Il sole mattutino di giugno, già alto, è letale come una sentenza. Il cielo, lattiginoso, si frastaglia tra i merli della Torre Raimonda e l’immenso campanile intorno alla piazza centrale di San Vito al Tagliamento. L’aria, densa, si taglia a fette come fosse una torta appena sfornata. Le vie si riempiono di curiosi, tifosi, l’effetto-ciclismo regala sempre attenzioni particolari.

La banda musicale, vestita di bianco e nero, racconta l’idillio tipicamente popolare tra la gente e le corse in bici. Intona Mameli e Beethoven, Pachelbel e Strauss, mentre Rihanna echeggia dalle casse del palco dando alla scena un tocco tra il kitsch e il surreale come a un matrimonio raccontato da Matteo Garrone.

Matxín gonfia il petto passando tra i bus delle squadre dopo aver parcheggiato un SUV grande quanto una casa e con su scritto UAE Team Emirates; si coccola il suo pupillo: da lì a poche ore, sull’arrivo di Castelfranco Veneto, Juan Ayuso vincerà infatti il Giro Under 23. Primo spagnolo della storia, quinto corridore straniero su cinque edizioni da quando la corsa è rinata.

Si dice che talenti di questo genere ne nascano uno ogni tot anni – impossibile quantificare è una considerazione a spanne – e allora chi segue il ciclismo si deve ritenere fortunato, perché il ragazzo di Alicante, nato poco più di 18 anni fa, è uno di quelli che alzando l’asticella farà parlare, alla stregua di quei nomi che in queste ultime stagioni ci riempiono la bocca e fanno brillare gli occhi.

A sentire tecnici e appassionati, Ayuso è già da considerare: “uno di quelli lì”, poi, si sa, il passo dalla gloria al farsi stritolare dalle attese non confermate è breve. Impressiona la sua facilità di pedalata, in salita e a cronometro – senza il problema alla sella avrebbe vinto pure quella – lo spunto negli sprint ristretti e nelle tappe miste, la sua capacità di correre in gruppo e di gestire la squadra pur essendo al primo anno tra gli Under 23. Completo, maturo, dai tratti tirannici.

In queste ore è ufficialmente professionista in maglia UAE e fra due mesi scenderà di nuovo di categoria provando l’accoppiata Giro-Avenir come riuscì soltanto a un certo Baronchelli. Matxín se lo coccola, Pogacar imparerà a conviverci, perché parlando di Ayuso si intende proprio “uno di quei corridori lì”.

La Colpack lo ringrazia e lo celebra dipingendosi faccia e capelli di rosa sul traguardo finale e lanciandosi in un abbraccio infinito sotto un caldo clamoroso che costringe la gente a rifugiarsi sotto i portici di Castelfranco Veneto, scambiando il casuale incontro con le altre persone in una brezza di vento rigenerante.

Un cane abbaia alla vista dei ciclisti, bambine urlano e salutano ogni passaggio delle auto, mentre gli spettatori, nella curva lastricata che immette al rettilineo finale, a ogni frenata tremano: “fate piano!”. Un coro da stadio.

Ayuso ha dominato la corsa, ma il Giro dei giovani è anche nei tentativi di Healy. Se esistesse il premio combattività come al Tour, l’irlandese dovrebbe vincerlo ad honorem per questi anni passati nella categoria inseguendo il successo andando sempre in fuga.
Sabato, nella San Vito al Tagliamento-Castelfranco Veneto è arrivato quel successo, come arrivò al Tour de l’Avenir qualche anno fa. Al via glielo annunciamo: “Today is the day, Ben” e lui ci risponde con un ringhio a denti stretti e occhi iniettati di rabbia agonistica: d’altra parte la scaramanzia è compagna fedele di ogni corridore.

Il Giro Under 23 è anche la tranquillità con la quale Garofoli è cresciuto giorno dopo giorno scortando sul podio il compagno di squadra Vandenabeele; sono i successi di tappa della Biesse Arvedi, che non vinse con Conca e Colleoni l’anno passato, ma ci riesce un po’ a sorpresa con Bonelli e Ciuccarelli. Oppure quello della InEmiliaRomagna guidata da Michele Coppolillo.

Il Giro Under 23 è El Gouzi ritrovato sulle lunghe salite, Piganzoli, miglior 2002 in classifica dopo Ayuso, o Belleri che cade in maglia verde. Vorrebbe maledire il suo mestiere – forse lo fa – e ritirarsi, ma arriva lo stesso al traguardo ultimo e incupito, e il giorno dopo ripartirà per l’ennesima fatica.

Il Giro Under 23 è Verre che appare sempre elettrico e nervoso come una lampadina che si accende a intermittenza: migliore italiano in classifica e chissà che nel 2022 non possa testarsi come capitano. Il Giro Under 23 è nelle voci di mercato, di chi passa e chi resta, di chi a fine corsa lava la bici o di chi, maglia aperta, non ne può più.

È il sorriso di Hellemose o lo sguardo del suo compagno di squadra Gaffuri. Da giovane vinceva le corse campestri, lo scorso anno lo raccontammo al Giro del Friuli ritirato per freddo e pioggia e fradicio in un bar con lo sguardo perso. Sabato, sotto il sole, lo sguardo è sempre quello: malinconico, incerto come la vigilia di una tappa di montagna.

Il Giro Under 23 è una chiacchierata con un collega, con un amico, qualche parere tecnico con un direttore sportivo. È Axel Merckx che parla di Tour o Commesso che nasconde lo sguardo dietro gli occhiali come se corresse ancora. Il Giro Under 23 è una lunga strada percorsa quest’anno perlopiù sotto il sole.

Il Giro Under 23 è la felicità di un abbraccio caldo: ragazzi che sognano un successo, il salto nel professionismo o più realisticamente un gesto di consolazione a fine corsa, da un compagno, una ragazza, oppure un genitore, ansioso, ma commosso.