Di lezioni e umiltà: intervista a Giovanni Visconti

 

Era il 2007 e Giovanni Visconti era a Stoccarda con la nazionale italiana di Franco Ballerini. In quel gruppo, che pochi giorni dopo avrebbe vinto il Mondiale, Giovanni era riserva assieme a Vincenzo Nibali. Ad un certo punto Danilo Di Luca lascia il ritiro. Nella testa del siciliano scatta qualcosa: «Volevo correre ed in quel momento ero veramente convinto che il “Ballero” mi avrebbe chiesto di entrare in squadra». Franco Ballerini la pensa diversamente e quella sera telefonò a Matteo Tosatto. Il “Toso” sta guidando verso l’Oktoberfest ma al richiamo della Nazionale non può che rispondere presente. Visconti e Nibali non se l’aspettano. «Sono abbastanza permaloso, “musone” direi. Negli anni ho migliorato questo aspetto ma questo continuo rimuginare mi ha molto condizionato durante la mia carriera. Quella sera ho reagito male ed il giorno dopo, in allenamento, non andavo proprio. Stavo in fondo al gruppetto dei miei compagni, con la testa bassa. Come un cane bastonato. Non parlavo più con nessuno, non salutavo nemmeno Franco. Pensa che io e Franco eravamo come fratelli: da bambino, a casa sua, mi aveva regalato il casco e gli occhiali della Roubaix. Quello, però, per me era un affronto. Non riuscivo a digerirlo».

Franco Ballerini si accorge di questo stato d’animo di Giovanni e gli si affianca in allenamento. «Visco, stai rompendo. Ora basta. Levati sto muso e vai davanti a menare. Vuoi la verità? Se non avesse corso Tosatto, avrei fatto correre Nibali. Quindi evita queste scene». La lezione è pesante, Giovanni Visconti racconta di avere i brividi ancora adesso a pensarci, ma allo stesso tempo in quel giorno c’è un bagaglio da custodire. «L’umiltà. Le batoste servono per questo, ti fanno tornare con i piedi per terra. Quando sei giovane devi dimostrare e devi farlo con umiltà. Il tuo tempo arriverà. Prima però c’è bisogno di pazienza e voglia di imparare: la fame di apprendere. Ho vissuto tre generazioni del ciclismo e quando vedevo correre Boonen, quando gli correvo accanto, ero felice per il solo fatto di essere al suo fianco».

Ora, forse, il ciclismo, corrisponde un poco meno a Visconti sebbene Visconti corrisponda perfettamente al ciclismo. Sono cambiate tante cose, forse troppe. «Qui, in Bardiani, non manca nulla e non è assolutamente scontato. Scherzando dico sempre che il primo che si lamenta prende due schiaffi. Voglio essere sincero: sento di poter ancora far bene, sento di poter ancora vincere. Non sarei qui altrimenti. L’altra missione è quella di stare accanto ai giovani, di aiutarli. Ci sono tanti giovani molto promettenti in Bardiani. Credo che la mia esperienza potrà aiutarli. Certo, dovranno ascoltarmi e con i giovani di oggi non è sempre facile».

L’analisi va in profondità e Visconti tocca due punti importanti: la mentalità dei giovani e quella del mondo che li circonda. «Non è solo colpa loro, ci mancherebbe. Secondo me negli ultimi anni sono saltati alcuni passaggi. Tanti ragazzi quando arrivano al professionismo si sentono già ciclisti navigati. Credono di non avere nulla da imparare, non ti ascoltano. Sanno che io metto a disposizione tutto quello che so, l’esperienza serve a questo, altrimenti sarebbe inutile. Però devono avere la curiosità di venirmelo a chiedere e l’umiltà per provare ad ascoltare. In parte sono io a dovermi adattare a certe cose che sono cambiate nel tempo, in parte loro a dover capire che il ciclismo non è tutto qui. C’è una storia del ciclismo, c’è un passato. Perché non vogliamo riconoscerlo?». La storia di cui parla Giovanni è una storia radicata nella pelle, una storia di vento, decisioni ed anche errori. Una storia di sensazioni. «Il tuo corpo comunica. Ci sarà un motivo per cui ti senti stanco piuttosto che carico. Non dico di ascoltare solo le sensazioni, bandendo la tecnologia. Dico di abbinare le due cose. Se un giorno non stai bene, è meglio che non ti alleni. Che fai qualche chilometro in meno, altrimenti è controproducente. Non muore nessuno, non cambia nulla. Sai cosa accade in realtà?».

Il nostro sguardo incrocia quello di Giovanni e lui ricomincia a parlare. «I ragazzi hanno paura di non seguire alla lettera ogni minimo consiglio dei preparatori. Devono avere tutto scritto, in ogni dettaglio. Non è più ciclismo questo, sono telecomandati. Io lo dico sempre: “Ma il preparatore vi restituisce i soldi se non raggiungete i risultati che volete?”. Discorso analogo vale per i procuratori. Siamo noi a pagarli e loro sono “al nostro servizio”. Possono indicarci una via, ma quello che è meglio per il nostro fisico dobbiamo iniziare a saperlo noi. Un domani vorrei fare il preparatore per provare a cambiare questa realtà. Sia chiaro, non tutti i preparatori ragionano così ma alcuni sì. E i ragazzi di conseguenza hanno timore a fare un giro più tranquillo e a fermarsi a prendere un cappuccino prima di tornare a casa. Se saltano un passaggio sulla tabella, vanno in panico. I ritiri dovrebbero servire anche per fare bagarre, per fare gruppo, per stare con i compagni. Alcuni preparatori assegnano il loro lavoro da fare durante i ritiri. Non esiste. Sai cosa è accaduto? Nel ciclismo, con il World Tour che era un bene all’inizio, ora forse meno, è arrivata tanta gente che lavora esclusivamente per lo stipendio. Senza passione».

Giovanni Visconti in azione durante il ritiro con la sua squadra a Benidorm (Foto: Paolo Penni Martelli)

Senza peli sulla lingua, argomento dopo argomento. Giovanni Visconti lo dice chiaramente: «Io sono fatto così. Magari risulto antipatico, ma mi sento libero. Forse alcuni preferiscono i mezzi discorsi. Io credo che la chiarezza sia un valore». Certi discorsi non sono casuali, provengono da ciò che hai dentro, dalle difficoltà che hai vissuto, dai mostri che hai vissuto.

Marco Pastonesi, quando Giovanni Visconti vinse sul Galibier al Giro d’Italia 2013, scrisse che Giovanni aveva vinto sul mostro perché il mostro lo aveva dentro. Ora Giovanni può parlare di quel mostro. «Ho sofferto di attacchi di panico. Un’esperienza bruttissima da cui non riuscivo a liberarmi. Era quello il mostro che avevo dentro. L’anno prima mi ritirai ed in ambulanza mi dovettero tenere l’ossigeno perché non riuscivo più a respirare. Anche nel giorno in cui ho vinto ho avuto un attacco di panico. Quando il tuo malessere viene da qualcosa di mentale, di psicologico è tutto più complesso. Fai fatica anche a spiegarlo e in pochi lo capiscono. Però, vedi come funziona la testa? Dopo quella vittoria mi sono sbloccato. Due giorni dopo sono tornato a vincere a Vicenza, forse la vittoria più bella di tutta la carriera. Non sai quanti affrontano periodi simili. Quando ci sei dentro è bruttissimo».

Sono quegli stessi mostri a restituirti empatia, capacità di comprensione e di unione. A Giovanni Visconti è da tutti riconosciuta la capacità di fare gruppo e quella capacità è annodata a doppio filo con queste vicende. «Ti rendi conto di tante cose. Del rispetto dovuto ai collaboratori, allo staff, di quanto ogni piccolo gesto li renda orgogliosi, cementi il rapporto e permetta a tutti di stare meglio. Basta un semplice grazie per ciò che fanno per noi. Basta un vassoio con quattro pasticcini ed un caffè. Certe volte una birra ad un meccanico mentre sistema le biciclette. La differenza passa per questi gesti».

Qui si entra in un altro campo e Giovanni Visconti è deciso. «Ad alcuni campioni manca la riconoscenza. C’è troppo egoismo in certe situazioni. Tu come campione hai gloria, soldi, fama. Agli altri cosa resta? Se tu arrivi dove arrivi è anche merito della squadra. Nella vita, prima che nel ciclismo, bisogna riconoscere chi ci aiuta e ringraziarlo. A me forse sono mancate altre cose ma le squadre le ho sempre unite. Forse per le mie origini. Io vengo dal basso, in tutti i sensi. Dalla Sicilia, da Palermo. I viaggi nascosto in macchina li ho fatti davvero, ho conosciuto il nulla e ci ho combattuto per provare ad essere quello che vedi oggi».

Giovanni Visconti in carriera ha vinto tre volte il campionato italiano (Foto: Paolo Penni Martelli)

Cos’è Palermo per Giovanni Visconti in un pomeriggio di gennaio a Benidorm? «Sono io, è tutto quello che vedi in me. Nel mio modo di parlare, di fare. C’è sempre quella fame che mi monta dentro, quel desiderio di andare a lottare per prendermi qualcosa che ancora non mi sono preso. Questa cosa la conosci se cresci a Palermo, se provi ad emergere da Palermo. Per me Palermo è luogo di allenamento, di sacrifici, di rinunce. Per me Palermo è salita, è quella pasta che mi portavo a scuola, quella che mangiavo a ricreazione mentre i miei compagni uscivano a mangiare le pizzette. Lo facevo per uscire in bicicletta prima che facesse buio. Non conosco nient’altro di Palermo. Oggi per me la casa è in Toscana. Quando vado in Sicilia, dopo due, tre settimane, sento desiderio di tornare a casa. La Sicilia è stupenda, meriterebbe molto di più. Dalla Sicilia viene tutta la forza che ho avuto per costruirmi quello che mi sono costruito. La mia casa in Toscana ha fondamenta in Sicilia. Io sono un siculo-toscano. Palermo è stato il mio sacrificio».

Casa vuol dire famiglia e famiglia per Giovanni Visconti vuol dire figli. Quando pensa a casa, pensa a suo figlio. «Forse perché mi vedeva correre, da piccolo, ha iniziato a praticare ciclismo. Vedevo che non gli piaceva e quando ha smesso, ti dico la verità, sono stato contento. Quando ci sentiamo al telefono parliamo poco di ciclismo, parliamo di altro. Credo che lui vorrebbe smettessi. Ma è anche giusto, ha undici anni e desidera avere il papà vicino. Non me lo ha mai chiesto e credo non me lo chiederà mai ma non smetterei nemmeno se me lo chiedesse. Non per un capriccio. Non smetterei per il suo bene, per il suo futuro. La mia è stata una carriera da onesto lavoratore ma non ho avuto guadagni che mi consentano di mantenermi senza lavorare. Io continuerò fino a quando sarò in grado di fare bene, fino a quando mi sentirò bene».

Ancora Giovanni Visconti in azione insieme ai suoi giovani compagni di squadra (Foto: Paolo Penni Martelli)

Qui il discorso ritorna su una vena più intima e Visconti racconta delle sue chiacchierate col figlio. «Cerco di educarlo al valore del denaro. Gli dico sempre che per guadagnare si fa fatica, tanta, e molte persone lavorano tutto il giorno per guadagnare ben poco. Qualche anno fa, quando tutti si trasferivano a Montecarlo, sono andato lì con moglie e figli a fare un giro anche io. Come sono arrivato e ho visto la situazione in cui avrei dovuto vivere ho guardato mia moglie e le ho detto: “Via, andiamo subito via da qui”. Avrei dovuto vivere in un appartamento di cinquanta metri quadri, pagando fior di affitto, in mezzo alla finzione più totale. Non fa per me. Ho fatto i bagagli e me ne sono tornato a casa».

Fuori ormai è buio pesto, nonostante siano appena le otto. Giovanni Visconti sorride, sistema la felpa e riprende a parlare. «Ho trentotto anni e sono ancora qui. Sto facendo ancora il lavoro che ho scelto da ragazzino e lo sto facendo mettendoci tutto quello che ho. Ho fatto una vita sana, integra, consapevole. Le persone mi dicono che sembro più giovane, che in corsa sembro ancora un ragazzino e questo mi riempie di orgoglio. Certo, sono stato deluso. Ognuno di noi si fa male con la vita. Capita a tutti. Anche da questo versante, però, posso dirmi fortunato. Non erano delusioni troppo forti, troppo importanti, troppo pesanti. Visco è in sella, è questo che conta».
Foto: Paolo Penni Martelli


In fuga per nonno: intervista a Filippo Zana

Probabilmente Filippo Zana in quei giorni avrà chiamato più volte a casa. Chiamava e chiedeva: «Come sta nonno?». Succede quando qualcuno a casa sta male, tu sei lontano e non puoi vederlo. Non puoi sapere nulla, devi sperare che ti dicano la verità, che non ti mentano per «paura di farti star male» o «di farti preoccupare». A Filippo quella verità la dicono e Zana vuole tornare a casa. Allora dall’altra parte della cornetta aggiungono qualcosa: «Nonno vuole che resti lì».

Filippo Zana resta in corsa anche quando le parole sono macigni, anche quando gli dicono che nonno non c’è più. Per ricordarlo deve fare qualcosa, così alla partenza della sesta tappa parte. No, non per tornare a casa, per andare in fuga. «Se sono diventato un ciclista lo devo a mio nonno come lo devo ai miei genitori. Da piccoli abbiamo tantissimi sogni ma non possiamo portarli tutti sulle nostre spalle, così i grandi ci aiutano. Mio nonno è sempre stato il mio più grande tifoso. Lui seguiva il ciclismo e si illuminava alla sola idea che io potessi correre in bicicletta». Così Filippo Zana arriva al traguardo della tappa e scoppia a piangere; la fuga è stata ripresa ma oggi non importa, lì dentro c’era tutto ciò che quel giorno lui avrebbe voluto dire a nonno a parole. C’è riconoscenza nelle parole di questo ragazzo nativo di Thiene, agli albori della primavera del 1999: «Senza tutti i sacrifici dei miei genitori non sarei qui. se io sono quello che sono lo devo a loro. Pedalo da quando avevo sei anni, quanto mi hanno aiutato in tutto questo periodo?».

Filippo Zana ha iniziato a pedalare quasi per caso e per una volta non c’entrano le coincidenze familiari: a casa sono tutti appassionati di calcio, lui si definisce “una pecora nera” da questo punto di vista. «I miei genitori avevano un ristorante ed io giravo in bicicletta in quel cortile. Probabilmente quei metri li conoscevo a memoria. Li ripercorrevo continuamente e non mi stancavo mai. Un signore, vedendomi così tenace, così insistente su quei pedali, mi ha chiesto perché non provassi a iscrivermi alla squadra cittadina. Così è iniziato tutto». L’idolo di Zana è Marco Pantani, per ragioni anagrafiche non lo ha praticamente mai visto correre ma, negli anni ha recuperato molti suoi filmati perché aveva voglia di “conoscere” il Pirata. Quando gli chiediamo quale sia la cosa più importante che gli ha dato il ciclismo, Filippo risponde senza esitazioni: «Penso che mi abbia tolto molto. Correre in bicicletta vuol dire fare sacrifici, tanti sacrifici. Significa rinunciare a tante cose che magari vorresti. Attenzione, però, voglio essere sincero. Il ciclismo mi ha tolto tanto ma, come tutte le cose che vuoi, se prosegui senza arrenderti, ti restituisce tutto quello che si è preso. Sono felice di ogni sacrificio. Ogni sacrificio che faccio, lo faccio per la mia passione. anzi, per il mio lavoro».

E sorride, come a dire: “Ci sono riuscito. Sono un ciclista”. Quel crederci senza volerci credere, tipico di quando si è molto giovani o solo molto innocenti. L’innocenza bella, quella di chi non è ancora stato deluso o di chi sa come reagire alle delusioni. Forse nel caso di Zana si tratta della seconda opzione.

«Sono tre i punti fondamentali della mia carriera fino ad ora: le sconfitte, per un niente, al mondiale e all’europeo da junior e poi la vittoria a Capodarco. Lì è scattato qualcosa». Se pensa alla pianura, Filippo pensa al momento in cui recupera, in cui si lascia andare. Subito dopo alla sua mente affiora la noia. «La pianura sarà bella ma a lungo andare diventa noiosa. In salita fai più fatica ma c’è un’altra soddisfazione. Della discesa, invece, credo si abbia un’idea sbagliata: le problematiche non finiscono in vetta ai passi alpini. La discesa è un esercizio molto particolare, serve attenzione estrema e anche un poco di pazzia. Un minimo spericolati bisogna esserlo, altrimenti non vai. A me piacciono le tappe mosse, movimentate. Detesto il vento, quello sì. Che tormento quando soffia sulla strada. credo sia molto difficilmente immaginabile la fatica di quando corri controvento».

Quando si avvicina a Enrico Battaglin e Giovanni Visconti, Zana ha un poco di timore reverenziale ma anche tanta voglia di imparare. «Succede sempre quando sei accanto a qualcuno che ha più esperienza di te. Da chi vince puoi imparare a vincere ed io vorrei tanto vincere una tappa al Giro d’Italia. Quando si è giovani bisogna prestare attenzione a tutti, così si diventa grandi».

La passione di Filippo Zana per il ciclismo è tale che lui stesso ammette che, sin da ragazzo, non aveva un vero e proprio piano b. «Sono cresciuto sulla sella, non potevo immaginarmi altro di così bello. Nel tempo ti affezioni a tanti piccoli dettagli, tanti particolari. Io, per esempio, ricorderò sempre la prima vestizione della Bardiani. Quando prendi in mano la casacca e sai che sarà la tua. Mi spiego?».

Quella di Zana è una domanda ma anche una risposta. Come quando ci dice: «In inverno devo pur fare qualcosa, no? Mai fermarsi. Così vado a far legna nei boschi o cavalco. A casa, oltre ai cani, ho un cavallo e mi piace molto stare in mezzo alla natura con lui. Sarà per questo che ho studiato agraria. Sarà per questo che ho scelto il ciclismo».

Ad ogni parola un senso ed un peso. In bicicletta ci sono molte regole, nella quotidianità di Zana una vale più di tutte le altre: «Non sono un ragazzo che parla molto. Piuttosto mi piace ascoltare. se c’è da ridere e scherzare non mi faccio problemi, sia chiaro. Però non mi dispiace nemmeno stare da solo. La solitudine non mi spaventa. Soprattutto non mi piace parlare delle cose che non so, quando non so qualcosa mi metto tranquillo e ascolto. Credo sia l’unico modo per capire e conoscere. Sbaglio?».

Foto: Paolo Penni Martelli


Voler bene alla bicicletta: intervista ad Antonio Tarducci

Antonio Tarducci ricorda benissimo le mani di suo papà. Quasi tutti le ricordiamo in ogni dettaglio le mani di nostro padre, il ricordo di Antonio, però, è particolare. «Se ripenso alle mani di papà mentre aggiustava le biciclette mi sembra di rivederle. Non riparava biciclette di professionisti, erano normalissime biciclette della vita di ogni giorno». Quelle mani erano sporche di olio e segnate dalla fatica, come le sue, mentre ci parla. Ma, e Tarducci lo spiega bene, il senso del suo lavoro è proprio qui, nell’artigianalità. «Un grande costruttore qualche tempo fa me lo disse prendendomi da parte: “Antonio, ricordalo sempre, noi siamo dei biciclettai”. Ecco, essere biciclettaio, è questo che mi rende orgoglioso. Qualcuno che lavora plasticamente con le biciclette, che le plasma. La bicicletta è un mezzo che viene dalla povertà, un mezzo che ha visto la povertà, che l’ha affrontata e l’ha riscattata. Su quella sella puoi viaggiare, spostarti, vedere ogni angolo di mondo, anche quelli più nascosti, più intimi, senza spendere una lira. Fatico a vedere un difetto nelle biciclette. Guardiamole assieme: che difetto gli vedi?».

Il papà di Antonio, Ugo, ha iniziato questo mestiere nel 1960 a Viareggio e da quei giorni non ha mai smesso di ricordare al figlio la cosa che più conta in ogni mestiere: osservare. Così gli occhi di un padre e di un figlio sono cresciuti assieme: «Qui si impara sempre ed ogni giorno devi alzarti dal letto sapendo che imparerai, altrimenti parti col piede sbagliato. Bisogna porsi accanto a chi questo lavoro lo sa fare meglio di te e guardare. Se stai lì e guardi, cresci. L’ho sempre fatto: in un angolo, in silenzio, quasi timidamente per la paura di disturbare. Servono uomini esperti che non abbiano timore di condividere ciò che sanno, in particolare per quanto concerne i giorni di corsa, la loro organizzazione, e giovani curiosi che abbiamo fame di sguardi».

I due maestri di Tarducci sono indubbiamente stati Luciano Galleschi ed il mitico “Falcone”. «Avevo vent’anni e per fare il mio lavoro cercavo sempre un posto accanto a Falcone. C’era grande rispetto, divoravo tutto con gli occhi». L’indole di Antonio è quella sanguigna, tipicamente toscana; gli anni però, Tarducci ne ha cinquantacinque, hanno smorzato quell’anima da “toscanaccio” che oggi resta lì, sotto pelle. «Se ho un rammarico è quello di non aver visto crescere mio figlio che ora ha ventiquattro anni. Lui è cresciuto con mamma. Gli mancano due esami alla laurea e i suoi anni più belli me li sono persi. Ricordo come anni fa facevo queste code chilometriche alle cabine telefoniche di ogni città per riuscire a parlarci qualche minuto. La lontananza è una brutta bestia, non ti fa stare tranquillo, ti immalinconisce e così fatichi anche a lavorare. per lavorare bene devi essere sereno. La vita è così, non ci si può fare molto. Però col tempo ti fai un esame di coscienza e capisci che, alla fine, non sei così male. Ti senti soddisfatto di te e sei felice al solo pensiero della famigliola che hai a casa».

Avere a casa un figlio così giovane è anche la molla per capire tutti i “suoi” ragazzi, quelli che Antonio definisce “come figlioli”. «Essere meccanico significa essere a disposizione. Io sono un uomo a disposizione di altri uomini. Non c’è nulla di male, sai? Questa consapevolezza mi ha portato a superare tutte le difficoltà che normalmente si incontrano. Se tu sai che devi reagire per aiutare gli altri, lo fai. Il rapporto umano con questi ragazzi è fondamentali, per capirli, per aiutarli e soprattutto per rispettarli. Cerco sempre di sdrammatizzare. Il punto è che bisogna capire quando si può sdrammatizzare, quando serve e quando invece bisogna stare in silenzio e dare spazio allo sfogo o ai pensieri. Non si può sempre scherzare. C’è un’interiorità da rispettare». Così Tarducci ci racconta dei viaggi in auto in assoluto silenzio dopo una sconfitta o dopo una delusione. Così ci parla della responsabilità che avverte forte. «Non sono mai stato un campione ma ho corso anche io in bicicletta. La verità? Ho sempre avuto paura delle volate. Ne ho anche oggi per i ragazzi. Il nostro è un lavoro di responsabilità, basta un nostro piccolo errore e si può compromettere tutto. Tu devi fare il massimo, non devi poterti rimproverare nulla perché più di così non potevi fare. È l’unico modo per essere sereni. A questo penso spesso».

Dei vecchi tempi, quelli che ora il Covid fatica persino a permettere di immaginare, Antonio ricorda sale di alberghi piene di gente, le chiacchierate nei cortili e quei tavoli con una birra e qualche risata. «Quando arrivi alle partenze e vedi questi piazzali vuoti, ti prende un morso allo stomaco. Quanto è cambiato il nostro caro vecchio ciclismo in questi tempi?». La sua indole sanguigna torna quando parla della gara che ha organizzato per dieci anni, il Trofeo città di Viareggio. «In questo periodo non si sta facendo più nulla per i giovani, questo è un dramma. I ciclisti professionisti di domani sono i ragazzini di oggi. Vorrei tornare a organizzare qualcosa, spero di poterlo fare un domani. Con gli amici di sempre, con Emanuele, con Marietto, tutte persone che vogliono bene a quelle biciclette lì».

Anche Antonio Tarducci vuole bene alla bicicletta, a queste come a quelle che ha a casa, fra le biciclette d’epoca, la sua grande passione, ereditata da papà. La voglia di ritornare a Viareggio è una voglia particolare, qualcosa che riappacifica con sé stessi e con ciò che c’è attorno. «Basta poco, basta tornare a casa, alzarsi la mattina e camminare in Piazza Mazzini, fermarsi al caffè Margherita e dare una sbirciata al lungomare». Sì, perché, alla fine, anche qui a Benidorm c’è il mare ed è bellissimo ma ognuno ha il suo mare. E quello è inconfondibile.


Ladra di biciclette: intervista a Mariateresa Montaruli

Per il nostro dossier su Milano, abbiamo anche intervistato Mariateresa Montaruli, la fondatrice del blog: Ladra di biciclette

Sei una giornalista e fondatrice di un blog a tema ciclistico con un’occhio particolare alle donne in sella. Com’è nato il tuo progetto?
Accorgendomi che non c’era nulla online e offline che raccontasse il mondo della bicicletta dal punto di vista femminile, più morbido e inclusivo di ciò che ci piace e ci fa contente. Dopo anni di collaborazioni con periodici femminili a diffusione nazionale, ho trasferito quell’esperienza sul settore cycling.

Come pensi che vivere in città abbia influenzato il tuo modo di concepire la bicicletta?
Sono stata per anni una ciclista urbana. Facevo la spesa al mercato portandola a casa in due cestelli e andando alle conferenze stampa in bicicletta. La funzione della bici come mezzo di trasporto veloce e green era prevalente allora. Il gusto per una bici più raffinata nell’estetica è intervenuto quando ho avuto la mia prima bici di corsa, un telaio Rebellato del 1975, in perfetto stile vintage.

Come è nata la tua passione per la bici?
Andando in bici. Ho cominciato talmente tanto tempo fa, in città, che non ricordo un episodio scatenante. Sicuramente il ritrovamento della bici vintage nel cortile della mia casa di ringhiera, 7 anni fa, ha contribuito a farmi fare il salto da ciclista urbana a ciclista escursionista e blogger di bicicletta.

Come sono cambiati il tuo lavoro e la tua vita da allora?
Da anni non ho più la macchina: tutti i miei spostamenti sono ormai in bicicletta, se non a piedi con il cane. Nel lavoro, sono passata da reporter di viaggi a giornalista e blogger specializzata in cicloturismo, bicicletta, mobilità dolce, con un attenzione particolare alle storie di donne del mondo bici.

Cosa ti piacerebbe dire alle donne che non hanno mai pedalato per spiegare il bello di andare in bici?
La bici è riappropriazione di tempo e spazio per sé. E’ gioco, è pura sensorialità, è il gusto del vento in faccia e delle uscite di gruppo. E’ viaggiare senza filtri e intermediazioni, in perfetta connessione con la natura.

Secondo te è cambiato il modo di vedere il ciclismo e di praticarlo da parte di sempre più ragazze?

Le donne sono ormai tante. C’è un interesse crescente anche nei confronti del viaggio in bicicletta. Ma il ciclismo sportivo femminile ha ancora bisogno di maggiore esposizione mediatica e sponsorizzazioni.

Foto: Ladra di biciclette/Facebook


Fare Gravel a Milano è possibile

Se pensate che Milano sia solo asfalto e traffico non è così.

Poco lontano dal centro città ci sono numerose strade nelle campagne completamente immerse nel verde che vi lasceranno piacevolmente sorpresi.

Oltre ai popolari percorsi ciclabili che scorrono lungo i Navigli, rimarrete stupiti da come, semplicemente girando l’angolo, vi potrete ritrovare in piccoli borghi, antiche osterie, campi, aziende agricole, fattorie e luoghi decisamente inaspettati che vi faranno dimenticare il rumore e le automobili che invadono ogni giorno la città dipingendo un quadro agricolo e storico variegato.

Ne sa qualcosa Paolo Tagliacarne, fondatore dell’ASD Turbolento e dell’omonimo blog che raccoglie suggerimenti e percorsi gpx scaricabili che, suddivisi per difficoltà e chilometraggio, partono dal centro città e vi conducono in paesaggi memorabili. Una sezione interessante è quella legata alle “Strade Zitte” – che vede come uno dei protagonisti principali il Parco Agricolo Sud Milano, un’ampia area a semicerchio che si lungo il perimetro a sud della provincia del capoluogo composta da ben sessantuno Comuni.

Percorsi e strade che appartengono al patrimonio del territorio e del paesaggio italiano. Un patrimonio che Turbolento porta a disposizione di chi le voglia conoscere e percorrere. Oggi con un contenuto innovativo (app per Arda e GTL) e un significato ulteriore (cicloturismo di prossimità, in autonomia).
Dalle Strade Zitte nascono tutte le loro iniziative, dalla Chase the Sun alla Milano Gravel, per la cui realizzazione hanno iniziato a mappare qualche centinaio di chilometri di strade sterrate attorno a Milano, prevalentemente nell’area ad Ovest-Sud-Ovest della città tra i Navigli, il Parco Agricolo e la valle del Ticino.

Dai cinquantatré chilometri della Gravel delle Terre di Mezzo, ai quaranta dalla Gravel Bonsai, ottima per gli allenamenti invernali. Al percorso della Gravel di Primavera riservata come Club Ride o tour accompagnato (settanta chilometri tra andata e ritorno da Milano Naviglio Grande, con giro di boa al Lido di Motta Visconti). Il circuito delle Gravel Roads si completa con i due tracciati da cento e centocinquantacinque chilometri della Milano Gravel, la madre di tutte le gravel. Il percorso lungo è nato una decina di anni fa, quando ancora si usavano bici da corsa o ciclocross e il termine gravel non esisteva. Qualcuno partecipava con la storica Cinelli Passatore, antesignana delle moderne gravel bike, nata nel 1989, figlia di un Rampichino e di una Supercorsa, pietre miliari nella storia Cinelli.

Foto: Stefano Losco

Abbazie, canali, risaie sono solo alcune delle tipicità del panorama del Parco Agricolo Sud che si estende fino a Pavia, Bereguardo, Morimondo e altre interessanti località. Il Parco Agricolo Sud è attrezzato con zone pensate per svago, cultura e sport: camminate, trekking, navigazione, cicloturismo. Ovviamente anche l’enogastronomia ha un ruolo rilevante con ristoranti, trattorie e monumenti collocati all’interno di un qualificato ambiente agricolo metropolitano.
Si comprende appieno l’essenza del Parco, la valorizzazione e riqualificazione delle aree agricole ed è da qui che parte il progetto, nato per promuovere un territorio adiacente alla città che si rischiava di veder dimenticato e messo in secondo piano rispetto al turbine e all’eclettismo della vita urbana.

Esistono anche ventisette Punti Parco dislocati all’interno dei suoi confini pensati per promuovere le iniziative e le attività ed è possibile ottenere informazioni sul patrimonio agricolo, ambientale, culturale, artistico. Aziende agricole, associazioni, cooperative, consorzi e piccole società sono solo alcuni dei suoi rappresentanti, alcuni situati alle porte di Milano altri “sparsi” per la campagna.

Il Parco è un punto i riferimento per i cittadini e soprattutto per le scuole che possono “sfruttarne” le realtà più variegate per attività didattiche, spettacoli teatrali, educazione ambientale, laboratori tematici, mostre, visite guidate e anche escursioni a piedi o in bici con guide specializzate. Se siete di Milano o se ci siete capitati per studio o lavoro, sicuramente non potete perdervi una parte così importante del patrimonio storico lombardo.

Oltre alla componente naturalistica il Parco rappresenta infatti anche una risorsa culturale in cui trovare edifici di valore architettonico distribuiti in angoli poco conosciuti del territorio. Case e palazzi testimoniano il modo di lavorare e di vivere la civiltà contadina attorniati da un reticolo di strade rurali e percorsi ciclabili che vi aiuteranno a scoprire queste zone. Essendo percorsi in parte già allestiti e altri in fase di allestimento, una bici gravel sarà quello che vi servirà per spostarvi il più agevolmente possibile dal pavé sconnesso al fondo sterrato che collega canali, agriturismi e chiesette semi abbandonate in uno scenario tipico della “bassa”.

Foto: Stefano Losco

Alcune strutture e relativi percorsi sono maggiormente noti e frequentati, basti pensare alle abbazie di Chiaravalle, di Viboldone e di Mirasole, mete di gite domenicali in famiglia o sede di mercatini e fiere. Altre parti invece rimangono sommerse tra le risaie e le marcite ed è lì che potrete arrivare tranquillamente in bici e tornare a casa con la sensazione di essere stati in luoghi lontani – se non geograficamente, almeno storicamente, in cui il tempo sembrerà essersi fermato.

Inoltre, guardando un po’ oltre i confini della città, Paolo e il suo gruppo hanno anche iniziato a proporre percorsi “ciclo-alpini” da pedalare con bici da corsa o gravel alla scoperta di collegamenti alpini in cui magari la bici va spinta per alcuni tratti, o portata in spalla. Ovviamente con attrezzatura adeguata, soprattutto le scarpe.

Sarà la nuova frontiera del cicloturismo? Stiamo a vedere.

Vi suggeriamo anche un breve ma speciale itinerario – che partendo dalla zona del Naviglio Pavese vi collegherà fino alla zona del Naviglio Grande che ho soprannominato Zibidino Magic Hour – che potete fare mentre i vostri amici sono fare l’happy hour, ma li raggiungerete subito dopo!

Questa è solo una delle possibili proposte, per non dimenticare i fantastici percorsi attorno ai laghi di Varese e le sue ciclabili, il lago di Como, le grandi classiche brianzole, le ciclovie presenti in Valtellina, Val Brembana e chi più ne ha più ne metta, tutte facilmente raggiungibili in poco più di un’ora di bici+treno dal centro città e poi da li esplorare facendovi sentire in vacanza in un semplice weekend.

Dai che Milano non è così grigia e nebbiosa come dicono!

Foto in evidenza: Francesco Rachello/Tornanti.cc


Milano e il velodromo Vigorelli: la storia

Milano è cambiata, i quartieri, le sue architetture, nuovi palazzi costruiti, periferie gentrificate, luoghi storici rivalutati e altri dimenticati. La città è un continuum e se ti ci allontani per un po’, nemmeno troppo tempo, quando ricapiti in alcune zone ti sembra di vedere cose nuove, locali inaugurati, altri chiusi e abbandonati.

Non bisogna mai dare nulla per scontato quando si tratta di urbanistica, piani regolatori e tendenze dell’abitare. Ci sono però alcuni luoghi iconici che non vogliamo né possiamo dimenticare. Uno fra questi è il Velodromo Maspes-Vigorelli.
Il Velodromo è il simbolo di un ciclismo che ha fatto la storia, di una città che ha vissuto gli anni d’oro della bicicletta su pista, di un’epoca in cui le due ruote univano i cuori e muovevano le persone.

Il Velodromo Vigorelli, eretto e pre-inaugurato nel 1934, nasce ufficialmente nel 1935.

Foto: Valeria Rossini

L’idea di un velodromo semicoperto poco distante dal precedente velodromo Sempione è di Giuseppe Vigorelli, industriale e in gioventù corridore su pista.
Il giovane velodromo diventa da subito un prestigioso punto di riferimento per la passione sportiva dei milanesi che ne affollano le tribune per gare di sprint, inseguimento, corse all’americana e grandi incontri di boxe sul ring al centro del prato.

La sua pista  incredibilmente scorrevole e veloce per gli standard dell’epoca e attira corridori da tutto il mondo diventando teatro di sfide memorabili, record mondiali e traguardo di importanti corse su strada come il Giro d’Italia, il Giro di Lombardia e il Trofeo Baracchi.

Il velodromo continua la sua attività sino al 1975 quando viene chiuso per poi rinascere nel 1984. Ma in seguito alla grande nevicata del 1985 la tettoia che ricopre le tribune crolla sul parquet della pista, causando ingenti danni e da allora inizia il declino dell’impianto. Verrà ricostruita la tettoia ma l’impianto continuerà a rimanere chiuso, riaprirà di nuovo nel 1998 dopo l’ennesimo restauro per poi chiudere nuovamente nel 2001.

Foto: Valeria Rossini

Progetti e promesse si susseguono nel corso degli anni, ma la mancanza di fondi e la poca considerazione per il luogo distolgono l’attenzione dal Vigorelli che rimane abbandonato per anni.

Da semplice impianto sportivo diventa un luogo mitico, vero e proprio tempio del ciclismo internazionale come mi racconta Daniele D’Aquila, anima odierna del velodromo ed enciclopedia vivente di tutti gli eventi e momenti che hanno reso questo monumento un luogo così unico e importante.

Monumento, sì, perché il Velodromo Vigorelli avendo più di cinquant’anni è consacrato monumento nazionale e dalla sua nascita vi corrono campioni e ragazzini che hanno imparano ad andare in bicicletta sulle sue curve sopraelevate.

Foto: Valeria Rossini

Ci sono stati poi anni in cui il velodromo sembrava essere stato dimenticato, in cui il Comune aveva ben altri progetti e successivamente lo voleva trasformare in qualcosa di totalmente diverso e completamente distaccato da tutta quell’aura del grande ciclismo che lo aveva reso pietra miliare nel cuore degli abitanti. Sono stati i cittadini stessi a battersi per tenerlo in vita, evitandogli una triste fine fra un grattacielo e un centro commerciale.

«Se siamo riusciti a salvare la pista è anche perché le cose sono cambiate e i milanesi se ne sono accorti» dice Daniele. La nuova coscienza ecologica, una rinnovata attenzione alla bici e una sempre più diffusa consapevolezza del valore di una mobilità sostenibile, hanno fatto capire alle persone la preziosità e la fortuna di avere in casa uno spazio come il Velodromo Vigorelli.

La crisi economica e la destrutturazione dei mezzi di trasporto, grazie anche alla diffusione della cultura ciclistica minimalista diffusa dai bike-messenger, che avevano bisogno di biciclette compatte, leggere e che richiedevano poca, se non minima manutenzione, hanno riportato attenzione allo scatto fisso assieme ad una nuova voglia di ciclismo specificamente urbano.

Foto: Valeria Rossini

Ci siamo quindi ricordati del ciclismo su pista e del fatto che a Milano ne avessimo una mecca – paragonabile ai più grandi monumenti dello sport mondiale, ai grandi stadi e centri olimpici, ma che stava per venire distrutta e convertita. Si sono così attivati vari movimenti auto-organizzati spinti dalla necessità di riportare in vita il Vigorelli – facilitati da una nuova coscienza ciclistica animata dal forte legame con la città.

Il Comune di Milano aveva avviato un bando di riprogettazione, ma furono i cittadini a schierarsi contro la sua chiusura: nacque allora il Comitato Velodromo Vigorelli che aveva come obiettivo quello di salvare e rilanciare il Velodromo per rimetterlo a disposizione di più persone possibili, non limitandosi ad un pubblico di élite, ma rendendolo uno spazio sportivo vivo e attivo a tutto tondo.

In attesa di istituire una Scuola di Ciclismo per ragazzi si sono spalancate le porte per portare più gente possibile a rivivere l’impianto e permettere ai milanesi di vedere quello che vi accadeva all’interno, di passeggiare sugli spalti e di sentire l’emozione di un posto che aveva segnato la storia dello sport tanto quanto lo stadio di San Siro o l’Ippodromo.

Le persone iniziavano così ad entrare, chiedere informazioni, capire quanto fosse accessibile e praticabile. Signore che magari avevano paura di utilizzare la bicicletta in città per ragioni legate al traffico e scarsa padronanza del mezzo due ruote, iniziarono a frequentare il Velodromo per aumentare dimestichezza con la bici per sentirsi poi più sicure una volta in strada.

Foto: Valeria Rossini

E’ possibile oggi noleggiare performanti bici da pista Look – marchio francese, il più rinomato per telai da pista, che già forniva bici al velodromo di Saint-Quentin-en-Yvelines, e che ha scelto di metterci la faccia per abbracciare questa storia e campagna di comunicazione urbana.

La presenza al Vigorelli diventa un biglietto da visita vendibile per tutto il mondo e forte potere comunicativo con biciclette performanti presenti in numerose taglie e montate con un rapporto tipico per potersi approcciare alle curve paraboliche: 48/15-16.

Il Comitato Velodromo Vigorelli ha fondato anche una società sportiva ed organizza numerose attività non solo sportive in programma al suo interno, come presentazioni di libri, visite guidate e scuole di sicurezza in bici e mobilità urbana, trasformando il Velodromo in uno spazio vivo e attivo durante tutto l’arco dell’anno.

Red Hook Criterium Milano al Velodromo Vigorelli. Foto: Eloise Mavian / Tornanti.cc

La multidisciplinarietà delle iniziative accolte contempla anche pedalate in bici che terminano o partono dal Velodromo, come la famosa Vigorelli – Ghisallo che permette di visitare, in una sola uscita in sella, due luoghi unici che hanno fatto la storia del ciclismo italiano. L’uscita è stata creata in collaborazione con Carola Gentilini – direttrice del Museo del Ciclismo Madonna del Ghisallo – in nome dei buoni rapporti presenti fra le istituzioni per salvare i due luoghi più importanti del ciclismo lombardo.

La casuale necessità di recupero di entrambi i monumenti che contemporaneamente stavano vivendo un momento di crisi è stato il motore che ha messo in moto l’evento, ai cui organizzatori si è poi affiancato Upcycle Bike Cafè.

La visione che il Comitato Velodromo Vigorelli ha dell’impianto mira a renderlo uno spazio vivo e frequentato in cui «andare una sera e vedere ciò che succede» spiega Daniele. «Vorremmo che il Velodromo diventasse una meta in cui recarsi quando ad una serata fra amici ci si domanda: “cosa facciamo stasera?Andiamo al Vigorelli!”…»

Una tematica molto sentita è quella legata alle presentazioni di libri sul ciclismo, il filone del ciclismo narrato sempre più in voga negli ultimi anni. Si cerca anche di aprire il Velodromo a tutte quelle persone che non pensavano di aver nulla a che fare con la bici, ma che vi ci si ritrovano grazie a visite guidate per il FAI, Openhouse e Touring Club Italiano che risultano interessanti anche per chi non è strettamente legato al ciclismo.

Foto: Valeria Rossini

La sua pista, diventata la più veloce al mondo con un adattamento di costruzione per un errore di progettazione dell’edificio, è carica di personaggi storici che vi hanno corso, ricca di storie annesse e connesse che rendono il Vigorelli un luogo godibile ai più dove fare cultura e storia del ciclismo.

Daniele mi racconta di aver sempre fatto sport e la bici era una delle varie attività fatte da bambino, ma sulla scia del nonno bianchista di eccezione con la predilezione per la bici da pista, si avvicinò presto alla vita del Velodromo fino a diventarne anima e mente creativa battutasi per tenerlo in vita.

Come tutti gli impianti sportivi di un certo tipo, la pista aveva un costo notevole e la si voleva abbattere in nome del nascente quartiere di City Life che considerava il Vigorelli come uno spazio inutile, lasciandovi un piccolo campetto al centro per il football americano.

Anche se assurdo tutto ciò era possibile perché il Velodromo era monumento nazionale, ma solo nella sua struttura esterna, non era chiaro se la cosa riguardasse anche la pista. Ci si batté allora affinché anche la pista, anima del Vigorelli, godesse del vincolo di tutela del monumento da parte dei Beni Culturali, venendo rivalutata e spinta a nuova vita dalla ASD che nacque di conseguenza.

Red Hook Criterium Milano al Velodromo Vigorelli Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Il Vigorelli ritorna ad essere un luogo popolare, non nel significato politico ma nel senso più sociale del termine, carico di quella forte valenza emotiva e storica che fanno parte della rinnovata cultura ciclistica odierna.

Riportare al Vigorelli buona parte della cittadinanza grazie al ciclismo, secondo sport più popolare al mondo dopo il calcio, non è missione da poco, ma «abbiamo rimesso il Vigorelli sul mappamondo ciclistico e allora le persone che vogliono sanno dove poterci trovare». Normalmente Daniele si definisce pessimista, ma visti i risultati ottenuti c’è da essere più che ottimisti.

Ovviamente i problemi ci sono e le difficoltà sono tante, il costo del mantenimento della struttura è alto, ma se ripensiamo alla strada e alla fatica fatta e fino a dove sono arrivati tutti i volontari e operatori del Velodromo, non possiamo che essere speranzosi per un futuro del Vigorelli e quindi anche del ciclismo.

Mi piace citare la canzone “Tomorrow people” di Ziggy Marley che Daniele ama canticchiare a sé stesso ripetendosi che se non conosci la tua storia non puoi andare avanti: non possiamo pretendere di voler costruire un futuro, se non sappiamo da dove proveniamo. Lo sapevano in Jamaica, lo abbiamo riscoperto noi oggi.

La voce di speranza e positività rispetto ad un domani ciclabile del Velodromo e di tutta Milano non tarda a farsi sentire riecheggiando fra le scalinate del Vigorelli e arrivando fino in quegli angoli di città che non vogliono sentire.

Foto in evidenza: Tornanti.cc


Yoga e bicicletta: yoga à porter

Abbiamo intervistato Marta Castronuovo, ideatrice del progetto Yoga à porter. Cosa accomuna yoga e bicicletta? Leggetelo…

Com’è nato il progetto Yoga à Porter? Perché la scelta di fermarsi a Milano e qual è il ruolo della bici nella comunicazione e insegnamento dello yoga?
Mi piace pensare che il progetto YàP sia la necessaria e naturale risposta sia al mio modo di essere e di pensare la vita metropolitana, sia una naturale conseguenza al sempre maggiore bisogno di imparare un nuovo modo di vivere la realtà.

Marta Castronuovo: sei un’antropologa, insegnante di yoga, massaggiatrice Ayurveda, appassionata di trekking e arrampicata ma soprattutto grande ciclista: forse il progetto di Yoga à Porter è un po’ come la naturale evoluzione del tuo percorso di vita e lavorativo?
Fare Yoga non significa passare 60 minuti su un tappetino, ma è uno stile di vita che si fonda sulla responsabilità universale che insegna a tutti a vivere in modo armonico con la natura e i suoi ritmi. Per questo la scelta della bici, la scelta di essere noi a raggiungere le esigenze dei nostri allievi e la scelta di usare spazi “di riciclo”, ovvero dedicati ad altre attività dove ci piace portare lo Yoga e mischiare le energie.

Avete di recente sviluppato una collaborazione con un noto marchio di bici, qual è stata la ragione che vi ha spinto a contattare proprio loro e come mai la scelta della bicicletta?
Perché credo fortemente nel bisogno che tutti noi abbiamo di innamorarci del prenderci cura di noi stessi e gli sportivi lo sanno bene. Praticare Yoga non significa fare sport: lo Yoga è uno stile di vita, una lente di ingrandimento che ci fa sentire, vedere e osservare meglio prima di tutto noi stessi e di regala gli strumenti di cui abbiamo bisogno per mantenere (o ristabilire) il nostro equilibrio personale.
Passare molte ore in sella è una delle cose più belle che possiamo desiderare, specialmente dopo i mesi di lockdown, ma non basta a prenderci cura del nostro corpo, dobbiamo imparare a riportare sempre l’equilibrio sia nel corpo che nella mente.

Che tipo di bici avete scelto per muovervi in città? 
Abbiamo iniziato con una normale bici single speed da città per poi passare a una piccola cargo, onmium mini. Decisamente una scelta felice! Comoda, stabile, facile da trasportare e ci permette di caricare blocchetti, tappetini e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per le nostre lezioni!

E quando avete numerosi tappetini o materiali per le lezioni da trasportare, come vi siete organizzati?
Sulla mia bici cargo ho caricato l’equivalente dei props (mattoncini, elastici, tappetini, olii essenziali) che si trovano in una qualsiasi scuola di yoga: veloce, facile e soprattutto sostenibile!

Pensate davvero che la bicicletta sia il mezzo migliore e più efficiente per muoversi in città?
Ho vissuto quasi sei anni a Dublino e sono da cinque anni a Milano; non ho mai posseduto una macchina o un mezzo di locomozione a motore; mi sono sempre e solo spostata in bici e non mi sono mai sentita limitata. La bici è il mezzo del futuro!

Come risolvete le problematiche legate al traffico e cattivo tempo?
A Dublino mi dicevano sempre: “there is no bad weather, there’s only bad equipment”
Per quanto riguarda il traffico devo essere onesta e dire che pedalare a Milano è diventata un’attività tutt’altro che piacevole. I rischi sono tanti (troppi!) e le tutele pochissime. Spero vivamente che chi amministra questa città sappia sensibilizzare i cittadini verso la mobilità dolce.

Ci sono itinerari migliori che scegliete per spostarvi rapidamente da un luogo all’altro?
Ovviamente privilegiamo strade senza pavé, evitiamo le arterie più congestionate.. per fortuna la bici ha mille risorse e passa ovunque!

I vostri studenti sono appassionati ciclisti? 
L’80% dei nostri allievi si muove per la città rigorosamente in bici. Come si dice? La mela non cade mai troppo lontana dall’albero!

 

Fate classi a tema ciclistico, sull’onda del sempre più popolare “yoga for cyclists”?
Decisamente sì. Sono sempre online le nostre lezioni per il progetto “Cinelli Cares” e da settembre abbiamo già calendarizzato diverse sorprese!

Come pensate che la bici possa cambiare (si spera migliorandola) la vita delle persone?
La risposta è semplice: l’uso delle macchine fa male a noi, all’ambiente, alla natura e al portafogli! È una questione di cura e di attenzione: se teniamo a noi stessi, al nostro futuro e a quello di chi ci sta intorno, non possiamo non scegliere la bici.

C’è forse una linea sottile che accomuna la filosofia dello yoga all’andare in bici?
Certo. Non entro troppo nel dettaglio, ma cerco di spiegarmi: tutto ciò che fa bene al corpo e all’anima è Yoga. Quando ti parlo del senso di libertà, sintonia con la natura, benessere che si prova esplorando il mondo su una bici ho già detto tutto.

Qual è stata la reazione dei milanesi ad un progetto di yoga diffuso?
Ottima direi. Sono orgogliosa di essere stata la prima ad avere questa idea e dopo di me sono nate tante altre realtà a noi ispirate. Più persone fanno Yoga, più speranza ci può essere per il futuro.

Pensi che Milano abbia le carte per mettersi in gioco in un progetto più ampio e ambizioso di mobilità ciclistica a tutto tondo che coinvolga i più diversi strati sociali spaziando dall’accompagnare i bambini a scuola, al commuting quotidiano per raggiungere lavoro o università fino ad arrivare il mezzo prescelto per trasportare cose o persone o semplicemente fare la spesa?
Devo essere onesta e dirti che non sono ancora molto ottimista per Milano. Non vedo una politica di incentivo all’uso della bici, ma, ancor peggio, non vedo in atto una politica di difesa del ciclista e questo è un mio grande rammarico nei confronti dell’attuale giunta di Palazzo Marino. Chi pratica ciclismo urbano a Milano è quotidianamente vittima di prepotenze e pericoli operati dagli automobilisti, che spesso – troppo spesso – avvengono sotto gli occhi delle forze dell’ordine che avallano questi comportamenti irresponsabili. Non sto qui a fare l’elenco degli esempi perché sarebbe semplicemente troppo lungo. Devo dire, però, che, girando un po’ la Lombardia in bici, ho notato persone di tutte le età muoversi in bicicletta, senza l’apprensione e l’aggressività di chi deve muoversi a Milano. Forse quello che a noi manca è godere della nostra città: temo che le finte comodità e velocità delle automobili ci abbiano completamente fatto dimenticare come vivere e respirare il sapore di una città: entrare nei vicoli, attraversare i parchi, scoprirne i monumenti e luoghi speciali.

Foto: Yoga à porter


Negozi di biciclette a Milano

Avere un negozio di biciclette, significa molto più che fare riparazioni o compravendita di mezzi a due ruote. Scegliere di investire le proprie conoscenze ed energie mettendosi dall’altro lato del bancone, è una mission, una vocazione, un contributo alla diffusione di una cultura ciclabile e di tutto quello che la circonda. Se avete voglia di relazionarvi col pubblico, di raccontare, consigliare e sapere ascoltare i vostri clienti, forse questo potrebbe essere il vostro piano b.

Ce lo possono dimostrare i numerosi meccanici ciclisti presenti in città e consapevoli del loro ruolo all’interno della società, indipendentemente dal negozio di riferimento da voi scelto. Con pazienza e meticolosità vi sapranno aggiustare freni, sostituire camere d’aria, fissare una serie sterzo o raggiare una ruota ad alto profilo. Che si tratti di scattanti bici da pista, pesanti city bike o le colorate biciclette dei vostri bimbi, poco importa, vi aiuteranno a ritrovare quel sorriso perduto che solo la gioia di una bicicletta ben funzionante ci sa regalare.

Tutto ciò è ancor più vero in una città come Milano che nonostante abbia abbracciato con disinvoltura alcune innovative tendenze urbane, su altri fronti, come lo è stato quello della bicicletta, si è dimostrata a lungo diffidente.

Basta girare per le strade e vedere una cargo bike o andare in metropolitana per notare bici pieghevoli utilizzate assieme ai mezzi pubblici per gli spostamenti più lunghi. In questa estate 2020 abbiamo sentito sempre più racconti di volenterosi pronti a organizzare le proprie vacanze in bicicletta o scegliere le due ruote come mezzo di trasporto privilegiato. La bici è lenta ma inesorabile e così sono i cambiamenti che porta con sé, come ci ricorda Piergiorgio Petruzzellis, anima de La Stazione delle Biciclette. «Le persone che fanno viaggio in bici ci sono da sempre, noi ci siamo limitati ad intercettare quel pubblico sperduto e diffuso offrendo una base comune di servizi e prodotti (bici travel, borse o soluzioni per il trasporto). I nostri clienti sono molto differenziati, andiamo dal semplice utilizzatore della bici come scelta di mobilità, all’appassionato cicloturista. Poiché siamo specializzati nella fornitura di pezzi rari abbiamo anche una serie di clienti ciclomeccanici dilettanti».

Foto: La stazione delle biciclette

La Stazione delle Biciclette nasce con l’obiettivo di fornire servizi innovativi per chi fa della bicicletta uno stile di vita alimentata da un gruppo di soci con i background più variegati, ma tutti uniti dalle due ruote. Meccanici, padri di famiglia, pedalatori, organizzatori di gare di ciclocross, cronoscalate urbane e pilastri di un’ampia porzione di ciclisti milanesi, sempre presenti a tutti gli eventi a tema due ruote del capoluogo.

La Stazione delle Biciclette è molto più di un semplice negozio di bici. Quando ti avvicini al loro spazio e punto vendita, che ora sono due, uno in Corso Lodi e uno al Villaggio Barona, ti rendi conto di quanto si nasconda in negozio o dentro l’officina. La loro vetrina, infatti, non è e non vuole essere una boutique delle due ruote, ma un centro di diffusione della cultura ciclistica. Gli eventi promossi al di fuori della normale attività di negozio sono prima di tutto mossi dalla passione che alla lunga si spera possa cambiare la cultura della bicicletta e quindi impattare positivamente anche sulle attività commerciali. «Ci piace pedalare e parlare di bici, ci piace toccarle, ammirarle, studiarle» dicono. E si vede.

Il progetto della Stazione delle Biciclette iniziò grazie ad un bando di concorso emesso dal Comune di San Donato Milanese al quale i soci vi parteciparono come associazione nata dall’esperienza della Critical Mass. Si volle dare una veste più ufficiale a ciò che già veniva fatto con le ciclofficine di strada.
In quel periodo, Davide Maggi generatore di idee e anima de La Stazione, stava facendo un dottorato di ricerca in Ingegneria Ambientale, ma sentiva fosse giunto il momento di cambiare indirizzando le proprie energie su un progetto più suo.

Foto: La stazione delle biciclette

Questo nuovo percorso, intrapreso oramai quindici anni fa, vide una fase di grande fermento culturale e sociale legato al mondo della bicicletta, come per esempio l’attenzione portata alle due ruote dalla critical mass e dalla nascita delle prime ciclofficine popolari. Un esempio fra tutte è La Stecca – Piubici, ciclofficina milanese sviluppatasi grazie all’Associazione degli Artigiani che organizzava serate a tema ciclistico ospitate nel centro autogestito Bulk, situato in pieno centro città vicino al Cimitero Monumentale, prima ancora del nascente quartiere Isola e Chinatown.

Le persone cambiano, crescono e così nascono anche nuove necessità di creare e trovare lavoro. Avendo fatto esperienza che l’associazionismo puro non funzionava, i fondatori de La Stazione decisero di trasformare il progetto in un negozio a tutti gli effetti, mantenendo la stessa sede, ma ampliandosi a livello di soci e dipendenti. Venne così data la piena gestione de La Stazione in mano a Davide e si riuscì a vivere un momento di incredibile progettualità dal basso legata alla bici in città. Tutto ciò venne reso possibile anche grazie al retroscena culturale dell’area di San Donato Milanese impegnato a ridare dignità a luoghi apparentemente molto frequentati da pendolari, ma scarsamente vissuti dai suoi cittadini, come questi spazi periferici, sedi di interscambio fra mezzi pubblici e automobile.

Il primo negozio della Stazione delle Biciclette venne infatti costruito accanto ad un ampio parcheggio in corrispondenza della fermata capolinea della linea gialla della metropolitana milanese, contribuendo a fare il primo passo verso una valorizzazione di questi spazi urbani dimenticati.
Pigi, ovvero Piergiorgio Petruzzellis, altra figura fondamentale all’interno della Stazione, all’epoca dipendente di un’azienda in cui metteva a frutto la sua formazione da ingegnere, dopo lavoro passava sempre in negozio a vedere come andavano le cose e se c’era qualcosa da fare. Instancabile, dopo poco decise anche lui di cambiare stile di vita e abbracciare al 100% la causa della ciclabilità e del nascente negozio di bici.

Col tempo La Stazione delle Biciclette rivelò la sua anima più socialmente impegnata, proponendo eventi a tutto tondo sul tema due ruote, come i Campionati di Ciclomeccanica – giornate in cui varie squadre si sfidavano con lo scopo di riportare in vita veri e propri rottami che altrimenti sarebbero finiti in qualche discarica, trasformandoli il mezzi creativi, cargo, tall bike, etc. Con gli anni un evento di nicchia come questo ha preso piede e vive oggi di vita propria coinvolgendo appassionati e ciclofficine da tutta Italia.

Milano ha poi vissuto il boom dello scatto fisso per uso urbano, con le prime gare alley-cat organizzate “illegalmente” la mattina presto in giro per la città. La Stazione iniziò a produrre biciclette minimali, come la 666, modello realizzato su misura per sopperire alla mancanza di certe tipologie di biciclette. Si misero allora a ricercare telaisti, calcolare misure e capire cosa si facesse oltralpe iniziando ad importare una cultura nuova del fare bici.

Foto: La stazione delle biciclette

Lo scatto fisso vide la sua evoluzione nel ciclocross e nel single speed e anche qui La Stazione delle Biciclette diede il via ad eventi, come i Campionati Italiani Singlespeed di Ciclocross che poi proseguirono autonomamente in varie zone della Lombardia, Veneto e regioni limitrofe.

Un altro grande amore è quello per il viaggio in bici, panorama meno competitivo, ma non meno gratificante. «In italia mancavano biciclette come le volevamo noi, come ci servivano per i nostri viaggi: iniziammo allora a sviluppare prodotti ad hoc per portare avanti anche il settore del cicloturismo e del viaggio e nuova proposta per i clienti».

Possiamo quindi vedere come le diverse tendenze che ha seguito la bicicletta non erano che un riflesso dell’evoluzione delle passioni dei loro proprietari: ciclomeccanica, scatto fisso, ciclocross, pieghevoli, 20” pollici, bikepacking etc.

«L’integrazione tra differenti mezzi di trasporto è l’obiettivo con cui viene progettata e pianificata la mobilità nelle nostre città, ricordano Davide e soci. Negli anni abbiamo sviluppato un’ottima conoscenza ed esperienza in tema di mobilità ciclistica. Oltre alla parte più legata al negozio di bici, siamo in grado di fornire a enti locali e amministrazioni pubbliche una vasta gamma di servizi e consulenze: dalla semplice scelta delle rastrelliere più adatte, alle consulenze complete riguardo piani della mobilità dolce e agli interventi sul territorio per favorire la ciclabilità».

«Per promuovere sempre di più l’utilizzo della bicicletta ci siamo specializzati in accessori e componenti non convenzionali, per trasformare la bicicletta in un vero e proprio strumento di trasporto quotidiano o nella compagna di viaggi e avventure. Sempre con un occhio di riguardo alle esperienze estere abbiamo sviluppato un’offerta di biciclette all’avanguardia per quanto riguarda la bici come mezzo di trasporto: cargo bike e pieghevoli, come compagna di viaggio, e come strumento per favorire uno stile di vita agile, leggero e sostenibile. Da ultimo abbiamo sviluppato una linea di biciclette realizzate su misura realizzate a mano e completamente personalizzate a seconda delle esigenze del cliente. Da sempre promuoviamo la cultura della bicicletta, con attenzione agli aspetti tecnici e innovativi, organizzando serate, eventi, e partecipando a fiere e manifestazioni».

Esterno negozio Rossignoli a Milano

I vari soci de La Stazione hanno creato una linea di biciclette artigianali realizzate su misura e completamente personalizzabili a seconda delle esigenze del cliente. E non è tutto: da loro si possono trovare anche accessori e componenti non convenzionali, per trasformare la propria bicicletta in un vero e proprio strumento di trasporto quotidiano o nella compagna di viaggi e avventure.

Il vero blocco alla mobilità ciclabile non è la mancanza di una bicicletta, le cantine milanesi ne sono piene. «I problemi sono altri – ci ricorda Pigi – la percezione della bici come mezzo pericoloso, le poche e scomode piste ciclabili, la scarsa attitudine degli italiani a muoversi, i furti, le assicurazioni» È vero che l’incentivo statale può servire, ma non può bastare da solo a farsi motore del cambiamento.

Il tutto come applicazione concreta di un vivere la bici in maniera divertente anche in città spingendone il più possibile l’utilizzo contribuendo alla di una comunità e diventandone un punto di riferimento anche fuori dal negozio. «Abbiamo scommesso sulla bicicletta, ci abbiamo creduto e piano piano qualcosa si è mosso» dicono soddisfatti i vari soci.

Se volete scoprire dove vanno i vari ragazzi quando escono dal negozio, potreste seguire Davide in un giro sul circuito di Porto di Mare: «l’ho visto rinascere ed è uno spettacolo», dichiara.

Interno negozio Rossignoli Milano

A Milano la situazione per le strade è molto migliorata nel corso degli anni, ma è normale che rimanga sempre un margine di pericolo come in qualsiasi altra cosa, ma prima o poi bisognerà pur cominciare. E la bici è anche un grande strumento di libertà, sopratutto in una città congestionata come Milano che non ha però tutti i lati negativi delle megalopoli quali Los Angeles o dei numerosi sottopassi e strade a scorrimento veloce di altri centri urbani.

Parlando di biciclette a Milano, non possiamo non citare Rossignoli – storica famiglia di origini pavesi ma trapiantata milanese da generazioni e che dal 1900 si prende cura della storia della città a pedali. Come dimostra la costante fila di clienti in attesa dentro e fuori il negozio, Rossignoli è la testimonianza dei mille volti del ciclismo, della sua anima più urbana che coinvolge gli strati più diversi della popolazione.

Con tenacia e passione hanno vissuto sulle proprie ruote una storia molto  lunga, dalle difficoltà della seconda guerra mondiale al boom economico degli anni ’50, fino alla Milano-da-bere degli anni ’80, quando si preferivano auto e motorini alla bicicletta, arrivando fino ai giorni nostri. Abbiamo aspettato a lungo questa sperata rivoluzione che sta cambiando la testa ai cittadini: andare in bicicletta è diventata  una scelta intelligente, sostenibile e persino elegante, ma non è sempre stato così.

Ne sanno qualcosa i nostri nonni, quando fare il ciclista, quello professionista che si allenava per correre in bicicletta, era roba da privilegiati, di quelli che potevano provare ad inseguire la gloria in sella: tutti gli altri comuni mortali impiegavano la bici per semplici spostamenti di lavoro o quotidiane necessità.
Chi poteva pedalare per puro piacere era fortunato.

Officina negozio Rossignoli a Milano

In occasione del Salone del Mobile, nel cortile interno del negozio-officina, viene ogni anno ospitata la mostra Biciclette Ritrovate a testimonianza dei mille lavori che in passato utilizzavano la bicicletta. Se siete interessati al suo risvolto più contemporaneo vi suggerisco un’interessante ricerca sulla relazione fra uomo e bici. E’ disponibile online un pdf con la raccolta di immagini della mostra Urban Cycles di Franco Chimenti, fotografo che aveva esposto il suo lavoro in occasione del Fuorisalone. Accanto alle biciclette d’epoca, venivano raccontati i protagonisti della Milano che pedala, attraverso delle coppie di immagini che accostavano ritratti e dettagli, rivelando l’anima e gli outfit più diversi di chi ha scelto le due ruote come mezzo di spostamento e perché no, come stile di vita.

cit. dal catalogo della mostra:

Franco Chimenti, colma una lacuna e ci mostra una nuova varietà in rapida espansione demografica, il ciclista urbano, appartenente sì al genere ‘Homo’ ma alla nuova specie dell’Homo sapiens cyclisticus che rappresenta una sicura evoluzione del semplice ‘sapiens’. Questi suoi scatti vogliono essere classificatori e rivelatori e tendono a sistematizzare il mondo attorno a sé e a dare un senso logico al caos: ogni ciclista è con la propria bicicletta, in un punto urbano a lui congeniale, una figurina di un album impossibile da completare. Ma non è un album formato da figurine di un’identica specie: ciò che differenzia ciascuno dei soggetti ritratti e, per certi aspetti, lo rivela scientificamente, è il particolare. Con quel particolare Franco ‘firma’ il ritratto e ci mostra lo straordinario principio che è alla base della specie: siamo così terribilmente uguali,
siamo così magnificamente diversi.

Oltre alle più classiche attività di riparazione e vendita di biciclette, Rossignoli ha da qualche anno iniziato anche a noleggiare biciclette per turisti o visitatori che decidono di visitare la città in sella evitando mezzi pubblici, taxi, car sharing esplorando a ritmo più lento e a misura d’uomo la classica frenesia milanese.
La famiglia ha anche rilevato e ristrutturato completamente uno storico negozio di biciclette presente in zona Solari con lo scopo di ampliare la loro missione ciclabile, lasciando inalterato arredamenti e spirito del locale, in nome del rispetto per la famiglia Zanazzi, famosa discendenza di ciclisti.

Giovanna Rossignoli, responsabile del settore ciclo del marchio milanese, intende conservare lo spirito e gli spiriti della bicicletta, in tutte le declinazioni, che aleggiano nella bottega con officina, piccola per spazio ma grande per valenza, come sanno molti appassionati che ritrovano così un luogo del cuore ciclistico.
Di chi ha finalmente capito che Milano è una città pianeggiante che sorge in pianura e che muoversi in bicicletta dovrebbe essere la soluzione più intelligente.
La famiglia Rossignoli prova a spiegarlo ai suoi concittadini più o meno dal 1900, affrontando periodi in cui la bici non andava molto di moda.

Evidentemente la famiglia Rossignoli sa bene che non si può pedalare verso il futuro se non si sistemano i conti con il passato – non producendo e vendendo solo biciclette da città e da corsa, ma restando sempre al passo con le nuove necessità di un mercato in espansione con accessori, cestini, caschi, lucchetti performanti e abbigliamento da pioggia – insomma tutto ciò di cui potreste avere bisogno per affrontare al meglio ogni singolo giorno in sella.

Negozio Rossignoli Milano

Rossignoli, oltre ai suoi mezzi storici, propone anche altri marchi che vengono montati e assemblati all’interno di un’officina specializzata che, in momenti di necessità, si ingrandisce con meccanici a chiamata – come l’amico Gabriele Di Lorenzo della Ciclofficina Balenga – che arriva in soccorso per dare una mano a tutti quei ciclisti in cerca di assistenza.

Perché si sa, affinché le bici durino, bisogna amarle e prendersene cura anche se per riparazioni e assistenza, ultimamente sarà necessaria più pazienza del solito, dal momento che, data la location situata lungo una delle principali arterie a traffico limitato, quale Corso Garibaldi, la lista di attesa, soprattutto in tempi di Coronavirus, è più lunga che mai. Invece di demordere, possiamo prendere questo come un indicatore del rinnovato e riscoperto amore per le due ruote.

Da veri milanesi imprenditori, alla famiglia Rossignoli piace anche collaborare con le aziende realizzando bici ad hoc, noleggiarle per film, spot e servizi fotografici, sfilate e arredamento di interni ribadendo la loro presenza in contesti urbani e modaioli. Come sostengono gli stessi Rossignoli: “Noleggiamo anche agli stessi milanesi per scoprire la loro città. Perché la nostra storia nasce e cresce a Milano, città dalle mille meraviglie nascoste.”

Ognuno di voi avrà poi il suo ciclista di fiducia, il suo negozio sotto casa in cui portare la bici in caso di necessità, per acquistare alcuni accessori o semplicemente curiosare le ultime tendenze. Quale che sia la vostra scelta, la mia voleva essere solo una piccola analisi di tutto quel mondo che si cela dietro le vetrine dei numerosi negozi di bici a Milano, e spero un po’ ovunque nel mondo.

Mi piace ricordare mio nonno che, indipendentemente da ciò che avesse da fare, passava una, due o tre ore al giorno a chiacchierare con amici e conoscenti presso il suo “amico ciclista” che magari inizialmente amico non era, ma lo diventò abbastanza rapidamente. E quando crei legami così, genuini e veri, non puoi più farne a meno.
La bici unisce e crea relazioni. Su questo non possiamo essere più sicuri.

Vi elenco qui alcuni dei principali ciclisti che conosco personalmente e che mi sento di consigliarvi in caso foste in zona. Ognuno di loro ha la sua anima e il suo perché, magari entrate anche solo per salutare o vedere come “pimpare” la vostra bici o progettare l’acquisto di una nuova: perché si sa, il numero corretto di bici è quella che avete più una.
Lo dice anche la matematica:
NUMERO CORRETTO DI BICI = QUELLE CHE AVETE+1

——————————————————————————————————————————————–

Velociclista
Dove: via Conchetta 17 – 20146 Milano
tel +39 3470314802
orari lun 14-19.30 + mar-ven 8.30-12/15-19.30 + sab 8.30-12
email info@velociclista.it

La bicicletteria
Dove: via Ascanio Sforza 87 – 20141 Milano
tel. 02 8461286
email: info@labicicletteria.it

IAMO bici
Dove: Via Giovanni Antonio Amadeo 39 – 20133 Milano
tel. +39 3334776318
orari: mar-ven 9.30-12/15-19.30 + sab 9.30-12.30/14.30-18
email: iamobici@gmail.com

La ciclistica
Dove: Via Pellizza Da Volpedo 12 – 20149 Milano
tel. +39 02 36550328
orari: lun 15.00-19.00 + mar-sab 10.00-13.30 /14.30-19.00
email officina@laciclisticamilano.it

Foto in evidenza: la stazione della bicicletta


Milano e bici critica: massa marmocchi e critical mass

Ogni giovedì sera un gruppo di milanesi noncuranti di meteo avverso e temperature basse si raduna alla Loggia dei Mercanti, a due passi da Piazza del Duomo, pronto a invadere le strade di Milano in sella alle loro bici.

Vedrete ogni tipo di ciclisti e mezzi a due ruote: studenti, casalinghe, giovani manager, compiti uomini d’affari, anziane signore in city-bike, grazielle, pieghevoli, cargo, all bikes, telai vintage, mountain-bike, biciclette da pista a scatto fisso o leggere bici da corsa.

Se passate per caso in zona verso le 22 vi sembrerà di essere in un quartiere di San Francisco, città natale di questo fenomeno spontaneo che, nel 1992, iniziò a riunire regolarmente svariati ciclisti con il semplice ma significativo scopo di pedalare in gruppo nelle strade affermando l’idea che incentivando l’uso della bicicletta la mobilità urbana sarebbe diventata migliore e più sostenibile.

Dal 2002, e con un numero crescente di ciclisti, si ricreano per le strade di Milano quegli stessi ingorghi di automobili che vediamo ogni giorno nel traffico, ma composti da biciclette, quasi facendoci vivere un mondo capovolto. È questo che la “massa critica” vuole affermare: il diritto di circolare in sicurezza assieme alle automobili, godendo della loro stessa considerazione, dello stesso rispetto, degli stessi diritti, quindi anche quello di bloccare la circolazione semplicemente muovendosi in tanti, tutti insieme.

Foto: Tornanti.cc

La Critical Mass è  una di quelle esperienze uniche nel suo genere, che non puoi non vedere se vieni o vivi a Milano e cerchi qualcosa di autentico.
Ci si diverte a cercare le radici di questo gruppo che a Milano è nato diciotto anni fa assieme alla Ciclofficina Popolare nel centro sociale Bulk, un enorme spazio occupato situato poco lontano dall’attuale Chinatown, vicino al Cimitero Monumentale, luogo attivo per eventi e sede di concerti, ciclofficine, proiezioni cinematografiche, ma demolito definitivamente nel 2013.

Nonostante possa suonare come un movimento sovversivo, fuorilegge e disorganizzato, la critical mass ha le sue basi e fondamenti in un uso condiviso dello spazio urbano nel rispetto di tutti i veicoli della strada. La Critical Mass non é una manifestazione organizzata, ma viene alimentata dal disagio dei ciclisti in strade dominate dalle auto.

Negli anni ci si è battuti in sempre più località per questo cambiamento a pedali, rispettoso dell’ambiente, di un nuovo modo, più sano, sostenibile e a misura d’uomo nel vivere e godere delle bellezze della città. Ce ne siamo accorti tutti con Expo 2015 e ce ne accorgiamo ogni giorno passeggiando per le vie di Milano.

Secondo Luca Boniardi la Critical Mass non è un progetto, è una “situazione”, un momento di incontro per vivere la città in maniera diversa e rimettere al centro dello spazio la bici (o altri mezzi di locomozione attiva, come pattini e monopattini) e ritrovarsi tra bella gente. «Penso che bisogna uscire dall’ambito ristretto dell’attivismo e accendere le luci sulla bici o in generale sulla mobilità attiva e sostenibile in qualsiasi modo. Ben vengano tutte quelle esperienze che di fatto rappresentano un presidio sul territorio come i bicycle café, le ciclofficine, le pedalate di gruppo e gli eventi a tema bici».

Luca ha conseguito un dottorato in Scienze Ambientali all’Università degli Studi di Milano e segue ora un progetto di ricerca del IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano sull’esposizione all’inquinamento atmosferico in città: la sua volontà è quella di migliorare Milano permettendo alle nuove generazioni di muoversi attivamente, in autonomia e liberamente.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Dall’incontro di persone simili spinte dalle stesse affinità di vedute sono nati tanti progetti: ciclofficine popolari, eventi di vario genere e tra questi anche la Massa Marmocchi e cioè un gruppo di persone che assieme si impegnavano ad accompagnare a scuola i bimbi in bicicletta la mattina.

La Massa Marmocchi ha in seno diverse anime, dal genitore, al volontario, ci spiega Luca. Lui, come volontario, punta a favorire la costituzione di gruppi di genitori che portino il tema della mobilità attiva (e autonoma) all’interno delle proprie scuole: i suoi sforzi in futuro andranno proprio in quella direzione, cercare il meccanismo per rendere virale e diffusa capillarmente questa esperienza.

C’è una sempre crescente porzione di cittadini che guardano la città in modo diverso, che utilizzano la bicicletta come altri mezzi attivi e/o sostenibili, tutto questo grazie soprattutto alla spinta delle nuove generazioni. Non si sta imponendo loro di cambiare abitudini, ma solo chiedendo loro di far spazio ad una generazione che sta già vivendo la città in modo diverso e vuole lasciare in eredità una Milano più a misura di tutti ai cittadini di domani.

La condizione di emergenza dovuta al Covid-19 ci sta dando una mano. Quando si sosteneva che le ciclabili potevano essere realizzate semplicemente con vernice e pennello, la risposta era negativa. Ora stiamo vedendo che non solo è possibile ma che, fatte così, vengono ben viste anche da cittadini prima scettici che hanno visto i loro affari crescere grazie ad una ciclabile davanti alla vetrina o dai genitori liberatisi dell’ansia del parcheggio abituati a portare i figli a scuola solo in macchina.

Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Per rendere Milano una città ciclabile come Amsterdam, Berlino o Copenhagen bisognerebbe partire da un progetto di narrazione continua sui pregi della mobilità attiva, continuando a rendere evidente la mobilità ciclistica con interventi diffusi e leggeri per favorire la ciclabilità Dalla segnaletica, alle corsie ciclabili, da un utilizzo capillare di strumenti come le “case avanzate” e il senso unico, eccetto bici e ai controviali e strade a prevalente percorrenza pedonale e ciclabile.

Potremmo migliorare le nostre città rendendo più evidenti i vantaggi indiscutibili dell’andare in bici, lottando nelle sedi opportune per interventi al passo con i tempi e impegnandoci per rendere le due ruote più popolari, nel senso di renderle un mezzo riconosciuto da tutte e tutti e non solo da chi ne ha già avuto l’esperienza. «Dagli amministratori – conclude Luca – devono arrivare però ancora scelte di vero contrasto all’utilizzo smodato dell’auto. Una buona fetta di potenziale ciclisti, non usa la bici per paura. Non saranno le ciclabili in sede a cambiare le cose, ma una riduzione netta del numero di veicoli a motore (Milano è tra le città con il più alto numero di macchine per abitante tra le grandi europee), una decisa riduzione della velocità in città, almeno nei quartieri e un più capillare presidio delle forze dell’ordine, purtroppo spesso poco sensibili sul tema».

FIAB (Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta), per esempio, è un’organizzazione riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente con sede anche a Milano, quale associazione di protezione ambientale che ha come finalità principale la diffusione della bicicletta quale mezzo di trasporto ecologico, in un quadro di riqualificazione dell’ambiente urbano ed extraurbano. Riunendo oltre 160 associazioni autonome locali sparse in tutta Italia con lo scopo di promuovere l’uso della bicicletta sia come mezzo di trasporto quotidiano che per i viaggi in bici, FIAB spinge anche per un turismo rispettoso dell’ambiente, che faccia bene alla salute ce he sempre più sembra abbia preso piede in questa estate 2020 così anomala dal punto di vista della mobilità e ospitalità alberghiera.

Foto: Tornanti.cc

Le associazioni aderenti alla FIAB si battono per ottenere interventi e provvedimenti a favore della circolazione sicura e confortevole della bicicletta, per migliorare la vivibilità urbana con piste ciclabili, moderazione del traffico, politiche di incentivazione, uso combinato bici+mezzi collettivi di trasporto, organizzando manifestazioni e presentando proposte e progetti. Quindi se non sapete da dove iniziare per avvicinarvi al mondo delle due ruote, rivolgervi al centro FIAB più vicino a voi potrebbe essere un buon inizio.

Sono ampiamente riprese le iniziative della Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta come per esempio l’invito a lasciare a casa l’auto, almeno per un giorno, e accompagnare i figli a scuola passeggiando o pedalando.  L’iniziativa, che normalmente coincide con l’arrivo della primavera, dà simbolicamente il via al conto alla rovescia per l’atteso appuntamento di Bimbimbici 2020, una campagna nazionale ideata e promossa da FIAB volta ad incentivare la mobilità sostenibile e a diffondere l’uso della bicicletta tra i giovani e giovanissimi.

L’iniziativa intende perciò riaffermare il tema della sicurezza e della salute legata al movimento dei più piccoli attraverso gli spostamenti quotidiani, cosa che la Massa Marmocchi stava già portando avanti per le strade di Milano in maniera autonoma e autogestita.

L’idea è quella di sensibilizzare le famiglie verso un nuovo tipo di mobilità non solo possibile e auspicabile, ma anche divertente, come sostengono da anni i milanesi impegnati nella massa marmocchi, ritrovandosi per portare a scuola in bici i figli propri o degli altri. Si spera così facendo che la giornata organizzata in maniera ufficiale da FIAB e Bimbimbici diventi la quotidianità per tutte le famiglie che vorranno iniziare una nuova abitudine verso un modello di mobilità sostenibile che faccia bene a noi e alle nostre città.

Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc


Costruttori: Cinelli

Fondendo Design e Performance Cinelli ha dato il via, negli anni Ottanta, ad un nuovo modo di vivere la bicicletta con valori creativi, anticonformisti e controcorrente e sicuramente Milano ha influenzato il posizionamento dell’azienda in quest’ottica alternativa ed innovativa.  L’azienda infatti non potrebbe essere così se non fosse milanese.

Avere fabbrica e polo creativo a pochi chilometri dal centro cittadino riesce a tenere Cinelli al passo con tutto ciò che accade e gravita nel capoluogo lombardo, ma non solo.

Il background di Antonio Colombo è estremamente legato e connesso al mondo dell’arte, della musica e del design italiano e internazionale.
Entrando negli uffici del team Cinelli si respira subito un’atmosfera cosmopolita in cui periferia, camion e capannoni diventano un ricordo lontano.
Quadri, oggetti artistici, cycling caps e poster coloratissimi accolgono il visitatore meglio che in una galleria d’arte. Dico meglio perché qui si respira la storia del ciclismo in ogni angolo e si vede quanto sia la passione a muovere ogni singola persona che vi lavora.

Usare l’espressione lavoro mi sembra quasi fuori luogo, ma probabilmente accecata dall’emozione del momento e delle immagini di Bruce Springsteen accanto a Bartali, Coppi, Keith Haring e della Bauhaus tutte assieme, non riesco bene a cogliere nei volti delle anime di Cinelli quell’aria sottotono tipica del mondo della produzione. Mi sembra che ci siano più che altro menti in fermento, vogliose di comunicare la loro passione e conoscenza del fare bici, di trasmetterlo offrendo qualcosa di sempre nuovo, bello e funzionale a tutti coloro che, come loro, non vedono l’ora di inforcare la propria bici e andare.
Che sia in giro per la città, su strade gravel, in velodromo o per una più giorni in montagna, la gamma di biciclette Cinelli ha tutto quello che avreste sempre sognato in una bici con il surplus di un design e di una ricerca grafica di qualità che non  lascia nulla al caso.

Arte,cultura e design: in Cinelli e tutto è estremamente connesso, dai modelli, materiali e nomi delle biciclette come in riferimento alla musica, grande passione di Antonio Colombo.

La bici gravel Zydeco, con il suo utilizzo pensato per i terreni più accidentati, richiama infatti la musica saltellante dai ritmi veloci, e dominata dall’accordion diatonico e dal caratteristico strumento ritmico a sfregamento conosciuto col nome di rub-board o frottoir, in origine pensata per le sale da ballo.

Cinelli è stata la prima azienda a portare l’arte nel mondo della bicicletta. Negli anni si moltiplicano le collaborazioni sempre fertili con i più importanti designers e artisti da tutto il mondo: dalla Laser di Keith Haring, al logo Cinelli disegnato da Italo Lupi, fino alla Supercorsa in edizione limitata realizzata da Barry McGee, o agli accessori di Mike Giant e all’attuale Art Program, la bici d’artista è la più autentica ed esclusiva espressione del marchio Cinelli.

Il capitale umano in un simile progetto è fondamentale.

Oltre a regalare alla comunità ciclistica oggetti di un innegabile valore, Cinelli ha anche il pregio di aver dato il proprio contributo al tessuto della bicicletta, italiano e non, credendo in un ciclismo comunitario che coinvolgesse svariate fette di mercato soddisfacendo le richieste più diverse: dal pedalatore urbano, all’atleta di gare criterium, allo stradista domenicale incallito.

La missione di Cinelli parte dalla città di Milano per andare oltre, seguendo l’evoluzione dei modi di pedalare e dei diversi modi di fare ciclismo.
La gamma di bici Cinelli offre prodotti per ogni tipologia di utente: per chi voglia farsi un giro nel fine settimana, scalare iconiche salite, accompagnare i bambini a scuola, raggiungere il luogo di lavoro, studio, trasportare pacchi o semplicemente fare la spesa.

I valori comunitari della bici restano sempre alla base del linguaggio utilizzato dall’azienda per comunicare con un orecchio sempre all’ascolto delle esigenze di chi va e vive la bicicletta ogni giorno.

Milano è una città molto europea e questo sicuramente aiuta i suoi abitanti ad avere una visione internazionale per quello che riguarda le tendenze che la abitano e così è Cinelli: un business che ha nel DNA l’attitudine a intercettare e interpretare ciò che accade all’estero, pur restando fortemente milanese nell’anima, restituendo ai cittadini molto di ciò che carpisce fuori confini, come un hub – un catalizzatore di tendenze e connessioni – come farebbe un profeta di tendenze.

Antonio Colombo, ancora oggi Presidente di Cinelli, entra nell’azienda di famiglia negli Anni Settanta. L’azienda, A.L. Colombo, era dagli anni venti un colosso specializzato nella produzione di tubi speciali d’acciaio, utilizzati per la fabbricazione di biciclette, automobili, motociclette, aeroplani; leader, negli anni trenta, col marchio Columbus, nella produzione di mobili razionali in tubolare di acciaio, in collaborazione con l’eccellenza internazionale del design e dell’architettura: Breuer, Terragni, Bottoni, Figini e Pollini, tra gli altri.

Il marchio Columbus viene dedicato nel 1977 all’esclusiva produzione di tubi speciali in acciaio per biciclette e si conferma leader di settore fino all’avvento del carbonio. Con la successiva acquisizione del marchio Cinelli da Cino Cinelli (professionista negli anni trenta e quaranta e poi geniale inventore e artigiano che ha regalato al ciclismo moderno il primo manubrio in alluminio e il primo pedale a sgancio rapido, l’M71) si crea un vero e proprio polo milanese della bicicletta: tubi, biciclette e componenti, che prende il nome, che conserva tutt’oggi, di Gruppo.

La visionaria mente di Colombo vede oltre il presente e trasforma l’azienda facendo viaggiare le invenzioni del “design made in Cinelli”.
La bicicletta era cambiata e così il suo modo di concepirla.

Si inizia a parlare di progetto totale grazie alla nascita del modello Laser che abbandona le congiunzioni introducendo la saldatura tubo su tubo nei telai da strada.

Cinelli e il suo modo di fare ciclismo sono estremamente radicati nel tessuto urbano: design, arredamento, grandi nomi del design e lifestyle sono vivi nell’azienda.

Ogni anno ad aprile, durante il Salone del Mobile, i dipendenti vengono invitati a visitare il Fuorisalone, facendo incetta di stimoli e tendenze creative in voga nel mondo della creatività legata al disegno di interni ma non solo.

Entrando nella sezione Columbus dell’azienda si respira un inconfondibile odore di acciaio e si vedono macchinari in continua funzione accanto ad un piccolo ma incredibile “museo” del design che raccoglie una nicchia della produzione di mobili razionalisti, sedie e poltrone create a cavallo degli anni Trenta e Quaranta con i tubi Columbus.

Per raccontare le tante storie presenti in questa vicenda imprenditoriale unica, è stato organizzato il ciclo di mostre dedicate al centenario, dal titolo “Columbus Continuum”. Il ciclo ha raccolto in tre mostre cento anni di storia dell’azienda milanese: dai mobili in tubolare metallico ai telai delle biciclette raccontati attraverso le serie tubi più rappresentative e innovative nella storia del ciclismo, per arrivare a Traguardo Volante, la mostra inaugurata il 24 settembre e dedicata alla stretta relazione tra Columbus, Cinelli e l’arte.

Columbus oggi produce quello che in azienda piace denominare “artigianato industriale”: tubi speciali sia per piccoli telaisti sia per grandi marchi. A questa produzione ha affiancato negli ultimi vent’anni quella di forcelle in carbonio.

L’importante è essere sempre al passo con le tendenze vivendo Milano come una porta verso il mondo e non in maniera autoreferenziale: questo approccio può far fare il salto di qualità nel modo di fare azienda, ma anche ad ognuno di noi nel suo modo di approcciarsi alla città e al ciclismo.
Non possiamo lamentarci che le cose non sono come le vorremmo e non facciamo nulla per cambiarle, ma ci limitiamo a guardare nostalgicamente e in maniera delusa e disillusa, le altre città europee.

Senza suonare banali e propagandisti, dovremmo davvero cercare di essere il cambiamento che vogliamo vedere attorno a noi. L’essere esterofili, sia a livello umano che lavorativo, non deve venir visto come una denigrazione del nostro essere italiani e milanesi, ma un modo per cercare di capire il valore aggiunto di ciò che abbiamo e trasformarlo tenendoci sempre al passo con i tempi, dando il nostro contributo unico e peculiare alle dinamiche di trasformazione in atto.

Possiamo citare qui il grande esempio del Rampichino o della linea Hobootleg prodotti da Cinelli. Rampichino è stata la prima MTB italiana, forse europea. Ispirata alle MTB americane ma reinterpretata secondo lo spirito e il DNA di Cinelli e distribuita nella sua prima edizione attraverso la rivista Airone – si compilava un tagliando d’ordine inserito nella rivista e si acquistava solo così. Per non dire della più recente linea di biciclette da viaggio Hobootleg, riferita per vocazione e letteratura agli Hobo americani e al loro spirito libero e avventuroso.

Cinelli è sempre stata un’azienda attenta alle necessità non solo dei ciclisti, ma anche della sua città, come ricorda la  presenza nella campagna per salvare il Velodromo Vigorelli, la collaborazione a diverse edizioni del  Bicycle Film Festival, l’aver attratto a Milano le Red Hook Criterium, gare a circuito per biciclette da pista organizzate a seguito delle edizioni newyorkesi nate per l’appunto a Brooklyn sotto il grande gancio rosso di Red Hook, zona iconica della periferia urbana.

L’impegno dell’azienda è molto forte anche per quello che riguarda il sostegno al cicloturismo, a partire dai modelli della gamma Hobootleg per arrivare al sostegno al Politecnico di Milano nei progetti per la creazione di itinerari ciclabili come VENTO o alla valorizzazione di itinerari ciclistici nelle zone del Parco Agricolo Sud Milano, supportando l’associazione sportiva Turbolento.

Da più di 70 anni Cinelli è una garanzia nella produzione di telai e biciclette: nonostante abbiano visto cambiare il modo di andare in bici degli italiani e degli abitanti di una città in continua evoluzione come Milano, sono riusciti a capirne le richieste, anticipandole e offrendo prodotti in linea con la domanda.
Un esempio potrebbe essere il mondo del gravel che risuona come una commistione di stili e di macro comportamenti del ciclista, oppure la grande riscoperta dell’acciaio anche nei telai più moderni.

Non possiamo quindi che apprezzare il ruolo catalizzatore di Cinelli nel riversare a Milano stimoli e ispirazioni prese da fuori, anche se paradossalmente, parlando con i vari protagonisti dell’azienda, il suo nome è ancora molto più conosciuto all’estero che in Italia sottovalutando spesso l’aspetto tecnico e performante dei suoi prodotti abbagliati da colori, grafiche e accessori non convenzionali.

Si sa che preziosità, hand-made, ricercatezza, leggerezza, customizzazione sono valori che non sempre vengono capiti da chi si sofferma a guardare solo la superficie delle cose, ma basta prendere in mano un tubo Columbus e fare un paio di pedalate su una bicicletta Cinelli, per capire di cosa stiamo parlando.
Gli standard creativi sono alti e l’impegno è quello di continuare nel solco di questa tradizione, sviluppando sempre nuovi prodotti.

Foto: Valeria Rossini