Chris Froome e l'effetto piuma di Dumbo

Si avvicina l’inizio del Tour de France ed è difficile pensare al Tour senza pensare anche a Chris Froome. Nella storia di tutta la Grande Boucle nessun ciclista si è portato a casa il quarto titolo senza poi vincere anche il quinto: sono le statistiche a parlare, ma le statistiche valgono per i grandi numeri e non per il caso singolo.

I numeri, si sa, regalano una lettura della realtà perfettamente razionale e a volerli mettere tutti in fila, nel caso di Chris Froome, trasmettono l’immagine di un corridore nella parabola discendente della sua carriera: il terribile incidente di giugno 2019 al Critérium du Dauphiné, i 36 anni compiuti il 20 maggio, i modesti risultati di questa stagione (47esimo allo UAE Tour di febbraio e in questi giorni al Critérium du Dauphiné, 81esimo alla Volta a Catalunya, 93esimo al Tour of The Alps e addirittura 96esimo in classica generale al Tour de Romandie) e la generazione dei giovanissimi talenti con cui dovrà confrontarsi al Tour.
Ma se una vittoria al Tour a 36 anni (e 130 giorni, come riporta procyclingstats), nella storia, è riuscita solo al tedesco Firmin Lambot - stiamo parlando però del 1922 - c’è qualcosa che i crudi numeri non possono spiegare ed è qualcosa che ha a che fare con l’effetto piuma di Dumbo, ovvero la possibilità in determinati momenti e circostanze della nostra vita di poter accedere a delle riserve nascoste, che nessuno intorno a noi immaginava potessimo avere. Noi pensiamo che la storia della vita e della carriera di Froome sia proprio una storia che racconta di quelle riserve nascoste, a cui il campione inglese è riuscito ad attingere, fin da quando era solo un ragazzo.

Nella sua autobiografia, The Climb, Froome ci racconta un episodio rivelatore in tal senso. Chris, all’epoca sedicenne, si sta allenando con quello che è stato il suo primo mentore, David Kinjah, nei pressi di Ngong fuori Nairobi. Kinjah in Kenya è una vera e propria leggenda, il corridore più vincente nella storia del Paese, si è guadagnato il soprannome di Leone Nero correndo per un anno in Italia nel team Index Alexia Alluminio, lo stesso del due volte vincitore del Giro d’Italia, Paolo Savoldelli.

Quel giorno, sulle colline di Ngong, quel ragazzo di 16 anni sogna di poter battere il suo mentore e lo racconta così: «Siamo corridori. Lo sto inseguendo. Lui è la mia preda. Sta ridacchiando come una iena perché sa che non lo prenderò mai. Ha migliaia di chilometri di strade e colline stipati lì dentro, in quelle gambe, tutti compressi in muscoli tirati. Si prende gioco di me, mi lascia intravvedere la sua ruota posteriore: ora la vedi kijana (ragazzo), ora no. Non posso vincere, ma lui mi consente di avvicinarmi al punto da farmi sperare di riuscirci.

Dopo, quando avremo finito, ci riposeremo e rideremo insieme; arriverà mia madre, che ci segue con la sua auto a un paio di ore di distanza, e ci porterà del cibo per rifocillarci.

A quel punto, lo conosco, mi dirà “Carica la bici sull’auto di tua madre kijana e torna indietro con lei. La lunga salita per arrivare a casa non fa per te”.
Mi conosce abbastanza bene da sapere che non lo farei mai. Continueremo con la nostra gara fino a casa».
Ecco noi pensiamo che l’effetto piuma di Dumbo per Chris Froome stia tutto lì.


Ancora una volta Martesana Van Vlaanderen

A dicembre 2019, dopo quattro anni ed altrettante edizioni, Giovanni Pirotta, l'ideatore del Martesana Van Vlaanderen, aveva deciso di dire basta. Questo viaggio in bicicletta lungo le sponde dell'Adda, vicino ai navigli, che ogni anno radunava più di seicento persone, era nato quando molte cose erano diverse, troppe forse.

«Il primo anno credevo avrebbero partecipato al massimo cinquanta persone. Martesana Van Vlaanderen, invece, ha portato sull'Adda persone che venivano dal Veneto, dal Friuli Venezia Giulia, persino da Roma. Non lo avrei mai pensato. Non ho mai chiesto alcun permesso ai comuni per questo viaggio in bicicletta, ho sempre detto che era un ritrovo di amici, anche se molto numeroso. Amici che dopo il viaggio si fermavano a fare un pasta-party, a ridere e scherzare. Proprio per questo il Martesana è sempre stato gratuito: volevo provare a regalare qualcosa di bello alle persone e l'unico modo per farlo era così, spontaneamente, gratuitamente. Nel tempo, però, ho iniziato a pensare a tutti i rischi. Di recente sono diventato papà e chiedermi cosa sarebbe successo se fosse accaduto qualcosa di spiacevole durante questa manifestazione è stato inevitabile. Da padre ti fai più domande».

L'unica via sarebbe quella di affiancarsi ad una società, ma Giovanni non ci sta. «Avrebbe privato il Martesana di quella leggerezza che lo ha sempre caratterizzato, saremmo entrati nel turbine della burocrazia e dei permessi. No, a dicembre ho scritto alcune righe ed ho annunciato che, con dispiacere, la storia del Martesana finiva qui».

Giovanni Pirotta su quelle strade passava tutti i giorni, a piedi o in bicicletta. Ogni anno cercava di inventarsi qualcosa di diverso, una salita, uno strappo, un passaggio. Come per ringraziare coloro che venivano da così lontano, per sorprenderli. A novembre 2020, durante il secondo lockdown, tutto questo è tornato a mancare. «Per non pensarci ho iniziato a suonare la chitarra, ma nulla da fare. Quelle persone continuavano a venirmi in mente. Pensavo, per esempio, a quei due bed and breakfast ad Inzago che non si trovavano neppure su internet e che avevo contattato personalmente per cercare a questi ciclisti un luogo dove dormire. A tutto quello che il Martesana mi aveva lasciato. A quanti si trovavano nella mia stessa situazione. Io, però, potevo fare qualcosa».

Nasce così la versione "Ride Solo" del Martesana Van Vlaanderen. In fondo quel percorso si può percorrere anche in solitaria o in piccoli gruppi, perché non provarci? Così, ad aprile 2021, durante la settimana santa del ciclismo, quella del Fiandre, anche i ciottoli larghi e sformati degli zampellotti lungo l'Adda sono tornati a vibrare. «Poco più di cento chilometri lontano dalle auto, in mezzo al verde, accanto all'acqua, inseguendola e guardandola da ogni dove. Poco più di cento chilometri spostandosi verso la Brianza e riscoprendo la storia di quei luoghi. Penso sia bastato questo per dare un poco di spensieratezza a tante persone che ultimamente non sapevano più cosa fosse». E sono queste le storie più belle, quelle che non ti aspetti, quelle intrise di gratitudine: «Alcuni non avrebbero mai pedalato senza il Martesana di quest'anno. Alcuni hanno cercato una bicicletta apposta per godersi qualche ora all'aria aperta e hanno fatto di tutto per mostrarmi quanto fosse stato importante per loro. Circa centosettanta persone hanno concluso la prova».

Per questo, a chi oggi gli chiede se ci sarà un'altra edizione del Martesana Van Vlaanderen, Giovanni Pirotta ancora non sa rispondere, ma una certezza ce l'ha. «Se ci sarà, cambierà e si evolverà col tempo e con le cose che accadranno. Oggi, però, mi piace pensare a chi è tornato a casa più felice o almeno sereno. Quelle strade su cui io ho iniziato a pedalare per fare fatica, quest'anno hanno davvero costruito qualcosa di importante».

Foto: Fulvio SIlvestri


Attaccare per il ciclismo per i tifosi per se stessi

Quello che ci ha mostrato l'altro giorno l'attacco di Damiano Caruso, oltre all'aspetto umano e romantico della sua storia, è come il ciclismo di oggi nelle grandi gare a tappe, stia provando a riscoprire l'importanza dell'attacco "da lontano" per risolvere una corsa.

Quell'azione ci ha insegnato come solo provandoci hai la possibilità di lasciare il segno nella storia di questo sport. Ci ha dato una lezione importante, quanto mai banale, ma persa in questi anni fatti di calcoli e tattiche conservative.

Torna valido di colpo il più elementare dei paradigmi ciclistici: se attacchi vinci, se resti in difesa è difficile combinare qualcosa, o, più semplicemente, è difficile anche solo entrare nel cuore pulsante del ciclismo: quello del tifoso. E Caruso, insieme a Bilbao, intuendo l'attacco di Bardet e compagni, ci ha dato una magistrale lezione.

Vero che, si difenderà qualcuno, l'attacco oggi può essere un boomerang ai fini della classifica, visti gli squadroni e la velocità contro cui bisogna combattere; attaccare vuol dire mettere a repentaglio il placido benessere e la sicurezza acquisita, persino quell'orrendo valutare così importanti i punti UCI, ma quando hai gli uomini giusti a disposizione come nel caso della Bahrain, attaccare non è solo spettacolo fine a se stesso. Non è puro esercizio di stile, ma è lungimiranza, sagacia, è mostrare capacità di interpretare la corsa. È sfidare la monotonia dentro cui cadono spesso i Grandi Giri.
Dall'ammiraglia Bahrain hanno visto bene, prendendo rischi e lo hanno fatto sin dai primi giorni quando ancora potevano contare su Landa, Mohorič e Mäder. E l'attacco dopo il San Bernardino è stato solo l'apogeo del loro Giro interpretato come meglio non si poteva, nonostante le sfortune.

Il punto è: Caruso poteva starsene tranquillo, podio ben saldo e magari provare a vincere la tappa sull'ultima salita, perché no? Perché attaccare in discesa seguendo due ottimi discesisti come Hamilton e Bardet, rischiando magari pure di scivolare a terra sui diversi tornanti bagnati?

La risposta la si trova nella bellezza del ciclismo, nel fascino ritrovato in un'azione partita da lontano che in un attimo cancella la calma apparente di una tappa altrimenti dal copione già scritto.

Si è mosso da lontano, impulso già vissuto in questo 2021 con altri protagonisti, o come tra Vuelta 2019 e Tour 2020 lo ha fatto senza timore Pogačar. Si basa su questo ideale l'attacco di Froome nel 2018. È con quell'azione che Froome è entrato nel cuore dei tifosi, più che con il suo nome scritto per quattro volte nell'albo d'oro del Tour.
Sembra così assurdo esaltare – a prescindere dalle storie di contorno - un attacco a 50 km dall'arrivo dell'ultima tappa di montagna, ma siamo stati abituati, in questi anni, a spettacoli deplorevoli in tal senso. A lunghe attese svanite in una nuvola di fumo. Diversi Tour de France ne sono l'esempio.

D'altra parte è quello che abbiamo visto fare a Yates e alla sua squadra che hanno preferito stare nascosti, salvo poi dare una mano veloce alla Ineos tra San Bernardino e Splügenpass. Viste le difficoltà di Martínez in discesa c'era la seria possibilità di provare a isolare Bernal, ma invece, per loro, è stata un'occasione persa. Poi certo: per attaccare servono le gambe oltre che il cuore.

Per il racconto (romantico) allora è stato meglio così: magari con ulteriore bagarre da dietro non ci saremmo goduti quegli ultimi chilometri di Caruso contro tutti, di Caruso spinto dal pubblico, di Caruso che vince facendoci vivere una giornata indimenticabile. Facendoci riscoprire per una volta il fascino dell'imprevedibilità perso nelle stagioni dei Grandi Giri: un altro insegnamento che ci hanno dato Caruso e il nostro amato ciclismo. Sperando che non resti solo una splendida eccezione, ma la strada da battere in barba a watt, calcoli, punteggi e piazzamenti. A volte quando si azzarda, si corre persino il rischio di vincere.

Foto: Bettini


Quello che Bernal insegna

Forse ciò che più ci resterà della vittoria di Egan Bernal al Giro d'Italia sarà tutto quello che questo ragazzo di Zipaquirá, in Colombia, è stato in grado di raccontare. Qualcosa che smuove una riflessione non tanto o non solo sul ciclismo, quanto sul modo di vivere e di pensare a cui siamo abituati. Perché, ne siamo convinti, dalla vittoria di Bernal, dal modo in cui è maturata, dalle origini della sua storia, è davvero possibile imparare qualcosa per la quotidianità di ciascuno di noi.

Qualcosa che abbia, per esempio, a che vedere con gli stimoli quotidiani e l'entusiasmo. Non è strano e nemmeno raro: il tempo assopisce in molti l'entusiasmo, anche i successi più importanti, piccoli o grandi, si trasformano in normalità. Accade a tutti, il punto è accorgersene e magari contrastarlo. Spesso si accetta come inevitabile. Ciò che dice Bernal racconta la volontà di rifuggire questa abitudine.

«La vittoria al Tour de France è stata inaspettata, ma il difficile è arrivato dopo. Quando ti accade qualcosa di simile, di tanto grande, così giovane, tendi a sederti, non smetti di fare il tuo lavoro ma lo normalizzi, perdi quella spinta, quella grinta. Come se il meglio fosse già passato. Io ho continuato a puntare la sveglia al mattino presto, a stare attento all'alimentazione, ad uscire per gli allenamenti, però ero come anestetizzato. Avevo perso quella fame, quell'entusiasmo che era alla radice della mia scelta di pedalare. Avevo vinto qualcosa di importante, certo, ma avevo perso qualcosa di ancora più importante».

La soluzione non è immediata e neppure di facile applicazione. Perché per entusiasmarti devi tornare indietro, devi tornare a fare ciò che facevi quando non eri un campione, ma un ragazzino qualunque. «Dave Brailsford mi ha aiutato a capire. Ha tolto quella zavorra che mi pesava sul petto. Siamo stati insieme a Monaco e abbiamo parlato molto. Mi ha detto che aver vinto il Tour non doveva significare la fine del divertimento. Mi ha detto che avrei dovuto fare come avevo sempre fatto. “Se hai voglia di scattare in pianura, scatta. Non vai da nessuna parte? Non deve interessarti. Se scattare in pianura ti fa felice, perché devi impedirtelo?”. Noi due sappiamo bene che il merito di questa vittoria è anche suo».

E restituire, restituire sempre ciò che ti ha portato fino a lì. Con i fatti, non con le parole. «Potrei dire molte cose di Felipe Martìnez, l'ho già ringraziato e lo ringrazierò ancora. Ma lui ha fatto qualcosa in più, lui ha messo del proprio sulla strada per fare in modo che oggi su quel trofeo ci fosse il mio nome. Io non posso limitarmi a parlare, devo fare lo stesso. Voglio ricambiare sulla strada ciò che Felipe ha fatto per me. Voglio aiutare Felipe a vincere qualcosa di grande. Ad essere felice come lo sono io oggi».

Paolo Alberati, primo scopritore di Bernal, qualche giorno fa ha raccontato che crede che Egan voglia vincere la Vuelta e poi tornare in Colombia a fare il giornalista e a lottare con le parole contro le ingiustizie del suo popolo. Bernal non lo nega, ma dice qualcosa in più. «Certo, dopo il Giro ed il Tour, la Vuelta sarebbe il traguardo massimo. Adesso, però, sto pensando che quando questo sarà avvenuto mi piacerebbe tanto provare a essere felice nella mia terra. Stare con i miei cani, le mie galline e la mia mucca. Stare con i miei genitori e la mia ragazza. Vivere delle cose semplici che fanno bella la vita. Molti credono che per essere felici sia necessario raggiungere chissà quali traguardi, magari diventare campioni o diventare famosi. Io penso che serva davvero poco per essere uomini e donne felici. Vorrei dirlo a tutti e penso che a tutti serva ricordarselo. Ne va della vita».
Foto: Luigi Sestili


Un lampo, una rosa, un saluto al Giro

Ciao Giro, come sei arrivato, purtroppo, te ne vai. Un privilegio raccontarti: con il tuo epos, i tuoi colori, le tue imprese e i colpi di scena che anche oggi non sono mancati, tra la caduta di Cavagna, la foratura di Ganna, l'incidente sfiorato da Sobrero.

Ti rendi conto di quanto il tempo passa in fretta? Tre settimane sono volate via e ci hai fatto soffrire ed emozionare. Gioire, inveire, arrabbiare persino.

Sadico e benevolo, ti abbiamo maledetto per quelle tappe noiose, ci hai fatto spaventare quando abbiamo visto De Marchi a terra, o Mohorič volare in aria. Ci hai fatto tifare per Taco e per Nizzolo. Ci hai fatto spingere per i fuggitivi e storcere il naso per quelle (troppe) fughe arrivate al traguardo.

Ci hai fatto aguzzare l'occhio per cercare i nostri beniamini in gruppo, ci hai fatto contare il tempo che passava in salita tra un corridore e l'altro, come quando da bambini si calcolavano i secondi tra il lampo e il tuono, durante un temporale.

Ci hai fatto viaggiare con la fantasia facendoci conoscere luoghi da piazzare sulla mappa, salite nuove o leggendarie, discese, sterrati e tornanti. Ci hai fatto chiacchierare sulla forma dei corridori e disquisire sulle tattiche di squadra. Abbiamo avuto freddo e caldo, ci hai fatto imprecare il giorno del Giau; abbiamo conosciuto storie e alcune abbiamo provato a raccontarle.

Hai condotto 184 passeggeri e alla fine ne sono rimasti 143. Ti sei fatto portavoce della voglia di evasione di Marengo e Tagliani, Pellaud e Zoccarato, De Bondt, Rivi e tanti altri.

Ci hai donato luminose maglie rosa, che raccontano, ognuna di loro, una storia degna di essere tramandata: quella ambiziosa di Ganna, quella fugace di Valter, quella significativa di De Marchi, premio alla carriera, quella duratura di Bernal, consacrazione.

Ci hai fatto applaudire la gioventù di Covi, Schmid, Affini, Oldani, Lafay, Mäder, Sobrero e Fortunato, hai fatto riemergere Consonni, Battistella, Ulissi e Albanese, hai mostrato i muscoli di Bettiol, la lucida follia di Vendrame, ti abbiamo visto passare così velocemente sulla strada che abbiamo maledetto come sempre il tempo che passa.

Sei stato appuntamento fisso: per le vie e dentro i borghi, in tv e al telefono, al confine, in riva al mare o in cima alla montagna.

Ci hai fatto sbadigliare e innamorare, ci hai riempito gli occhi. Ci hai stregato e ogni tanto ci hai fatto prendere la mano, e se abbiamo esagerato ti chiediamo scusa per averti raccontato con qualche eccesso di retorica e un pathos incontrollabile sfociato in esaltazione dei buoni sentimenti.

Ci hai strappato sorrisi e mostrato talento, quello di Bernal, oggi vincitore finale, quello di Ganna, oggi vincitore di tappa e ogni giorno di fianco al suo capitano a scherzare per alleggerire il carico, a farsi serio per trascinare il gruppo per chilometri.

Ci hai mostrato cadute, risalite, rinascite. Ci hai dato l'ebrezza di Caruso e la grinta di Almeida. Hai cosparso tutto di neve e avvolto di nebbia. Ci hai mostrato coraggio e fantasia, abnegazione e sofferenza, sagacia e umiltà.

Sei stato, come spesso accade, un magnifico compendio strapaesano, metafora di viaggio all'italiana e di vita. Sei stato semplicemente Giro: il miglior compagno d'avventura possibile. Arrivederci all'anno prossimo, Giro, amore, nonostante tutto, infinito.

Foto: Luigi Sestili


Il valore di Damiano Caruso

Ieri era tutto nelle gambe di Damiano Caruso. Per esempio, c'era la storia del padre che, senza lavoro, nell'estate del 1984 fece parte della scorta del giudice Giovanni Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, a soli diciannove anni, per un milione e duecentomila lire, i nostri seicento euro. In una Sicilia dura, aspra, rigida. Ma gli uomini passano, diceva Falcone, restano le loro idee che continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. Così il problema non erano i seicento euro al mese, ma la volontà di dare un esempio al figlio, un esempio che gli facesse strada. Per questo ancora oggi il padre gliene parla con orgoglio, con fierezza.
E Damiano Caruso ha capito ed ha sempre voluto essere uomo prima che ciclista. «Quei valori ho cercato di portarli con me nel tempo, anche quando è stato più difficile. Per questo penso che questa vittoria sia per me, perché nessuno può capire cosa ho passato per essere qui, tutti i sacrifici che ho dovuto fare. Perché certe cose le ho provate io, le so solo io». Caruso che ha spiegato quel gesto, quella pacca sulla spalla a Pello Bilbao, meglio di chiunque altro. Perché quella pacca sulla spalla parla di ciò che ha vissuto. Del coraggio che un uomo si sente di fare ad un altro uomo, come lui, anche se ieri sembravano così diversi Damiano e Pello.
«Gli ho dato quella pacca perché so cosa si prova a fare ciò che ha fatto Pello. Lo so perché l'ho sempre fatto io, perché magari ho vinto da campione ma non mi sento un campione. Pello non è il vecchio Caruso, come qualcuno ha detto. Io e Pello siamo uguali ed io ho vinto perché c'era Pello».
Caruso che rifugge ogni forma di retorica: «Non c'è molto da dire. Ho semplicemente corso per vincere perché quando sei un professionista o sei al servizio della squadra oppure devi provare a vincere». Non senza dubbi, ma i dubbi sono tipici della scelta ed anche Caruso ne ha avuti: «Quando siamo rimasti davanti mi sono chiesto se fosse la cosa giusta da fare, poi mi sono risposto che non mi interessava, che avrei continuato a prescindere da tutto. Fosse andata male, sarei stato il Damiano Caruso di sempre».
E agli uomini non fa male il dovere, mai. «Ai ciclisti fa male la pressione, agli uomini fa male la pressione. Poche cose pesano di più. In queste tre settimane ho dovuto imparare a gestirla e così farò anche domani. Non dovrò pensare di essere al Giro, dovrò solo pensare a dare tutto quello che mi è restato. Non avrebbe senso nulla di diverso». Lui, quello che sta accadendo adesso, ha iniziato a pensarlo dopo la tappa di Montalcino quando qualcuno gli ha detto: «Perché pensare solo ad una tappa e non alla classifica? Io credo tu possa centrare entrambe». Così è tornato in sella da capitano, schivando le illusioni, ma essendo certo del fatto che, anche con i piedi per terra, si possa credere in qualcosa di grande e provare a realizzarlo.
Damiano Caruso è padre e ha detto che questa storia vorrebbe raccontarla al figlio. Noi raccontiamo questa storia per Damiano e per tutti coloro che nella vita sono un poco come Caruso. Sono uomini di fatica e di sudore che non hanno la stessa risonanza di un ciclista che centra il podio al Giro, ma che sanno le stesse cose e in quel mese in cui ottengono un piccolo successo sul lavoro, tornando a casa, lo raccontano ai propri figli. Fieri di tutta la fatica che hanno fatto, dritti per la propria strada


Abbagliati da Caruso

Lo abbiamo spinto, lo abbiamo tifato, qualcuno si è commosso. Abbiamo fatto i conti come ragionieri sul suo vantaggio, ci siamo riempiti il cuore come adolescenti innamorati. Un ultimo atto meraviglioso. Da impazzire. «Credo di essere l’uomo più felice del mondo» ha detto a fine tappa. Protagonista di un indimenticabile pezzo di teatro andato in scena: Damiano Caruso.
Dalla discesa del Passo San Bernardino in poi, due ore di Ciclismo. Il giorno del coraggio, oggi, in sella a una bicicletta, il mestiere di Caruso. Interpretato da chi è sempre stato il più forte tra i compagni di squadra, uno che fatichi a chiamarlo gregario se solo non sapessi che gregario è un mestiere nobile. In scia a Pello Bilbao, fedele scudiero, seguendo traiettorie bagnate, pennellandole con giusto tempismo e senza mai rischiare. Oggi è suo il palcoscenico. Oggi è sua la giornata. Oggi è suo il nome sul manifesto. Pazienza per Bernal, ne abbiam parlato, ne parleremo.
Tornanti su tornanti e intorno neve. Montagne e valli che riempiono gli occhi e selezione prima da dietro, poi sparpaglio. Strada viscida e poi asciutta, sole che si alterna a una sottile pioggerellina. Poche persone e a un tratto tifo da stadio. Gente che sembra perdere la ragione disseminata ovunque nel finale verso l'Alpe Motta.
La curva a 1,5 chilometri dalla fine presa a tutta che per un attimo abbiamo temuto come tutte quelle persone lo potessero far cadere, e invece era solo pronta a inghiottirlo di urla e gioia che esplodeva nel vedere un italiano davanti. Nel vedere Caruso lì davanti. Oggi la sceneggiatura prevedeva il lieto fine.
Dietro, l'inseguimento di Castroviejo e Martínez fondamenta su cui si basa il Giro di Bernal. Il vantaggio che scende chilometro dopo chilometro: che importa ormai se quella maglia resterà meritatamente sulle spalle del colombiano. Oggi è il giorno del coraggio, il giorno di Caruso.
Il giorno del suo sigillo, terzo in carriera, il più importante. «Sono sicuro che prima o poi la vittoria arriverà - diceva tempo addietro- ci sarà una giornata in cui potrò giocarmi le mie carte e sarò il più forte. Ne sono sicuro». Quella vittoria è arrivata, voluta, cercata, inventata. Intuizione improvvisa sua e della sua squadra. Oggi è stato il migliore.
La pacca sulle spalle quando Bilbao si sposta, nel momento decisivo di questo Giro: sineddoche del ciclismo. Nel momento decisivo della sua carriera, Caruso pensa bene di perdere mezza pedalata, un po' di fiato, per ringraziare il suo compagno. Sì, è così che si fa.
Un nuovo Caruso? Nemmeno a pensarci, figlio dell'umiltà, Caruso ciclista. Lui che ha scelto di restare a vivere in Sicilia perché: «è difficile abbandonare ciò che si ama».
Comunque vada, ci siamo detti a un certo punto temendo venisse ripreso, è un gran Caruso. Sfoderiamo senza vergogna i superlativi. Esageriamo, gonfiamoci di retorica, oggi va così. Ammirati lo ringraziamo per questo giorno. Per aver provato a ribaltare il Giro lui che così vicino non c'era mai arrivato se non forse in quei sogni di quando si è bambini. All'arrivo indica se stesso: "Caruso sono io" sembra dire con le dita che battono sul petto.
"M'illumino di Pantani" scrisse Gianni Mura un giorno, e non crediamo di fare torto a nessuno se ci siamo illuminati di Caruso. Gregario sempre, ma da oggi anche campione.


Domani finisce il Giro

Comunque vadano le cose tra oggi e domani, il Giro fra poco più di ventiquattro ore sarà terminato. Spiace perché, alla fine, al Giro vanno tutti appena se ne presenta l'occasione, perché nel Giro si ritrovano tutti pur non conoscendosi e magari non condividendo nulla fino all'istante prima. Forse intendeva questo chi disse che ad una corsa ciclistica puoi anche andare da solo, ma, in fondo, non sarai comunque solo.
Noi, però, oggi vogliamo parlarvi delle persone a cui forse spiace di più. Vogliamo parlarvene perché ieri, a Scopello, osservavamo spensierati il fatto che tre settimane siano passate in fretta, quando un signore, guardandoci, ci ha detto: «Forse voi non vi rendete conto di cosa significa tutto questo. Forse non capite quanto sia importante per molte persone». Effettivamente non abbiamo capito subito quello che intendeva, ma sono bastate poche parole perché tutto fosse chiaro. «A me il Giro ha sempre fatto questo effetto, mi ha sempre fatto dimenticare tutto ciò che non andava. Forse devo sottopormi ad un'operazione, nulla di particolarmente grave, ma pensarci è inevitabile. Fino ad adesso ho avuto la certezza che per qualche ora al pomeriggio ho potuto far finta di niente. Da lunedì non più. Quando me lo hanno detto, ho pensato: “Vedremo dopo il Giro!”. Ora che il Giro è passato dovrò pensarci seriamente. Non potrò nemmeno più dire: “Lasciami finire di vedere la tappa e poi ne parliamo”. Sì, forse non avete la percezione di quanto sia importante per tante persone».
Chissà, forse davvero non lo avevamo capito, oppure, semplicemente non lo avevamo mai visto così chiaramente perché nessuno ce lo aveva parato davanti agli occhi con tanta lucidità. Ma, in effetti, è proprio così. Il Giro, per molti, è solo l'occasione buona per dimenticare qualcosa, per non pensarci per qualche istante o semplicemente per una boccata d'aria fresca. Già, perché poi gli esempi sono tanti e tutti diversi, ma in queste tre settimane di storie così ne abbiamo incrociate molte.
Pietro Algeri, giusto qualche giorno fa, ci diceva che la cosa che più lo sorprende, anche dopo quaranta Giri d'Italia resta la pazienza della gente che aspetta ore per vedere qualche secondo. E quell'attesa, ci ha spiegato Algeri, è, in realtà, la cosa che più piace del ciclismo perché non possono essere solo quei dieci secondi a rendere felici tante persone, deve essere quello stato di euforia che le butta giù dal letto di prima mattina il giorno in cui passa il Giro, anche se mancano ancora ore e potrebbero continuare a riposare. Lo fanno perché stanno aspettando qualcosa che arriverà e questo le rende così serene da essere in grado di lasciare da parte i problemi fino a che quella scia non sia passata.
Perché sai che il tuo bar, dopo tanti mesi di chiusura, tornerà a essere come una volta, come quando «di lavoro se ne aveva anche troppo».
Perché l'infermiera dell'ospedale ti ha accompagnato in sala dove tutti stanno guardando la corsa ed a te è sembrato di essere ancora a casa. Perché col passare degli anni tutte le case si svuotano un poco e bastano quelle voci in televisione per tornare a immaginarle piene, con i bambini che giocano nel prato. Perché maggio è sempre stato così, sin da quando andavi a scuola e rimandavi lo studio della storia o della geografia al termine della tappa e poi finivi a studiare di notte.
Sono loro le persone a cui pensiamo stamani, quelle che temono la fine del Giro perché non gli è rimasto più nulla da aspettare. Perché aver qualcosa da aspettare può davvero aiutarti. Che sia un'altra tappa o un altro Giro.

Foto: Luigi Sestili


Tutte le facce della salita

La tappa di oggi è in quel gesto dei corridori annunciato ieri sera: la decisione di devolvere i premi di giornata per sostenere le vittime della tragedia della funivia di Stresa. Azione brillante, da sottolineare.
E poi all'improvviso è tutta negli ultimi 6,5 chilometri che portano al traguardo dell'Alpe di Mera, quando Almeida la innesca, macinando il rapportino, tirando fuori la lingua come un cagnaccio assetato. Perché la salita quando è vera salita non ti permette di bluffare, ti leva la maschera, ti strappa di dosso quella corazza che fino a quel momento usavi per celare ogni sensazione.
La tappa di oggi si risolve nell'attacco di Yates, poco dopo, che riprende Almeida lo lascia lì a cercare i suoi perché e si invola verso il successo. Impassibile, col cerotto sul naso, dal busto in su pare la riproduzione in scala ridotta all'osso di un colosso di pietra. Uno dei suoi tecnici lo aveva detto: «Yates uscirà fuori nella terza settimana», una precisione così, vista di rado.
La tappa di oggi è negli sguardi di Bernal. Quando vanno via Yates e Almeida sembra finita, ma in realtà gestisce. Castroviejo e Martínez gettano litri di sudore per lui e si infiammano per aiutarlo, senza atti plateali stavolta. Bernal pare uno straccio inizialmente, poi lo sguardo si incattivisce e mira dritto verso il tornante successivo. Torna in sé fin quando, tagliato il traguardo, lancia sorrisi e occhiolini.
La faccia di Caruso è quella di chi è a due tappe da qualcosa difficile da spiegare e che non diciamo. Perché per "un gregario grande così" , come scrisse una volta qualcuno parlando di lui, quello che sta facendo è incredibile. «Ho trentadue anni e non sono così vecchio. C’è ancora qualche cartuccia da sparare» si raccontava tempo fa. Lui che sosteneva e pensa ancora che «un capitano vince soltanto se ha una squadra forte che lo aiuta, che lo scorta, che lo protegge. I gregari migliori devono andare forte quasi quanto il capitano, altrimenti nei momenti decisivi quest’ultimo rimane da solo». Lui, gregario, che si è ritrovato capitano dopo che Landa ha visto infrangere i suoi sogni sull'asfalto.
La faccia di Vlasov è quasi indecifrabile, forse sono quei tratti leggermente orientali o l'accento con inflessioni lombarde, fatto sta che, come lo leggi? Risponde agli attacchi, poi cede, poi barcolla, poi rimonta: se qualcuno ha preso i tempi negli ultimi chilometri forse scoprirebbe che alla fine Vlasov è stato persino il più veloce.
La tappa di oggi è nella prepotenza della pedalate finali di Almeida, sì sempre lui, quello delle boccacce, quello che non molla mai cascasse il mondo, quello che lo scorso anno ha vestito due settimane la rosa e che qui pareva solo in soccorso di Evenepoel. Ancora una volta maledice un traguardo che si avvicina troppo presto o forse le sue gambe che si risvegliano troppo tardi.
La tappa di oggi è in Foss che non si vede mai da doverti immaginare i suoi connotati, eppure è sempre lì, oppure in Covi, oggi 13° dopo tutto quello che di buono ha combinato al Giro a suon di fughe: il futuro per lui assume un nuovo significato.
La tappa di oggi è nella salita finale che Jacky Durand aveva descritto come simile all'Alpe d'Huez: non c'entra nulla, caro Durand, ma è sentenza vera. Perché al Giro puoi bluffare, puoi provare a nasconderti per non farti prendere, ma non puoi far nulla davanti alla forza di un'ascesa e a tutte quelle facce che ti costringe a mostrare.

Foto: BettiniPhoto


Dopo la fine c'è sempre un nuovo inizio

Nella vita di un corridore sono più i giorni tristi che quelli felici, si dice spesso, lo raccontava ieri anche Davide Cassani. Sono più le cadute che la gloria, le sconfitte che le vittorie, e una corsa di tre settimane è un compendio di rinascite e cedimenti, ascese e tonfi, di insegnamenti, motti e morali. È un viaggio che, quando giunge al termine, ne fa iniziare un altro. È una tappa che riparte, una nuova corsa che ti aspetta in calendario, una nuova idea da far diventare aspirazione.
Arrivi in fondo e c'è una fine che ti spinge verso un nuovo inizio: quando termini un cammino, vedi la luce in fondo al tunnel, completi un progetto, giungi in cima a una salita; persino quando raggiungi uno scopo e ti poni altri limiti. Quando spingi e vedi la linea del traguardo e poi la tagli sai che il viaggio al termine del giorno ti darà altro a cui aggrapparti, poi altro ancora. Ciclo della vita, sequenza da decifrare. Per ripartire, per provare a rinascere.
Per Remco Evenepoel e Giulio Ciccone ieri, il viaggio al Giro 2021 è terminato: non c'è stata una diciottesima tappa. Una curva a gomito il giorno prima con corridori che si disperdevano sull'asfalto, e giù per terra Ciccone, sul guardrail Evenepoel.
Questo Giro per loro è stato l'inizio, idea di ascesa verticale verso la gloria, un traguardo dopo l'altro da tagliare, fatica mascherata da proclami, gioie che si mescolavano a dolori, dopo un 2020 di quelli da strapparne le pagine e dargli fuoco. Infortuni gravi, drammi familiari, e sulle strade italiane la convinzione che la loro ricerca sarebbe ricominciata.
E Remco filava a questo Giro. Filava nei primi giorni tanto che c'è stata una tappa, quella con arrivo ad Ascoli, dove tutti pensavamo che il ragazzino belga dal motore che scomoda paragoni indicibili, avrebbe persino vestito la maglia rosa - semplice errore di calcolo. Poi a Campo Felice qualche pedalata da dietro, a Montalcino la crisi nervosa, sullo Zoncolan gli scricchiolii, poi Giau e infine Passo di San Valentino, martirio e dolore.
La caduta in discesa: sofferenza in un gomito gonfio come una mela acerba; il dolore: nessuna frattura per fortuna e la tappa portata a termine perché Remco non è solo sacro talento, ma un leone che si batte fino alla fine. Volevano fermarlo già il giorno prima, ma lui è ripartito, testardo, cosciente dei propri mezzi, voglioso di rinascere. L'altro ieri una sorta di oblio rotto solo da quell'immagine che lo vedeva tagliare il traguardo con una smorfia che esprimeva dolore fisico, palesava quello dell'anima. «Lo abbiamo spinto fino al traguardo - racconta Keisse, che di anni ne ha 18 in più e divideva la stanza con lui a questo Giro - aveva così tanto dolore che non riusciva a tenere stretto il manubrio». La prima vera batosta di una carriera che sin qui lo ha visto brillare come un genio delle arti a cui tutto riesce così bene. E ieri Remco non è partito, così come Ciccone.
È salito sul palco firme, Ciccone, poi nulla da fare. Anche l'abruzzese i primi giorni fulgeva, saltellava con quelle gambe nervose e tirate, sorprendeva scalando la classifica, poi una brutta botta, la febbre e una notte insonne. Infine il ritiro. Per entrambi tutto si è fermato tra Sega di Ala e Rovereto. Per entrambi tutto ripartirà con una nuova convinzione.
Per entrambi una fine anticipata in corsa, espiazione di chissà quale peccato. Ma negli occhi una scintilla. La prossima corsa arriverà presto e con quell'aria da leoni che entrambi si portano dietro è facile immaginarceli presto già di nuovo competitivi, o comunque in sella, per una rinascita che sa di rivincita. Perché a ogni fine fa seguito sempre un grande inizio e questo Giro d'Italia gli ha insegnato qualcosa anche (o soprattutto) nell'amarezza della sconfitta.

Foto: BettiniPhoto