Cerchi nel carchi

Se c'è una cosa che riesce bene a Richard Carapaz è cogliere l'attimo. Se lo abbiamo definito tempo fa "il migliore al mondo per scelte tattiche e tempismo" oggi abbondiamo di sale: migliore dell'Olimpo.

Se ci dovessimo immaginare il Carchi, da dove arriva, in questo momento, forse non ci arriveremmo nemmeno vicino. Se ci dovessimo immaginare quando Carapaz tornerà a casa, allora ci aspettiamo una serie tv, un libro, un concept album, interamente dedicato al suo trionfo oggi, e alla sua celebrazione. Alla sua storia, alle sue origini, a quei visi solcati, la pelle di bronzo della gente di laggiù, dell'Ecuador, gente semplice e sguardi realistici che si tramutano in espressioni di sogni realizzati. Impensabili anche solo nel cercarli.

È vero: se c'è una corsa in cui il cuore è vicino alla maglia azzurra, più di ogni altra, quella è la gara dei Giochi e quando Bettiol si è staccato in preda ai crampi (di nuovo, ahinoi) abbiamo patito.
Ma se pensiamo a tre medaglie così: oro a Carapaz, argento a van Aert, bronzo a Pogačar, tre stupende medaglie addosso a tre corridori così, l'amarezza svanisce in un attimo.

Un attimo che ha trasformato una giornata olimpica in un'altra memorabile giornata di ciclismo 2021. Indimenticabile: per la resistenza di Bettiol finché ha potuto, il sogno accarezzato da McNulty, il talento esuberante e oggi persino sofferente di Pogačar, la forza straripante di van Aert e poi la magia. Quella di Carapaz. E da oggi se cercate i cerchi olimpici, date uno sguardo laggiù, nel Carchi, in Ecuador. Non ne resterete delusi, anzi. Potreste essere colti in pieno da una deflagrazione.


Sveglia presto, ricordi ed epiloghi azzurri

Mentirei se dicessi di avere un ricordo nitido e preciso della prima edizione dei Giochi vista: Seul '88. Chiudo gli occhi e vedo Gelindo Bordin che taglia il traguardo con il fisico come in preda a degli spasmi di fatica, si china, con una faccia che sembra un santo, e bacia per terra. Era mattina prestissimo, era la maratona. Gelindo Bordin che poi, scherzo del (mio) destino da appassionato, è cugino di Marco Canola vincitore di una tappa al Giro nel 2014.
Mi faccio più serio se ripenso invece al ciclismo olimpico: Barcelona '92, ricordo vivissimo di quel 2 agosto e della vittoria di Fabio Casartelli, così come è impossibile dimenticare Richard, Ullrich, Bettini, Sanchez, Vinokurov, Van Avermaet: ogni vittoria ben caratterizzata dai percorsi, dall'atmosfera, e dal fascino della frittura globale e totale dei Giochi.
Fascino. Ecco forse la parola che racchiude le settimane olimpiche e che stanotte (o mattina dipende dall'orologio biologico di ognuno) ci spingerà alla sveglia presto per vedere la prova in linea. Fascino dei Giochi: dove contano le medaglie, persino un terzo posto verrebbe accolto con entusiasmo. Fascino di un percorso che sale verso il Monte Fuji, roba da cartolina, poi sale verso il Mikuni Pass, roba da spaccarti le gambe, e arriva in autodromo. Fascino nel vestire la maglia della propria nazionale. Di sapere di avere a casa gente che magari non sa nemmeno chi sei, ma per una volta fa il tifo anche per te.
Imprevedibilità è il tormentone. Una corsa impossibile da leggere: farà caldo, ma soprattutto umido, ma è prevista anche pioggia e forse vento. Il percorso è duro, e nel ciclismo del 2021 non è che premia gli scalatori, premia corridori completi, da grandi giri (Pogačar e Roglič nomi ricorrenti), oppure quel fuoriclasse che è van Aert, che è un po' tutto. Ho provato a mettere assieme qualche nome e ne verrebbero fuori una trentina: sloveni, belgi, olandesi, francesi, spagnoli, canadesi, svizzeri, danesi, tedeschi, polacchi, sudamericani. Scegliete voi chi vi aggrada di più.
E mentiremmo tutti se dicessimo di non essere emozionati al pensiero della gara di domani. Sveglia puntata alle 4, e via. Colazione olimpica. Una volta ogni tanto si può, si deve, come quella volta a Seul, magari con un epilogo (azzurro) stile Barcelona o Atene.


Da Bormio all'Alta Badia: ecco "la pedalata tosta"

Collegare, esaltare, promuovere e farlo in bici. Unire Bormio e Alta Badia; la Valtellina alle valli ladine, la Lombardia al Südtirol. Duecentotrenta chilometri e cinquemila metri di dislivello: ecco ‘La ‘Pedalata Tosta’. Un’idea, o forse una pazzia, di Daniele Schena - per tutti Stelvioman - e di Klaus Irsara. Un lungo viaggio che ha lo scopo di unire due eccellenze alpine.

Un viaggio interminabile attraverso passi mitici, valichi transregionali, cime maestose, vette ancora innevate.
Un itinerario a pedali fra inverno ed estate, fra una molteplicità di colori e profumi, di temperature che cambiano in continuazione, di sali e scendi a ripetizione. Di sudore e fatica, certo, ma soprattutto di entusiasmo. A esaltare l’esplorazione, uno dei valori che insegna il ciclismo.
Da Bormio la strada sale per Santa Caterina Valfurva dove parte il Passo Gavia, la Cima Coppi dell’itinerario.

Il bosco, gli alpeggi, il lago. La strada che sale prima severa e poi dolce, un regalo per farti osservare tutti quello che hai davanti agli occhi. Si scollina a 2.650 metri e poi ecco la picchiata verso la Val Camonica. Prima di Ponte di Legno ancora con il naso all’insù. Ecco i 1.900 metri del Passo del Tonale che separa la Lombardia dal Trentino. Discesa e poi pianura in Val di Sole fino al bivio per il Passo Mendola.

La salita vera parte da Fondo, poi dopo alcune rampe la strada spiana e si affronta il Mendelpass a 1.370 metri: siamo in Alto Adige. Ad ogni valico la sosta per un veloce ristoro, qua invece un’ora per ricaricare le forze fisiche e mentali dal momento che siamo a metà della ‘Pedalata Tosta’.
A settembre (dal 18 al 24 in bikepacking con partenza da Badia) si svolgerà la ‘Pedalata Lieve’ dove ogni partecipante potrà effettuare le tappe che desidera, scegliere l'andatura gestendo il proprio viaggio.

Daniele e Klaus hanno proposto di raggiungere l’Hotel Melodia del Bosco di Badia-Abtei dall’Hotel Funivia di Bormio in una tappa unica. Tutta d’un fiato, tutta senza respiro, tutti a tutta. Ci vogliono gambe e testa, oltre ad un amore illimitato per la bicicletta che rende tutto magico anche se sei consumato da un chilometraggio e da un dislivello esigente.

Il viaggio prosegue alla volta della zona meridionale dell’Alto Adige. Da Caldaro risaliamo verso nord attraversando Bolzano sulla pista ciclabile per poi attaccare l’ascesa interminabile verso il Passo Gardena.
I primi chilometri in direzione Laion sono sotto il sole cocente: la stanchezza inizia a farsi sentire. Una lunga battaglia la nostra pedalata verso l’ultima fatica di giornata.

Scollineremo a 2.150 metri con una salita che perde quota e poi risale verso il passo, all’interno dell’anfiteatro dolomitico.
Dal Gardena sarà solo una picchiata verso l’Alta Badia: Colfosco, Corvara, La Villa fino a Badia. Le vette sono guglie, le cime campanili di cattedrali rocciose.
Le lingue di neve sono incastonate fra le gole nascoste. Resiste la neve, tiene botta, un pò come abbiamo fatto noi d’altronde. I prati, il tramonto, l’aria che inizia a frizzare. Siamo finiti. Ma sempre più vivi.

Foto: Weronika Szalas e Adam Kolarski
Riders:
Hanna Raymond, Claudia Rier, Omar Di Felice, Gabriele Pezzaglia, Daniele Schena, Klaus Irsara, Kristian Arnth
Assistenza:
Elisa Bonaccorsi, Sara Bruseghini
Info ‘Pedalata Lieve’ di settembre:
info@hotelfunivia.it
info@melodiadelbosco.


Dietro le quinte

«Nella durezza di questi momenti, trovo sempre un aspetto positivo. Ogni esperienza è un tassello che aggiungo al mio bagaglio perché non dimentico mai quanto ho spinto per arrivare in cima, ma è restarci la sfida quotidiana».
Jacopo Mosca, qualche settimana fa durante il campionato italiano a cronometro, è caduto rovinosamente a oltre settanta chilometri all'ora. In quest'intervista https://racing.trekbikes.com/.../the-extraordinary..., il dottore che lo sta curando, e lo stesso Mosca, raccontano le difficoltà per via delle numerose fratture, uno pneumotorace, un'infezione, le notti insonni preoccupato per il suo futuro agonistico.
Oggi, Mosca, testardo, come ama definirsi lui, cerca di recuperare, la stagione è ormai andata, ma lui si concentra sul 2022.
Perché parliamo di Jacopo Mosca? Perché la sua carriera da corridore è un inno alla resistenza, simbolo della perseveranza. Perché nonostante i buoni risultati qualche stagione fa sembrava tagliato fuori dal professionismo «La Wilier mi lasciò a casa e quando ci ripenso, sono ancora perplesso. Mi è stato detto che non avevo le capacità per essere un corridore professionista».
Poi, dopo essere sceso nel circuito Continental, arrivò una chiamata per sostituire Irizar, ritiratosi dall'attività agonistica, e da lì la Trek-Segafredo sembra non possa più fare a meno del suo fedele servizio. «Ci sono pochi corridori seri e affidabili come lui: ce lo teniamo stretto», racconta Guercilena, il Team Manager della squadra italo americana.
Perché dietro i successi dei capitani, c'è sempre un uomo, prima ancora che un corridore e Jacopo Mosca è uno di quelli che non si stanca mai di tirare per sé e per gli altri.
Robusto: esaltazione della consistenza; il suo è un modo per far percepire come, nel ciclismo, per vincere, servano anche grandi lavoratori dietro le quinte, non comparse.
Coloro che caratterizzano una storia, portano borracce, tirano il gruppo, spingono in fuga e se hanno un compagno con loro, allora in quella fuga si dedicheranno agli altri.
Sempre una parola di conforto, un po' di watt a disposizione del prossimo. Così fanno quelli come Jacopo Mosca, che vanno benino ovunque, ma non così forte da togliersi soddisfazioni personali. «Me la cavo ovunque - ci raccontò tempo fa - ma sia in salita che in volata trovo sempre qualcuno più forte di me». Che vada forte o piano, non interessa, oggi Mosca lotta per riprendersi il suo posto.


Il momento più bello

Forse il momento più bello ieri Filippo Baroncini lo ha regalato nell'intervista alla fine della tappa vinta, in un franco-romagnolo disinvolto, a tratti neorealista: "Nu speron de portè an italì la maion gion".
Invece, parlando sul serio: Baroncini ha fatto un numero d'alta scuola nella seconda semitappa dell'Étoile d'Or, in Francia, terza prova della Coppa delle Nazioni, categoria Under 23.
È partito a poco più di 10 km dall'arrivo, il ragazzo della Colpack classe 2000, che per l'occorrenza sta vestendo la maglia azzurra. Azione devastante, accelerazione fulminea con la quale si è scrollato di ruota tutti gli avversari. In un momento di esaltazione di diversi talenti internazionali, oggi fateci celebrare un talento italiano.
Sta coronando un periodo sopra le righe, Baroncini: tappa a cronometro al Giro Under 23, campionato italiano a cronometro, e ora vittoria di spessore in Francia battendo rivali di un certo lignaggio. In mezzo a questi successi, il contratto firmato con la Trek-Segafredo per il 2022 e l'amarezza per il quarto posto nell'ultima tappa del Giro - se qualcuno si aggirava nei pressi dell'arrivo, quel giorno, forse se si concentra può ancora sentire le sue imprecazioni.
Emerso definitivamente sul finire del 2020, Baroncini è un corridore versatile, longilineo e dallo stile impeccabile in sella. Forte a cronometro, veloce negli sprint ristretti, capace in questo momento di gamba superba di staccare di ruota i suoi avversari sugli strappi brevi. Ora, se Amadori lo convocherà (altrimenti il ritornello sarà: "Amadori: convocaci Baroncini" ) per i prossimi appuntamenti con la nazionale - Avenir, Europeo e Mondiale - il quasi ventunenne ha l'occasione di continuare a farci divertire, in corsa e, con la sua spontanea spavalderia, anche nel dopo corsa.


Qualcosa di speciale

Parigi? Van Aert. Vincere qui è come una classica, anzi una classicissima. Vederlo davanti così: uno spettacolo, qualcosa di speciale. Dopo aver vinto la tappa del Ventoux e la crono in mezzo alle vigne, la volata: pare si debba risalire a nomi tipo Merckx o Hinault per trovare qualcosa di simile. Roba da ubriacarsi.

Peccato non ci fosse la bolgia, nemmeno una bolgetta. A tratti pareva “28 giorni dopo” ambientato a Parigi a parte una timida avvisaglia di curva da stadio. Il gruppo? Quello c'era: una macchia colorata che brucia gli occhi, apparsi festosi, stanchi, vogliosi come dopo una sbornia.

È l'ultimo giorno di scuola e c'è sempre qualcosa di speciale da ricordare. È stato un anno - un Tour - faticoso. Da correre, da sopportare, da raccontare. Intorno si è cercato di incutere sospetti e infilarli ovunque, in corsa si è cercato in ogni modo di rendere tutto un po' speciale. Vincitori seriali, a volte casuali, fuoriclasse, dominatori. Oggi van Aert, uno che ha qualcosa di speciale, lo ribadiamo: uno spettacolo.

Il van Aert segnale è partito sui Campi Elisi: forza fatta a uomo-bici su ogni terreno. Montagna, pianura, i più attenti lo avranno visto comandare spesso anche in discesa, a cronometro. Volata, come oggi, a Parigi, dove ci si consacra. Classe pura, potenza. Watt, persino decibel. Van Aert: qualcosa di speciale. Con quella tendenza a farci godere.


Alfabeto Nova Eroica

A come Arrigo VII

Buonconvento è un bel posto per venirci a pedalare. Sterrati, salite, discese, borghi e pievi e castelli. Lo sanno tutti da quando l’Eroica ne ha fatto uno dei capisaldi del “Rinascimento ciclistico”. Un po’ meno per venirci a morire, tanto più se, come pare, avvelenato. Capitò nel 1313 all’imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, nel quale Dante, nell’eterna contesa temporale tra papato e impero, e nelle intestine lotte tra guelfi e ghibellini, riponeva le sue speranze di riscatto politico, sbagliando però clamorosamente “cavallo”. Pare che fosse stato avvelenato da un frate, durante la comunione. Si era in piena estate
(24 agosto) e non c’era verso di rimpatriare il cadavere imperiale in Germania. Si fece ricorso a un’usanza germanica: bollire il corpo del morto per separarne le ossa dal resto delle parti molli. Le ossa vennero trasportare insieme alle insegne imperiali, lo scettro e il globo, nel Duomo di Pisa, dove lo scultore Tino da Camaino eresse un monumento funebre al sovrano. Che da questo fatto derivi il nome della celebre ribollita, noto piatto dei mitici ristori eroici?

B come Berruti, Luciano

Perché son quattro anni che non c’è più ma è come se non fosse mai andato via. Sempre qui. Non c’è quasi bisogno di ricordarlo. E se ce ne fosse bisogno basterebbe incrociare gli occhi di Jacek, suo figlio, e quello che dice e che fa con la schiettezza ereditata da un padre che era anche “il suo migliore amico”. Luciano, numero uno per sempre.

C come Crine del Carube

Biondo era bello e di gentile aspetto. Oddio, proprio gentile magari no… Però biondo e bello Roberto Lencioni, detto Carube, s’è palesato iersera all’ombra delle mura trecentesche di Buonconvento “a miracol mostrare”. A colpire l’attenzione degli affezionati che lo hanno accolto, erano i boccoli dorati che sfuggivano alla sorveglianza d’un vezzoso cerchietto. “Oh Carube!” stupirono gli amici. “Tranquilli” disse il Gran connestabile del Re Leone “non vedo il barbiere da mesi”. Per poi aggiungere bellicosi propositi che si tacciono per prudenza e decenza.

F come Franchetti

Franco Rossi, detto Franchetti, è il motore organizzativo della gran macchina di Eroica. È la corrente alternata del generatore. Il pullulare di elettroni nell’elemento chimico eroico. È uno e trino. Ubiquo e polimorfo. Pettinato come se la Forestale gli avesse fatto un giro in testa, come dice il Gatto, il re dei numeri de L’Eroica. Elettrico e sempre in tensione. Ma col sorriso.

I come I’ Bbrocci

Tutto questo mondo eroico non esisterebbe proprio se un quarto e passa di secolo fa non si fosse accesa la luce visionaria e donchisciottesca di Giancarlo Brocci da Gaiole. Il Brocci, anzi I’ Bbrocci ha
michelangiolescamente toccato il dito degli eroici adamitici e ha dato il là alla genesi. Molte cose sono successe nel frattempo, anche di grosse e non sempre di dritte. Come tutti i fenomeni di “lunga durata” anche L’Eroica per sopravvivere ha dovuto accettare l’evoluzione: ma è impossibile dimenticare dove e come tutto prese inizio. Se si ha ben presente da dove si proviene, difficile che si perda il senso di dove si vuole arrivare.

L come Lampredotto

C’è ci storce il naso al solo pronunciare il nome di questa umile, enterica ma concreta dimostrazione dell’esistenza di Dio. Ci dispiace per loro. Soffermatevi invece a rimirare il pentolone ribollente di aromi, la maestria con cui viene arpionata la sfuggente materia dissimulata in sembianza ittica, la speditezza con la quale a colpi di coltello viene ridotta a una scomposta minuzia, e l’altrettanto prontezza con cui ratto s’intinge il panino nello stesso brodo, non troppo ammollato per preservarne la forma infrastrutturale del companatico, ma inumidito il giusto per assorbirne i vaporosi umori del sedano, della cipolla e della carota, per poi adornarla della gustosa bagna smeraldina. Lampredotto, m’hai provocato. E mo’ me te magno.

N come Nova Eroica

Nova Eroica è un manifesto alla declinazione della libertà in bicicletta. Le mitiche Strade bianche divenute da oltre venticinque anni patrimonio dell’umanità ciclistica vengono qui affrontate non soltanto dalle biciclette d’epoca, come avviene nell’Eroica primigenia e ottobrina di Gaiole, o in quella primaverile di Montalcino; ma anche dalle bici contemporanee, e in particolar modo dalle gravel, oggi il mezzo più adatto per pedalare su sterrati e fuoristrada, su percorsi dall’altimetrie non proibitive. Nova Eroica è per questo un simbolo del nuovo stile dell’andare in bicicletta che si apra a pubblici sempre più ampi ed appassionati. Il Dolce Stilnovo eroico.

M come Monte Sante Marie

È il Galibier, il Mortirolo dell’Eroica. Un susseguirsi di balzi dalle pendenze cattive, che di solito i veri eroici – quelli del “Lungo” dell’Eroica di ottobre – fanno quasi al termine della loro impresa. Vedendo, come dice il nome della salite, più di una Madonna. E invocandola spesso.

P come Panzanella

Era più o meno la metà del Trecento e nelle campagne del Senese si moriva di fame: pestilenze, carestie e quell’insopprimibile voglia di fare le guerre delle prepotenti città nei contadi avevano messo allo stremo la popolazione rurale. Giovanni Colombini apparteneva a una ricca e potente famiglia di mercanti senesi, che si erano poi dati ai banchi di prestito, diventando infine così ricchi e potenti da essere ammessi tra i nobili cittadini. Ma proprio a metà Trecento, Giovanni e tutta la sua famiglia, fulminati da una crisi mistica, donarono tutti i loro averi, si fecero monaci e vissero in povertà e letizia. In un anno ancor più crudo degli altri, intorno a Giovanni, venerato eremita, si strinsero disperati uno stuolo di contadini affamati. Giovanni li riunì in preghiera e fece il miracolo: le sue lacrime pietose bagnarono quel poco di pane secco che gli
rimaneva, e poi irrorarono un ulivo e poi ancora ridiedero vita all’ortaglia d’intorno, che tornò a produrre verdure di campo. Con l’olio, il pane secco ammollato e i frutti dell’orto sfamò centinaia e centinaia di mendicanti. E nacque la panzanella, la panzanella del Beato Colombini. Ora il nome stesso di questo glorioso piatto povero di riuso non rende forse fede alla leggenda. Però alla panzanella, soprattutto da queste parti, e nelle stagioni calde, non si può rinunciare. Io, modestamente, la faccio buona quasi quanto il Beato. E senza bisogno di piangere.

R come Rubino, Guido P.

Con Guido Rubino, giornalista e fotografo, da più di dieci anni ho combinato tante belle avventure sopra e intorno alle biciclette. Stare al suo fianco è per me garanzia di lavoro ben fatto e autentico divertimento. Guido P. Rubino quando è in forma, più o meno sempre, ti fa piegare dalle risate. Ma Guido non è che un esempio tra i molti del significato autenticamente comunitario e amichevole di Eroica: e quello che scrivo di Guido lo potrei dire, a diverso titolo, per Livio, Angela, Alessandra, Maurizio, Willy, Mauro, Cristina, Roberto, Ale, Vittorio… Tutte le volte che ho partecipato, fosse Gaiole o Montalcino, la Nova o in Limburgo o nelle Dolomiti, la cosa più importante è stata quella di sapere di incontrare i vecchi amici e di farne di nuovi.

V come Val d’Arbia

L’Arbia si colorò in rosso nel 1260, nella battaglia tra guelfi Fiorentini e ghibellini Senesi, per il gran spargimento di sangue. Con Nova Eroica in Val d’Arbia i colori, delle biciclette, delle maglie, dei caschi, degli stendardi e dei tendoni del village sotto le mura di Buonconvento non si contano. Un arcobaleno in bicicletta, a dispetto di un meteo capriccioso che ha ingrigito il weekend di mezzo luglio.


A grappoli

La guida alla città di Saint-Émilion che poi non è una città, ma un paesino, ci racconta di un gioiello incastonato nel cuore dell'Aquitania.
Ci racconta passaggi in mezzo a vigneti sacri per la gente del posto, un flash impercettibile per i corridori che impiegano circa 35, 36, 37 minuti per percorrere la distanza che li porta da Libourne a, per l'appunto, Saint-Émilion.
Instancabile monotonia quella della cronometro: l'abbiamo raccontata in tanti modi, oggi è un gesto tecnico, sì, ma affaticato, dolce e profondo come il suono del sax. Noioso: per una classifica ormai congelata.
Ha maschere che paiono fantascientifiche, disegnate da Carlo Rambaldi, che riflettono, deformando, la lunga fila doppia del pubblico che non si perde nemmeno un centimetro della corsa. Chiede e ottiene sacrifici; il penultimo, forse l'ultimo sforzo, per la verità: domani sarà tutta discesa (fino a Parigi).
Oggi è un tic-tac, un su e giù, un pim-pum, un verde brillante, un vociare continuo a bordo strada. Un viaggio in mezzo a odori acri di frutta bruciata dal sole, una lisergica epopea. Ecco: oggi è la giornata ideale da passare a bordo strada e vedere il Tour. Una tenda, un cappellino, una maglia a pois, una bandiera. Per spingere Latour e Armirail, farsi un bicchiere nonostante il caldo.
Sperare che possa vincere Kueng, e invece nemmeno oggi è la sua giornata. E allora ci sta benissimo che sia davanti a tutti un fuoriclasse completo come se ne vedono di rado, van Aert, che in una crono al Tour ha rischiato di lasciarci la carriera e oggi rinfresca il suo piacere, che è anche il nostro che lo apprezziamo così tanto.
Ma è un festival per tutti, con quelle bandiere, camper e gazebo, la gente che si spella le mani e si scortica la gola quando passa Alaphilippe, che non ha la maglia di campione del mondo, ma sarebbe impossibile non capire che è lui, dietro quel pizzetto, le spalle ondeggianti da far venire il mal di mare.
Diamanti di talento a grappoli schizzati velocemente in mezzo ai vigneti: un luogo perfetto per appassionati di fotografie, un luogo perfetto per consacrare Vingegaard e per vedere Pogačar gestire e (praticamente) vincere il Tour.


La giusta ispirazione

A volte bisogna osare e rischiare per provare a tirar fuori quel risultato che può anche cambiarti la carriera. Sui pullman, a poche ore da una tappa, si studiano tattiche di gara e punti strategici insieme ai direttori sportivi.
Spesso, però, è la strada a dettare i ritmi, a ispirarti. Alessandro Verre, giovane corridore della Colpack, ha avuto 110 chilometri per provare a vincere la prima frazione del Giro della Valle d’Aosta. Ha avuto tantissime salite e strappi, un’ascesa a Terreblanche di Pollein (alle porte di Aosta) che è stata sconsigliata alla maggior parte delle macchine e pure alle moto, tanto è ripida, stretta e con curve chiuse, per provare l’attacco.
La sua testa e le sue gambe hanno invece dato l’impulso decisivo in una rampa verticale a 5 chilometri dal traguardo, lunga sì e no 200 metri. Poca roba, in confronto a quanto affrontato fino a quel momento. Duecento metri decisivi per l’italiano, fatali per il neozelandese Thompson (La Conti Groupama-FDJ) che aveva provato l’allungo in solitaria prima su Terreblanche, poi su Les Fleurs.
Questione di testa e di tante gambe, dopo una frazione breve ma tosta, in cui non c’è stato un secondo per rifiatare. Lo spiega sul traguardo proprio Verre, appena dopo aver indossato la maglia gialla di leader ed essersi preso la prima vittoria internazionale.
«Se non hai gambe, al Valle d’Aosta non ti inventi nulla. E io nel finale ho sentito di avere le giuste energie». E pensare che a inizio tappa ha pure rischiato di staccarsi subito dal gruppo principale e di finire in fondo, a fare uno slalom tra le ammiraglie. Cosa successa a moltissimi corridori, in una gara che fin dai primi chilometri è stata caratterizzata da scatti e da un gruppo prima sempre più allungato e poi frazionato.
Tanto che dei 140 partenti una ventina sono finiti fuori tempo massimo già dopo la prima giornata. D’altronde si sa, il Valle d’Aosta appare disegnato su misura su corridori che hanno motore e che cercano un posto al sole e un contratto da professionista. Lo ha spiegato anche Alessandro Verre, uno che ha chiuso sesto il Giro under 23 e che cercava una riconferma non scontata, soprattutto dopo il suo avvio. A volte però, serve ascoltare il proprio istinto e provarci. Oggi sul tappone avrà il peso del leader, ma sarà un altro giorno. E si ripartirà quasi da zero.


Tricorno

Che forza devastante gli sloveni. Che forte, devastante Matej Mohorič, campione nazionale di Slovenia. Se vanno così forte ci dev'essere qualcosa da studiare, da prendere a esempio. Da capire. Nei muscoli, nella testa, nello stile di pedalata, nei geni, nella fame.
Sergio Tavčar ci raccontava, nemmeno troppo tempo fa, che sì, vanno bene tutti i discorsi antropologici, sociali, strutturali, ma per trovarti con talenti di questo genere nella stessa epoca sportiva, beh c'è anche una discreta dose di... fortuna - non disse proprio così, ma ci capiamo.
Beh, fortunati loro ad avere un corridore come Pogačar che a 22 anni e qualcosa sta per vincere il secondo Tour in fila, infrangendo record; che hanno uno come Roglič che non stiamo qui ad elencare successi avuti e sfiorati; che hanno Mohorič che per passare da talento a campioncino ora insegue un successo pesante (Mondiale 2021, magari, lui così bene abituato ai titoli mondiali) dopo i due al Tour 2021.
Slovenia, che in due Tour de France ha vinto più tappe di Italia, Francia, Belgio e Spagna messi assieme (per la verità Italia e Spagna sono a quota zero tra 2019 e 2020).
E oggi Mohorič vince una tappa mica facile. In mezzo a suonatori di muscoli caldi, predoni della fuga. Venti scalmanati che hanno preso le strade tra Mourenx e Libourne e l'hanno messa a ferro e fuoco. Come fosse il giorno del giudizio hanno avuto il via libera per scatenare l'anarchia - per la verità c'è voluto un po', prima che suonasse il gong capace di liberare watt e scrollare teste e gambe.
È partito di schianto e hanno solo visto allontanarsi l'imponente sagoma bianca, con quella schiena perfettamente parallela al terreno appartenente allo studente migliore del liceo del suo paese, nazione che come simbolo ha il Monte Tricorno.
Resiste, dà tutto, zittisce sul traguardo, gasatissimo, in un gesto che sta facendo infuriare, ma che derubrichiamo come dato dalla rabbia figlia della carica agonistica. Quel che resta è il gesto atletico. Forte, devastante Matej Mohorič.