A Bressanone, alla partenza della prima tappa del Tour of the Alps, si racconta una storia che parla di rose e vigneti. Accanto ai filari delle vigne, spiegano i contadini, vengono poste sempre delle piante di rose, il loro compito è proteggere le piante di uva dalle malattie a cui sono soggette. Sembra infatti che le rose contraggano la stessa malattia circa una settimana prima, i contadini, in questo lasso di tempo, possono provvedere alla cura delle vigne. Un anziano signore, al nostro stupore, commenta: «Non conosco questa storia. Noi umani, però, non ci siamo inventati proprio nulla, ciò che facciamo, in fondo, lo abbiamo imparato dalla natura. Chi sono i gregari nel ciclismo se non coloro che proteggono? Pensateci».
Anche Thibaut Pinot pensava a qualcosa stamattina. A noi sono tornate in mente quelle parole rivolte piangendo a Marc Madiot al Tour de France 2019: «Cosa ho fatto per meritarmi questo?». E forse è proprio perché sanno che il francese tritura pensieri che i suoi compagni cercano di distrarlo ad ogni occasione. Può essere una pacca sulla spalla, può essere anche solo uno sguardo. L’idea è di interrompere quel flusso di pensieri e ricordi che, quando le cose vanno male, penetra nella mente, e la fa ammalare. Così ci siamo detti che quel signore aveva ragione, che anche a salvarci e a salvare abbiamo imparato dalla natura.
Alessandro De Marchi questa cosa l’ha riscoperta grazie a Chris Froome quando, durante gli allenamenti sul Teide, il keniano bianco gli ha proposto delle scorciatoie per tagliare il percorso. Il friulano non poteva nemmeno immaginare che quei “tagli” sul tracciato, in realtà, fossero salite ripide come una rampa di garage. Ora ci scherza, ma in quei momenti qualcosa di malevolo deve essergli saltato in mente. Si sarà detto «alla faccia del percorso più breve» e poi avrà seguito Froome, come fanno i gregari con i loro capitani, quasi fossero ordini di squadra.
Lo chiamano “Rosso di Buja” perché ha i capelli rossi e le lentiggini. Parafrasando Giovanni Verga ed il suo Rosso Malpelo, potremmo dire che De Marchi ha i capelli rossi e le lentiggini perché è un coraggioso, e non ci sbaglieremmo di molto. Lui che è scattato appena tre chilometri dopo il via dalle case color pastello di Bressanone, con Marton Dina e Felix Engelhardt, ed era lì davanti quando la nebbia nascondeva i pini del Brennero e la neve si infrangeva contro il volto, quasi ad addormentare la pelle. Sì perché anche la neve fa male quando la velocità è intensa. Come il vento, croce e delizia, su e giù da Axams, quando insisti pur sapendo che è finita. Così fanno i ciclisti e così fanno i gregari, anche quando sono davanti, anche quando non inseguono ma sono inseguiti. Lo può raccontare Cesare Benedetti che non è qui ma, in giornate come queste, è come se ci fosse. Come se dicesse ancora quelle parole pronunciate a Pinerolo, due anni fa. «Mi hanno insegnato che si pedala sino alla fine perché la gara finisce dopo il traguardo». La più cruda realtà, perché quando fatichi è tutto crudo, impietoso. Ancor di più nel momento in cui vieni raggiunto dal gruppo e ogni cosa sembra inutile, quasi come quelle rampe sul Teide. Non lo è se serve a darti il coraggio di riprovarci un’altra volta. Di restare lì ed inventarti un’altra strada per andare avanti.
In fondo, nel ciclismo, la storia delle rose e delle vigne la conoscono in molti. Per esempio, Pello Bilbao, Mattias Skjelmose Jensen, Daniel Savini e Santiago Umba che, partiti ai dieci chilometri dal traguardo, per poco non arrivavano. Scattati proprio quando tutto sembrava impossibile, loro che ad essere ripresi e a ripartire hanno fatto l’abitudine, ma non si sono stancati di crederci ancora.
Gianni Moscon, invece, questa storia, probabilmente l’ha sempre saputa, essendo cresciuto in Trentino, sapendo quasi certamente di vigne e di campi, di rose e potature. Così si è alzato sui pedali ed è scattato in un momento in cui il plotone si stava rilassando, dopo essere tornato compatto. Per lo stesso motivo non si è spaventato quando ha visto Idar Andersen piombargli a ruota. Freddo, lucido. Ha preso fiato ed ha aspettato pazientemente il momento di ripartire. Quando lo ha fatto, nessuno ha potuto nulla. Al traguardo ha detto che oggi era tutto perfetto, che non si poteva chiedere di meglio. Ed oggi, in effetti, la perfezione c’era: nello scatto, nella tranquillità, in Innsbruck, città che Moscon conosce bene, nella volata e nella vittoria. Persino nel fatto che domani sarà il suo compleanno. I due mesi che lo hanno portato qui sono da dimenticare, infernali. Come l’infortunio che lo ha bloccato, come l’impossibilità di tornare, perché tornare può davvero metterti in salvo, come partire.
Perché un mezzo per salvarsi e per salvare c’è sempre. Certe volte ti salvi, altre ti salvano. Come le rose con le vigne. Basta ricordarselo. E Gianni Moscon se l’è ricordato.
Foto: Dario Belingheri / BettiniFoto © 2021