suono del sax. Noioso: per una classifica ormai congelata.
Ha maschere che paiono fantascientifiche, disegnate da Carlo Rambaldi, che riflettono, deformando, la lunga fila doppia del pubblico che non si perde nemmeno un centimetro della corsa. Chiede e ottiene sacrifici; il penultimo, forse l'ultimo sforzo, per la verità: domani sarà tutta discesa (fino a Parigi).
Oggi è un tic-tac, un su e giù, un pim-pum, un verde brillante, un vociare continuo a bordo strada. Un viaggio in mezzo a odori acri di frutta bruciata dal sole, una lisergica epopea. Ecco: oggi è la giornata ideale da passare a bordo strada e vedere il Tour. Una tenda, un cappellino, una maglia a pois, una bandiera. Per spingere Latour e Armirail, farsi un bicchiere nonostante il caldo.
Sperare che possa vincere Kueng, e invece nemmeno oggi è la sua giornata. E allora ci sta benissimo che sia davanti a tutti un fuoriclasse completo come se ne vedono di rado, van Aert, che in una crono al Tour ha rischiato di lasciarci la carriera e oggi rinfresca il suo piacere, che è anche il nostro che lo apprezziamo così tanto.
Ma è un festival per tutti, con quelle bandiere, camper e gazebo, la gente che si spella le mani e si scortica la gola quando passa Alaphilippe, che non ha la maglia di campione del mondo, ma sarebbe impossibile non capire che è lui, dietro quel pizzetto, le spalle ondeggianti da far venire il mal di mare.
Diamanti di talento a grappoli schizzati velocemente in mezzo ai vigneti: un luogo perfetto per appassionati di fotografie, un luogo perfetto per consacrare Vingegaard e per vedere Pogačar gestire e (praticamente) vincere il Tour.


La giusta ispirazione

A volte bisogna osare e rischiare per provare a tirar fuori quel risultato che può anche cambiarti la carriera. Sui pullman, a poche ore da una tappa, si studiano tattiche di gara e punti strategici insieme ai direttori sportivi.
Spesso, però, è la strada a dettare i ritmi, a ispirarti. Alessandro Verre, giovane corridore della Colpack, ha avuto 110 chilometri per provare a vincere la prima frazione del Giro della Valle d’Aosta. Ha avuto tantissime salite e strappi, un’ascesa a Terreblanche di Pollein (alle porte di Aosta) che è stata sconsigliata alla maggior parte delle macchine e pure alle moto, tanto è ripida, stretta e con curve chiuse, per provare l’attacco.
La sua testa e le sue gambe hanno invece dato l’impulso decisivo in una rampa verticale a 5 chilometri dal traguardo, lunga sì e no 200 metri. Poca roba, in confronto a quanto affrontato fino a quel momento. Duecento metri decisivi per l’italiano, fatali per il neozelandese Thompson (La Conti Groupama-FDJ) che aveva provato l’allungo in solitaria prima su Terreblanche, poi su Les Fleurs.
Questione di testa e di tante gambe, dopo una frazione breve ma tosta, in cui non c’è stato un secondo per rifiatare. Lo spiega sul traguardo proprio Verre, appena dopo aver indossato la maglia gialla di leader ed essersi preso la prima vittoria internazionale.
«Se non hai gambe, al Valle d’Aosta non ti inventi nulla. E io nel finale ho sentito di avere le giuste energie». E pensare che a inizio tappa ha pure rischiato di staccarsi subito dal gruppo principale e di finire in fondo, a fare uno slalom tra le ammiraglie. Cosa successa a moltissimi corridori, in una gara che fin dai primi chilometri è stata caratterizzata da scatti e da un gruppo prima sempre più allungato e poi frazionato.
Tanto che dei 140 partenti una ventina sono finiti fuori tempo massimo già dopo la prima giornata. D’altronde si sa, il Valle d’Aosta appare disegnato su misura su corridori che hanno motore e che cercano un posto al sole e un contratto da professionista. Lo ha spiegato anche Alessandro Verre, uno che ha chiuso sesto il Giro under 23 e che cercava una riconferma non scontata, soprattutto dopo il suo avvio. A volte però, serve ascoltare il proprio istinto e provarci. Oggi sul tappone avrà il peso del leader, ma sarà un altro giorno. E si ripartirà quasi da zero.


Tricorno

Che forza devastante gli sloveni. Che forte, devastante Matej Mohorič, campione nazionale di Slovenia. Se vanno così forte ci dev'essere qualcosa da studiare, da prendere a esempio. Da capire. Nei muscoli, nella testa, nello stile di pedalata, nei geni, nella fame.
Sergio Tavčar ci raccontava, nemmeno troppo tempo fa, che sì, vanno bene tutti i discorsi antropologici, sociali, strutturali, ma per trovarti con talenti di questo genere nella stessa epoca sportiva, beh c'è anche una discreta dose di... fortuna - non disse proprio così, ma ci capiamo.
Beh, fortunati loro ad avere un corridore come Pogačar che a 22 anni e qualcosa sta per vincere il secondo Tour in fila, infrangendo record; che hanno uno come Roglič che non stiamo qui ad elencare successi avuti e sfiorati; che hanno Mohorič che per passare da talento a campioncino ora insegue un successo pesante (Mondiale 2021, magari, lui così bene abituato ai titoli mondiali) dopo i due al Tour 2021.
Slovenia, che in due Tour de France ha vinto più tappe di Italia, Francia, Belgio e Spagna messi assieme (per la verità Italia e Spagna sono a quota zero tra 2019 e 2020).
E oggi Mohorič vince una tappa mica facile. In mezzo a suonatori di muscoli caldi, predoni della fuga. Venti scalmanati che hanno preso le strade tra Mourenx e Libourne e l'hanno messa a ferro e fuoco. Come fosse il giorno del giudizio hanno avuto il via libera per scatenare l'anarchia - per la verità c'è voluto un po', prima che suonasse il gong capace di liberare watt e scrollare teste e gambe.
È partito di schianto e hanno solo visto allontanarsi l'imponente sagoma bianca, con quella schiena perfettamente parallela al terreno appartenente allo studente migliore del liceo del suo paese, nazione che come simbolo ha il Monte Tricorno.
Resiste, dà tutto, zittisce sul traguardo, gasatissimo, in un gesto che sta facendo infuriare, ma che derubrichiamo come dato dalla rabbia figlia della carica agonistica. Quel che resta è il gesto atletico. Forte, devastante Matej Mohorič.


Pedalare con i campioni

I cicloamatori si avviano a scalare il Passo Forcola e lo fanno con Elia Viviani, velocista della Cofidis, punta della nazionale italiana su pista alle prossime Olimpiadi.
Elia detta il ritmo verso l’ascesa e a turno i partecipanti all’appuntamento del mercoledì "la giornata con il campione" del Livigno Road Bike Tour, si affiancano a lui.
La strada inizia a salire, il respiro affannoso, le braccia e le spalle ciondolano, il sudore cola sul viso. E con loro Elia, ex campione tricolore ed europeo che vince volate al Giro e al Tour.

Viviani sceglie Livigno per l'altitudine, la sua pianura e le interminabili quanto affascinanti ascese. Lo individua come quartier generale estivo come tanti altri big del ciclismo. Livigno propone ogni giorno giri in bici guidati e il mercoledì è il turno dell’appuntamento con il campione.
Viviani accompagna gli amatori: un confronto stimolante, una chiacchierata per scoprire qualche segreto, rubare qualche indizio, conoscere aneddoti e curiosità. Un modo per poter avvicinare un campione del ciclismo mondiale e passare qualche ora insieme. Quasi per emularlo, sentirsi pro per una mattinata, non perdersi un centimetro del suo nuovo telaio tricolore e della componentistica della sua bici, ma anche dei suoi quadricipiti e dei suoi polpacci, di ogni minimo dettaglio del suo vestiario.

Si sale alla Forcola. Prima compatti, poi, dopo la prima galleria, più sfilati. Ma Elia si ferma con i primi, a pochi metri dalla dogana, ad aspettare tutti per le foto di rito. E per chiedere, domandare, scoprire, sfruttare questa occasione che APT Livigno ha dato ai turisti per tutta l’estate fino a settembre.
Si torna verso il centro di Livigno. Ora un paio di giri nelle gallerie. Un buon ritmo, dove nessuno molla e tutti procedono alla sua ruota. Si incontrano tanti pro. Se non sei al Tour sei a Livigno, sembra essere la linea delle squadre dei corridori professionisti più titolate. Così ti imbatti nella Quick Step, nella Israel, nella Bahrain, nella UAE. Poi si sale ancora.
Tocca alla doppia ascesa a Eira e Foscagno. Elia è ancora munito di giacchetta. Lui fa scarico, gli altri sono a tutta e maglietta aperta. Entusiasmo, condivisione, emulazione, c’è anche questo nel ciclismo e soprattutto nelle opportunità del Road Bike Tour.

Info e Prenotazione: +39 331 3322023 – info@bikelivigno.com.

https://www.livigno.eu/road-bike


Cuori infranti

È già nostalgia. Di Pirenei che si allontanano e di tutta quella gente sul Tourmalet. Di pendenze e sudore. Ma non ditelo ai corridori che hanno sofferto, seppure a un'andatura costante, e con sprazzi di moderato ottimismo, almeno a vedere Geoghegan Hart che non sorrideva mentre faceva il ritmo. No, a un certo punto rideva proprio.

Senza voler urtare la sensibilità di nessuno ammettiamo che oggi Pogacar sembrava fresco come il pesce del magazzino dove lavorava Vingegaard prima di diventare corridore a tempo pieno; freddo come il cuore degli Ineos quando davanti scattava Gaudu, rinfrancato, ma arrivato fuori tempo massimo all'appuntamento con il successo. Voleva vincere, Gaudu, per il suo capitano, che da queste parti - Tourmalet 2019 - pensava di scrivere l'inizio della storia, ma fu solo un capitolo di quelli da cui trarre aforismi da usare al massimo nelle citazioni con una bella foto a corredo, e al quale non ha potuto mai dare un lieto fine. Niente da fare per Gaudu: Ineos imperterrita col suo ridondante trenino.

E oggi scrittura lineare: Tour banale quanto rincuorante in questo senso, almeno sappiamo cosa aspettarci da questo mondo. Un mondo che sarebbe più brutto senza Alaphilippe che non ha di certo le gambe migliori, ma ci prova. Sempre. Senza Woods e Poels che si battono (inutilmente) per i punti della maglia a pois, che tanto quella si sapeva sarebbe finita sulle spalle di quel fenomeno lì.

E cos'altro aggiungere al racconto di un Tour che ci ha fatto vedere sui Pirenei un dominatore dal ciuffo ribelle e dall'infallibilità dell'uomo senza nome di quel famoso western all'italiana.

Rimane qualche bella diapositiva: il temperamento astratto di Gaudu che a dieci dall'arrivo sembrava ripetersi "che faccio? vado o resto?", o L'Equipe in bocca a Latour prima della discesa, la sofferenza di Uran, la stasi di Mas, il talento di Vingegaard, i ricordi di Valverde, l'andatura un po' gaglioffa di Danielmartin.
Diapositive e premi. Ce ne fossero altri Pogačar li avrebbe presi: tappa, maglia a pois, maglia gialla, rossa, nera, a strisce, premio produttività. Di sicuro, non ce ne vorranno le anime fredde, anche il nostro cuore, rapito dall'azione di uno splendido dominatore.


Ecce Homo

Può Pogačar vincere senza dominare? Risposta semplice a domanda ambigua: oggi sì. Perché gli basta uno scatto sul traguardo per poi rischiare di strapparsi di dosso la maglia gialla dalla gioia, lassù, sul Col du Portet, dove la nebbia nasconde sullo sfondo l'assidua imponenza dei Pirenei. Per poi distendersi, stravolto, in una posa dove sembra stare lì a prendere il sole e a godersi ogni momento della sua vita.

Semplice la risposta, vero? Perché far sembrare tutto semplice è il paradigma dei fuoriclasse; perché ai tre dall'arrivo sembrava su una Graziella in ciclabile, gli mancavano solo la busta della spesa attaccata al manubrio e la ragazza di fianco, ma di fianco aveva un danese (forte, sorprendente) e un ecuadoriano (furbo, scaltro, ma non forte quanto vorrebbe).

Perché dopo aver fatto sfogare Carapaz in quell'ultimo assalto all'arma bianca ha deciso di vincere - e ha vinto. Perché sul suo volto la fatica si nasconde bene, mentre quello dei suoi avversari è tutto un compendio di stregua resistenza a volte malcelata.

Come il bel profilo di Perez che si trasforma da acqua e sapone a quello dell'ecce homo: da pulito come piace alle ragazze, a sconvolto come un martire, cercando l'impresa nel giorno più importante per i francesi. Che spingono Gaudu, finalmente un bel Gaudu. Che senza una giornata orrenda come quella sul Ventoux oggi lotterebbe per ben altro.

Perché il viso di Uran è quello scavato dalle intemperie: più che un ciclista sembra non abbia fatto altro che tirare su palle di fieno nei campi per tutta la vita. Perché la faccia di O'Connor non si è praticamente mai vista, se non quando chiude quinto al traguardo. Mentre Mas all'arrivo sembra sorridere, col cerotto sul naso come Casiraghi a Euro '96. Ma non è un sorriso: è solo un ghigno di fatica.
E allora si ritorna alla domanda iniziale: si può vincere senza dominare? Dipende, oggi Pogačar lo ha fatto, ma solo perché come i fuoriclasse fa sembrare tutto semplice. Non una bella notizia per gli altri, per chi lo segue, invece, vederlo vincere, un discreto piacere.


A volte basta l'idea

Ci esalta Colbrelli. È vero non ha ancora vinto al Tour, ma è lana caprina. Certo: vincesse metterebbe il punto esclamativo al suo Tour e forse pure alla carriera. Ma diciamolo: non avere ancora vinto ce lo rende persino più simpatico, quell'emozione che trasmette chi ci prova, ma arriva secondo, sfuggendo la retorica del primo dei perdenti.

Colbrelli, con i suoi secondi posti, è tutt'altro che un perdente. I primi giorni c'erano tappe adatte a lui, ma aveva notato come altri (Alaphilippe, van der Poel) mostravano un passo migliore e allora ha rischiato, anticipandoli. Furbizia non ripagata, ma che ci ha fatto dire: "Bravo Sonny, c'hai provato".

Poi sono arrivate le montagne, soprattutto la pioggia e il freddo. Ecco, poi glielo chiederemo a fine Tour: cosa gli succede quando il clima è avverso? Diventa un corridore diverso. Secondo a Tignes, tappone alpino, superando nel finale Guillaume Martin, solo O'Connor gli è sfuggito. Secondo ieri a Saint-Gaudens, antipasto dei due tapponi pirenaici, resistendo al forcing di Gaudu, che non sarà il miglior Gaudu, ma resta pur sempre un buon Gaudu.

Diversi punti in comune nelle sue azioni: intanto il tricolore che, in un bagno nazionalpopolare che ci travolge in questo periodo, non può che farci piacere vederlo aperto sventolante sul petto. La grinta che trasmette, e poi, con pioggia e freddo, mentre i corridori soffrono, lui, che soffre, sì, e stringe i denti, riesce a dare un quid in più.

E poi: il viso simpatico, il corpo tozzo, la tranquillità nelle risposte a fine corsa. Sì, c'è un gesto di stizza al traguardo, ma la consapevolezza di andare forte come non mai e di averci comunque esaltato in un Tour avaro di gioie per i colori italiani. Ora, se in questi due giorni di montagna immaginiamo possa stare più tranquillo, venerdì ci sarebbe l'ultima occasione per vincere.

Eventualmente facciamo come antichi credenti e chiediamo a Giove di mandarne giù un po'. Nulla di che, quello che basta per esaltare Colbrelli e di conseguenza farci sognare. Sì, ci accontentiamo così, perché non sempre serve vincere, a volte basta un pensiero, un'idea, un'azione.