Consolazioni

La consolazione Filippo Fontana la trova in quella curva da stadio che ribattezzeremo, tanto per stare più comodi, "Curva Fontana", e che ne accompagna ogni suo passaggio con urla, trombe, sirene, motoseghe, generatori, e i vari "Vai Pippo!" che riempiono, insieme all'odore di freni e di miscela, l'ultimo pomeriggio di gare al campionato italiano di ciclocross.
È grigio il tetto sul microcosmo di Variano di Basiliano, sin dal mattino. Ed è grigio sul destino di quasi tutti i corridori. Fontana era in testa, o meglio, se la giocava quasi testa a testa con Dorigoni, davanti uno, davanti l'altro; poi la catena rotta, il cambio di bici, una foratura subito dopo, insomma un compendio di sf... ortune varie e l'avversario si faceva piccolo piccolo ai suoi occhi sullo sfondo, mentre andava a conquistare il tricolore della gara élite.

Non c'è consolazione di nessun genere, invece, per Carlotta Borello: in lotta con Gaia Realini per il titolo Under 23, anche lei, causa incidente meccanico, abbandonava i sogni della maglia verde-bianco-rossa affrontando gli ultimi due giri e mezzo tra le lacrime ma concludendo ugualmente la gara. Ha 20 anni compiuti un paio di giorni fa, Carlotta, e migliaia di altre chance davanti. Si consoli.

La consolazione, invece, Nicolas Samparisi la cerca chiamando sua mamma dopo il traguardo. Ha freddo, Nicolas, caviglie sottilissime da scalatore di altri tempi, fisico da fenicottero, «ho le mani gelate», sostiene a voce e con ampi gesti. Non trova pace subito dopo la gara, uscito a sinistra delle transenne appoggia la bicicletta sulla rete di una casa. Impreca, ha bisogno dei guanti e di indumenti di ricambio che sua mamma ha nello zaino. Anche per lui, nonostante il terzo posto finale tra gli élite, l'amaro in bocca per aver rotto la catena e per aver forato: che mestiere infame quello del ciclocrossista, a schivare sassi, ad assecondare cunette e a vedere crollare le speranze per una forza esterna che ci viene facile chiamarla sorte avversa.
Dorigoni consola il suo team manager Alessandro Guerciotti al telefono. È assente Guerciotti, probabilmente gli avrà detto che avrebbe voluto essere lì a vederlo in maglia tricolore, ma Dorigoni lo spiazza: «Mettila così: almeno dalla televisione hai visto la gara meglio di tutti».

Per Silvia Persico più che consolazione c'è la calma come segreto del successo nella prova élite femminile: «Ho fatto un paio di errori, poi mi sono detta che l'unico modo per non sbagliare era gestire tutto con tranquillità». Quella che oggi l'ha distinta da tutte le altre.
La frenesia invece colpisce Zoccarato, professionista su strada in maglia Bardiani che da un po' di settimane si misura nel ciclocross. In uno dei punti più tecnici del percorso, sbaglia una curva e se la prende con un albero che all'improvviso gli si figura davanti.

Toneatti, invece, ragazzo praticamente di casa e cresciuto a pane e ciclocross mangiato proprio nel parco del Castelliere, stacca nel finale Leone, scivolato, e vince la gara degli Under 23. Trova conforto, Toneatti, se ce ne fosse bisogno, prima ancora che nel tricolore da indossare sul palco, in un caldo abbraccio appena superato il traguardo.
È ormai sera a Variano, mentre scriviamo queste parole. Il campionato italiano è finito e operai a lavoro smontano il palco delle premiazioni e spostano le transenne. Come una beffa il cielo si è aperto, ma non serve a nulla: il sole non si è visto per tutto il giorno, il conforto lo abbiamo trovato in una splendida giornata piena di storie, fango e biciclette.

Foto: Chiara Redaschi


Fa' la cosa giusta

Mentre Arianna Bianchi tagliava il traguardo conquistando l'ultimo titolo italiano in palio oggi, quello della categoria allievi, pochi metri più avanti di lei una ragazza col numero 135 sul caschetto attraversava il segmento in asfalto con la bici sulle spalle.

In realtà era da diverso tempo che procedeva a passo d'uomo - l'avevamo già notata da lontano - ma voleva raggiungere ugualmente il tratto in erba, ormai per la verità ridotto, dal passaggio di centinaia di migliaia di biciclette, a una poltiglia di mota, mettere giù la bici e provare a farla ripartire. Niente da fare.

Appoggiava, sul terreno incerto, il mezzo appesantito dalla fanghiglia e dalla delusione, provava a pedalare, ma la catena opponeva resistenza come se una forza avversa spingesse al contrario. Mesta, rimetteva la bici in spalla, decidendo di procedere lentamente. «Fino a dove vuole arrivare?» - ci siamo chiesti, ma dopo due curve si fermava, usciva dal tracciato e trovava lì qualcuno, un'amica, forse la sorella o una compagna di squadra, e scoppiava a piangere, facendosi avvolgere in un abbraccio consolatorio. Non aspettava altro.
La giornata di oggi vedeva in gara ragazzi e ragazze, esordienti e allievi, ma lo spettacolo, oltre che dall'infida collina che si erge sopra il circuito di Variano di Basiliano, arrivava da dietro le fettuccine che delimitavano il percorso.

Un ragazzo, molto prima dell'inizio delle gare, si era portato su un tratto dove era possibile vedere passare la corsa più e più volte. Lì, la visuale era perfetta, seppure in ombra (e quindi al freddo), tra curve in contropendenza, una parabolica dall'importante contenuto spettacolare e dall'alto coefficiente di difficoltà, la scalinata da fare a piedi («mi raccomando: a piccoli passi - tac tac tac!» urlava un tecnico) che portava in cima a un monumento, e lui, sempre il ragazzino salito su di buon mattino, con sedia da campeggio, motosega, generatore a cui aveva attaccato il suo telefono facendo partire musica da discoteca e sirene («senti questa dei pompieri che bella!»), se la spassava, lanciando, ironicamente, consigli ai coetanei in bici su quale fosse la migliore traiettoria da prendere.

E poi i genitori e i tecnici, i quali, spesso, rivestono lo stesso ruolo. Abbiamo visto quelli che spingevano a suon di urla, chi si lasciava andare persino a qualche parolaccia, chi consolava il figlio con le ginocchia sbucciate, chi ne redarguiva un altro: «Non ti permettere mai più di fare un gestaccio a un tuo avversario».
Chi, in preda all'agonismo, urlava al walkie talkie: «Campioni d'Italia! Campioni d' Italia!». Chi, semplicemente, si prodigava in un abbraccio, chi saltava da una curva all'altra e scivolava a terra, il tutto per incitare le ragazze della sua squadra. Una mamma attraversava il percorso per andare a lavare la bici del figlio, un papà applaudiva la sua bimba, ultima, ma felice e sorridente quando sentiva urlare il suo nome, convinta, in modo legittimo, di fare la cosa giusta.

Foto: Chiara Redaschi


Bici rotte, amatori e acrobazie

«È un circuito bellissimo». Parola di amatore, anzi di uno dei campioni italiani tra gli amatori oggi, Massimo Folcarelli, 47 anni, al suo diciottesimo titolo nella categoria Master. Beh, mica male.
Ha messo su una squadra un po' di anni fa, la Race Mountain Folcarelli Team, con sede ad Anzio, provincia di Roma, un progetto ambizioso per tutto il Centro Sud. «Perché - ci tiene a specificare - aumentano appassionati e praticanti: il ciclocross da diverso tempo sta prendendo piede anche da noi».

In squadra corre pure suo figlio Antonio che va forte e si vorrebbe giocare un buon piazzamento domenica tra gli élite. «Inizia tutto così: padri che corrono tra gli amatori e figli che si appassionano e si gettano nella mischia». E quando scorri le liste di partenza o senti lo speaker Brambilla che snocciola vita e miracoli di tutti i partecipanti come fosse l'elenco dei santi recitato a memoria nell'omelia domenicale, ti accorgi che è pieno di figli o sorelle, padri e madri d'arte.

È un tracciato bellissimo, davvero. Tecnico, vario, che cambia di ora in ora, «com'è giusto che sia» racconta un altro dei tanti protagonisti di oggi. La sua bici a fine corsa è una crosta infangata dal terreno di Variano (mi raccomando, l'accento cade sulla seconda a) di Basiliano, provincia di Udine, in una giornata che si apre fredda da farti cadere le dita dei piedi, procede ventosa ma serena, si chiude con un cielo che si tinge tra il viola e il blu.

Il circuito parte piatto, veloce, e si lancia, tecnico e suggestivo, verso l'alto nel parco del Castelliere di Variano. Alle 9 era tutto gelato coperto di brina mista a un filo di neve ghiacciata, residuo di una spruzzata di un paio di giorni fa. Il terreno è duro, ma un'ora dopo si iniziava a creare quella tinta di fango, con le sue canalette da battezzare giro dopo giro, che tanto piace a chi corre uno sport che ha bisogno di una cura particolare del dettaglio. Dal tipo di copertone alle atmosfere, dalle migliori traiettorie da preferire, fino alla scelta dei tratti da correre a piedi o in bici.
Gli allenatori si fermano vicino a segmenti così complicati da apparire, a volte, persino enigmatici. Spiegano ogni dettaglio: «Se non riuscite a farla tutta in bici, sganciate un pedale e spingete come fosse un monopattino». Oppure: «Scendete di sella prima di scollinare, ma mi raccomando: la bici tenetela sul lato destro». Ragazzi e ragazze lo guardano come si fa con un maestro a scuola che sta spiegando una materia affascinante e della quale non si può perdere nemmeno una parola.

Una discesa in particolare, in mattinata, è quasi impraticabile, ripida, dura, sconnessa. Qualcuno con una piccozza lo smussa e ne tira via i sassi. « Tiro via i claps!» (appunto, pietre) urla in friulano a chi gli chiede cosa sta combinando. Altrimenti si corre il serio rischio di spaccare una ruota.

Amatori di ogni età si mescolano con ragazzi e ragazze, persino bambini: qualcuno urla "Forza mamma!" che è un po' l'inverso di quello a cui si è abituati a sentire di solito alle gare con i genitori che incitano i figli. Esordienti e allievi fremono per provare il tracciato. «Prima tocca a loro, poi a voi» li cerca di calmare uno degli organizzatori.

Il vociare sotto la collina, dove ci si scalda prima di gareggiare, appare quasi il ciacciare a scuola, un ronzio di insetti: sono i ragazzi che si dimenano e fremono sui rulli. Si susseguono gli arrivi e le partenze. Amatori prima e poi le staffette che fanno il loro esordio nel campionato italiano. Vinceranno le squadre "di casa", lo Jam's Bike Team di Buja e la DP66 Giant SMP.
Terra e biciclette vengono maltrattate per il bene del ciclismo e dell'agonismo. Si alternano facce e divise, capelli grigi e volti segnati dal fango incrostato. Sorrisi e delusioni. rotture, acrobazie e cadute. Ci sono più camper che a un raduno di camper.

Poi, in mezzo a una colonna sonora kitsch che mescola Battiato, successi dance anni '90 rifatti in spagnolo e l'inno di Mameli, scende il tramonto che tinge di rosa le bianche montagne friulane sullo sfondo.


Maghalie Rochette e la forma del fango

C’è stato un giorno, neanche troppo lontano, in cui Maghalie Rochette ha pensato di smettere. Era a bordo strada, a piangere, mentre i pedali non giravano e, sfinita, ha chiamato il suo allenatore. «David ho deciso di lasciare il ciclismo. Non ce la faccio più. Ho tanti altri interessi, la lettura, la scrittura, i podcast che realizzo, mi dedicherò a loro». Lui l’ha ascoltata e poi, seraficamente, ha ripreso a parlarle: «Vuoi mollare? Fai pure, non te lo impedisco e sicuramente hai le tue ragioni. Sappi, però, che un lavoro normale ti impiegherà circa otto ore al giorno e per le tue passioni non avrai comunque tempo. Il ciclismo ti stanca ma ti piace e, in ogni caso, il tempo te lo lascia».

Così Maghalie ha cambiato idea. Spesso si è sentita estranea, non al ciclismo ma all’Europa a cui è arrivata dal Canada, dal Quebéc. Dalle piccole cose perché il senso di appartenenza si crea attraverso i dettagli. Soprattutto attraverso la condivisione delle difficoltà. A chi le dice che il ciclocross è una strana disciplina, forse anche un poco folle, risponde che è vero ma è proprio per questo che attrae, è per questo che le si resta legati. «A volte sembra che la tua bici non sia attrezzata per tutto ciò che devi affrontare, ma ti basta riuscire a prendere quella curva che pensavi di non riuscire a tenere per dimenticare tutto. Ci sono erba, sabbia, colline, fango e ora anche ghiaccio». ha detto a Cyclingtips.

L’unico motore per andare avanti, a suo parere, è proprio la sperimentazione di nuovi territori e nuove prove: ciò che blocca è la paura delle novità, il restare a ciò che si è sempre fatto. Rochette è riconoscente al passato e alle atlete che con il loro operare hanno fatto in modo che il cross sia ciò che è oggi anche dal punto di vista economico. Tutti corrono per passione ma c’è un fatto di sostenibilità economica perchè «anche noi cicliste andiamo a fare la spesa».

Spesso Rochette si è trovata ad essere l’unica canadese in gara. In Canada, purtroppo, si investe ancora troppo poco nel ciclismo, lei ed il compagno investono nelle giovani generazioni, non solo in termini di denaro. I gesti contano: «Se un giovane mi vede andare a podio sa che può riuscirci anche lui. È una motivazione per entrambi». E lei è sempre lì, si butta nella mischia, prova, è spesso nelle prime.

Quando torna nel camper, dopo le gare, ad attenderla c’è Mia, il suo cane. Per esserci, questa femmina di Retriver, ha affrontato un viaggio di sei ore, da Montreal e Bruxelles. Rochette aveva dei dubbi, poi ha pensato che in aereo avrebbe dormito e che, in fondo, Mia non poteva che essere con loro, con la sua famiglia. La sua presenza significa normalità, significa una tranquilla passeggiata a sera, tranquillità. Poi ci sono i valori importanti, quelli che vengono in mente vedendo un cane che fa la festa al padrone che torna da lui: «Mia mi ha insegnato ad essere umile. A lei non interessa se ho avuto una gara brutta o se ho vinto. Per lei sono sempre la stessa».


L'ottavo giorno

E l'ottavo giorno un incidente meccanico. Wout van Aert, smette di pedalare. Scende dalla bici e poi è costretto a inseguire. E l'ottavo giorno Thomas Pidcock pigia sull'acceleratore (in particolare tra 4° e 5° giro, come una furia, chiusi sotto il tempo di sette minuti), piccolo sì, ma forte, guidatore sublime, tecnicamente impeccabile sul circuito olandese. Impeccabile o quasi, con un errorino che nel finale rischia di pregiudicargli il successo: d'altronde il ciclocross non ricerca la perfezione nonostante i tentativi connessi a cui aspira van Aert. Il ciclocross è arte e come l'arte che piace a noi è imperfezione, tecnica, ricerca e istinto. È forza nelle gambe e nella testa.
Parlavamo di piccoli, ma tenaci, ed ecco spuntare Eli Iserbyt, prima a comandare, poi a tiro quanto non bastava per superare il rivale (di sempre), ma per creargli apprensione, quello sì, salvo dare tregua a quelle gambe che da mesi macinano chilometri e sembrano non fermarsi mai.
Hulst è Olanda, non è Belgio. Davvero poco cambia, ciclocrossisticamente intendendo. Il Vestingcross di Hulst è tecnico, ma velocissimo, il terreno varia e c'è un enorme mulino, lo Stadsmolen, tra le attrazioni da visitare. Non fossimo in piena pandemia, nella giornata di ieri sarebbe stato bello andare lì e farsi un giro. Se non è altro perché era in piena vacanza natalizia. Poi in quel mulino i ciclisti ci passano dentro in gara, si gira attorno e tra le mura. Si sale, si salta e si scende, si corre a piedi, insomma ad Hulst, che non è Belgio ma è Olanda, ci si diverte e si potrebbero fare anche un sacco di foto da ricordare. Non manca nulla (a parte van der Poel). È il ciclismo questo, e per fortuna il meglio deve sempre arrivare.
E l'ottavo giorno Wout van Aert rimonta fino al 4° posto dopo essere rimasto fermo per quasi un minuto ed essersi messo a lottare spalla a spalla con gente che incrocia solo - a malapena - sulla linea di partenza o in ricognizione.
Poche ore prima, a Baal, a casa Nys, un altro problema, ma lì un percorso più lento gli permise la rimonta, qui si interrompe senza togliere il fascino a una gara che regala un degno vincitore. Perché se non vince van Aert, ma lo fa Pidcock è comunque qualcosa di notevole. Non tutti sono d'accordo nel parlare di "big three" o "tre tenori" o vedete voi, ma a oggi, da quando è tornato van Aert, hanno vinto solo loro due.
Ha guidato magnificamente Pidcock, mentre da dietro van Aert rimontava e rimontava nella sua livrea nero-giallo-rossa. Dopo pochi minuti piombava su Venturini, il campione di Francia, 20° al traguardo, uno che non correva in coppa del mondo di ciclocross da diversi anni e l'ultima volta che lo fece arrivò 4°. Lo dribblava, sguardo da segugio in ferma, sempre rivolto in avanti a caccia.
Si ferma a sette di fila van Aert, uno che vince in media tra cross e strada una gara su tre, circa, e che nei giorni scorsi ha pubblicato una serie di dati relativi al suo 2021 tra cui 205 giorni in cui ha dormito fuori casa. Si dice che forse non ci sarà al Mondiale e sarebbe lo spot peggiore per il ciclocross, soprattutto oggi che c'è preoccupazione sulle condizioni di Van der Poel.
E allora Pidcock sogna concretamente di conquistare il titolo mondiale in tre specialità (cx, strada e mtb) e intanto approfitta e inizia a vincere qua e là, mentre Eli Iserbyt si porta a casa la coppa del mondo che proprio male male non è, succedendo nell'albo d'oro proprio a Wout van Aert.
E così l'ottavo giorno qualcosa cambia nella sfera del ciclocross, mentre restano intatti il divertimento e qualche accento con sbavatura.


Il giovane Owen

Vecchio a 26 anni, andateglielo a dire a Logan Owen che salvo modifiche al suo destino nel 2022 resterà senza squadra. Anzi tecnicamente è come lo fosse già. A settembre gli è stato comunicato che nel giro di qualche mese avrebbe dovuto restituire tutta l'attrezzatura: bici, divise, eccetera.

Sperava nel salvataggio della Qhubeka una volta compreso come nella EF non ci fosse più spazio per lui. Ha provato a bussare alla porta di altre squadre, trovandola chiusa.

E se qualcuno avesse seguito in maniera distratta la sua carriera, lo riportiamo noi sulla retta via: Logan Owen "non è Merckx" (cit.), ma nemmeno l'ultimo che passa. Lui si racconta come un corridore capace di muoversi in gruppo come fosse uno dei migliori; capace di leggere la corsa, capace di dare una mano al capitano entrandogli nella testa oppure come se lo potesse prendere per mano aiutandolo a entrare nei pertugi che si creano in quella matassa che è il plotone.

Giovane, altro che vecchio. Solido, altro che molle. Nel 2015 vinse la Liegi-Bastogne Liegi-Under 23 - oppure Espoirs, come preferite - battendo Sivakov e Guerreiro, due che si fanno o si stanno facendo bene e si faranno, anche tra i professionisti.

Ha mollato il ciclocross per la strada eppure nelle brughiere di tutto il mondo ha sempre detto la sua in maniera costante, pesante. 10 volte campione nazionale americano, nel 2013 arrivò 4° nel mondiale junior che si correva proprio negli Stati Uniti. C'era un unico favorito (indovinate chi? Il suo nome inizia per van, e batte bandiera olandese) che vinse. Dopo un problema in partenza, Owen rimontò dal 19° posto mostrando quando valesse nel muoversi tra le canalette in sella a una bici da cross. Alla vigilia pareva proprio l'unico contendente al titolo che spettava, quasi per assonanza con il suo talento, a Mathieu van der Poel.

Pare abbia deciso che, qualora le cose per lui dovessero andare male per la strada, si butterebbe nel gravel e si riconcilierebbe con il ciclocross. Ci ha pensato qualche settimana fa, facendo anche un pensierino al mondiale che nuovamente si correrà negli Stati Uniti, ma i problemi logistici lo hanno frenato: «Il problema - raccontava a Cyclingnews - è spostare me, la mia compagna, i miei cani e i miei due gatti» Un incubo, afferma.

Mentalmente, poi, trova difficile Owen allenarsi come se fosse sotto contratto. Un po' spingi, sì, ma poi dentro ti resta quella paura di non poter correre più l'anno prossimo.

E se non dovesse trovare un contratto? Il destino di Owen ha due facce. «Forse troverò un lavoro normale o tornerò a scuola. C'è un buon programma infermieristico da dove vengo, o potrei fare un po' di coaching per il ciclocross dalle parti di Seattle. Però se devo essere onesto ancora non so nulla di quale sarà il mio futuro». Che suona un po' come quella celebre farse di Salinger: "Avevo sedici anni, allora, e adesso ne ho diciassette, e certe volte mi comporto come se ne avessi tredici. È proprio da ridere, perché sono alto un metro e ottantanove e ho i capelli grigi". Vada come vada, il futuro tuttavia resta dalla parte del giovane Owen.


Cinque su cinque

Cinque su cinque, Wout van Aert appare inarrestabile. Cinque su cinque, Wout van Aert non fa più prigionieri. Cinque su cinque, Wout van Aert detta la sua legge nel ciclocross e non ci sono van der Poel al momento che tengano («È stata solo una brutta giornata, ma sono cose che succedono» dirà a fine corsa, secondo alcuni media fiamminghi pare si possa essere pure fatto male di nuovo a quel ginocchio che abbiamo già "raccontato" come ferito in mountain bike. Sportivamente parlando sarebbe una disgrazia).
Non c'è Pidcock a tenerlo, l'inglese che, lontano un minuto, lotta per un piazzamento contro Iserbyt. «È un cross che non mi si addice eppure sono andato forte». Si riposerà e lo rivedremo a Capodanno.
Cross per gente potente ieri a Zolder, cross per van Aert. Qualcuno dice "altra categoria" in effetti sarebbe dura contraddire quei qualcuno. In pochi minuti ha cancellato lo sforzo del giorno prima, seppur camuffando a parole l'apparente facilità con la quale in questo momento vince, scusate volevamo dire domina. Ha detto infatti van Aert di essersi sentito parecchio stanco dopo la vittoria del giorno prima (meno male!), che però già nel riscaldamento del mattino gli pareva di aver recuperato bene dallo sforzo. Sarà al via nelle prossime gare solo per vincere. «D'altronde mi alzo la mattina e corro per questo».
Alla domanda se lo vedremo al mondiale è serafico: «So che da qui a fino a quando non prenderemo una decisione me lo chiederete ogni giorno. Intanto arriviamo al campionato belga e vediamo di allungare la striscia vincente, poi decideremo».
Pare che il programma di corse su strada potrebbe togliercelo dal fango il 30 gennaio nel mondiale di Fayetteville. Sarebbe quantomeno un brutto affare non vedere questo van Aert quel giorno lottare per l'iride che oggi indossa van der Poel. Forse al momento non vi sarebbe corridore più degno di vestire la maglia più bella del ciclismo.


Grappe, panettone, dei e van der Poel (oggi finalmente in gara)

A qualcuno può sembrare una cosa difficile da immaginare: Mathieu van der Poel, uno che aveva appena imparato ad andare in bicicletta e già lo trovavi in giro, con la classica bici più grande di chi la porta, per le gare più importanti del mondo, mentre suo papà si prendeva a legnate con i suoi avversari; uno che ha nei suoi geni Poulidor e che completa un'opera da romanzo conquistando quella maglia gialla che il nonno non aveva mai vestito; uno che quando corre appassiona chiunque, che a volta polarizza e catalizza, è vero, anche se non ci è ancora chiaro per quale motivo la passione per van der Poel non possa essere rivolta allo stesso modo anche su van Aert e viceversa, ma forse è il mistero della fede, è la regola non scritta del tifoso. Insomma uno così che bazzica nei libri di storia nel ciclismo con facilità, tocca immaginarselo che scorrazza con gli amici per i boschi in mountain bike.

Eppure anche van der Poel è umano e infatti come una persona normale cade quando è in giro con gli amici e si fa male. «E quell'infortunio ha rischiato di rovinare la mia intera stagione nel cross» ha raccontato qualche giorno fa in conferenza stampa.

E difatti esordio nel cross ritardato, ma uno come lui tuttavia non poteva che scegliere una prova che si corre in piena vacanza natalizia per farci gustare al meglio panettoni e grappe sul divano quest'oggi dalle ore 15.

In Belgio hanno scritto che la presenza di van Aert e van der Poel durante queste manifestazioni di fine anno, equivale a gustarsi del vin brulé davanti al camino.

A Dendermonde Mathieu ci sarà, anche se non al meglio della forma: il taglio al ginocchio rimediato nella caduta in mountain bike è una ferita che si rimargina, ma è un campanello d'allarme il problema alla schiena che si porta avanti da tempo e da lontano (da Tokyo).

Pretattica? Mah. Oggi non parte certo favorito, il che può sembrare una notizia, ma non lo è. Oltretutto a Dendermonde, gara che esalta le qualità podistiche del suo rivale preferito («mi aspettavo andasse forte, ma non che dominasse in questo modo»), sarà van Aert ad avere oneri e onori dell'uomo da battere, ma poco importa: non poteva esserci giorno migliore per stare sbracati sul divano: finalmente tutti e tre (c'è pure Pidcock), ma non è che esistono solo loro tre, Vanthourenhout, Iserbyt, Aerts, Sweeck, Hermans insomma ci sono praticamente tutti, pure gli italiani.

Certo, gli altri non dormono sonni felici: lo scorso anno quando quei due erano presenti nella stessa gara, nove volte, sono sempre finiti 1° e 2°. Volendo, per gli amanti della statistica: 6-3 il conto totale per l'olandese. Uno spettacolo.

Dei del ciclismo, per favore, preservateci il più tempo possibile i nostri eroi umani. E se magari vi avanza anche un po' di tempo, date uno sguardo pure a noi. Sono tempi duri ce n'è sempre bisogno.


Il diesel e la Ferrari

Tom Pidcock non ci sta. Sfrontato come i suoi ventidue anni, cortese come un baronetto del Regno Unito, di Leeds. Elegante e redditizio su strada, deciso quando si destreggia nel fango come un occhio che cerca un varco nel fumo di Londra.
«Non voglio essere sempre terzo, corro per battere Wout e Mathieu» ha detto così a Het Nieuewsblad, A fine gara Lucinda Brand non ha perso la sua dialettica. Non lo fa nella vittoria, figurarsi, come nel caso di sabato a Rucphen, nella sconfitta. «Non potevo fare nulla contro Vos: ero come un diesel contro una Ferrari».
Mai paragone più azzeccato e non ce ne voglia Brand: come Vos, spesso, non c'è mai stato nessuno. C'è chi la definisce, appunto, come la fuoriserie più stilosa; c'è chi la definisce semplicemente la Più Grande Di Ogni Tempo. D'altra parte non potresti chiamare in altro modo una che ha vinto quanto ha vinto e che oggi, a 34 anni e mezzo, sembra non smettere mai di essere quello che è.
La trovi sempre lì: su strada (una volta anche su pista) ora di nuovo nel ciclocross. Ha vinto sette titoli mondiali nel "fango" (diciamo così per semplificare, ma non è sempre così), ne ha vinto qualcuno anche su strada, dove pochi mesi fa solo Balsamo è riuscita a superarla.
E sabato - in un cross troppo piatto per essere vero (un cuscinetto prima della massacrante prova di Namur) con un tratto da percorrere a spirale che lo faceva sembrare una sorta di Giochi senza Frontiere incrociata alla gimkana della sagra delle pere, gara veloce e tattica dove era difficile fare una vera e propria differenza; sabato, dicevamo, a Rucphen, Vos e Brand si sono giocate la vittoria allo sprint e l'ha spuntata Vos, su terreno ideale, quello della volata contro Brand, ma domenica, nella splendida cornice di Namur, le cose cambiavano repentinamente - anche per assenza del corridore della Jumbo.
Namur e la sua cittadella: roba da diesel: il cross più bello per alcuni: tecnico e spettacolare anche da un punto di vista scenografico. Davanti subito Brand con treccia nera su sfondo bianco e dietro a seguirla Betsema con treccia bionda su sfondo rossonero. Fateci caso quando quest'ultima cade nel primo giro, la faccia che fa nell'osservare Brand che prende il largo. Una sorta di dolcissimo ghigno. Non la riprenderà più pur mantenendo sempre - più o meno - lo stesso distacco. Occhi che conoscevano già l'epilogo.
Nessuno esente da errore: principi di equilibrismo in bicicletta in mezzo a perfide canalette e contraccolpi che ti sbalzano via, Brand compresa, che faceva una fatica bestiale «al pubblico sembrava che avessi tutto sotto controllo, ma non è stato così», tra curve scivolose, terra che si incastra nei pedali, radici che si riprendono il terreno, diabolici tratti in contro-pendenza, pavé, saliscendi, e poi lui, immancabile fango e poi loro, tantissima gente. Immancabile. A spingere e spingere, urlare e sostenere.
Si definisce un diesel, Brand, per capacità di pedalare con potenza e di andare forte anche a piedi; resiste al tentativo di rientro di Betsema e conquista Namur per la quarta volta di fila. La prima in maglia iridata in quella corsa che per bellezza, e non solo, è una sorta di appuntamento iridato.
Poi a proposito di fuoriserie, due parole, giusto due, su Zoe Bäckstedt e sulla capacità di impressionare notevolmente nella sua categoria. Vince "per dispersione" (anche) nel cross. In maniche corte e senza guanti. Ci farà divertire pure lei. Ci fa divertire un sacco questo ciclocross.van Aert e van der Poel per nome, un guanto di sfida, e ha gasato tutti perché Tom è uno da prendere sul serio, ciò che dice fa. Va bene il rispetto, la fiducia, l’orgoglio di essere fra loro ma il sale è quella voglia di ribellione, di provocazione, di mettere la propria ruota sporca di terra davanti alla loro. Ce la farà? Lo scopriremo.
Intanto ieri, a Rucphen, in Olanda, pur con l’assenza di van Aert e van der Poel, ha battuto Iserbyt e Vanthourenhout e non in un modo qualunque. Quasi con l’istinto di colui che sente l’odore della preda nella boscaglia e si sfregia coi rovi pur di prenderla. «Ad un certo punto mi sono detto: diavolo, ora dai tutto e vinci». La voglia di riscossa, di rivalsa. Prima Coppa del mondo fra gli élite, una di quelle pietre miliari di cui vi abbiamo parlato in questi giorni.
«Van Aert ha uno stato di forma incredibile ma anche io sto meglio di quanto potessi pensare» come se non lo vedessimo. Anche quando non ci riesce a vincere, come oggi a Namur, su quel fango che sa di Inghilterra, per dirla con le sue parole: due scivolate, qualche insicurezza e Vanthourenhout che va a vincere. Ma ha fatto la gara, ha messo pressione agli avversari, affamato, forse ancor di più dopo una sconfitta.
Van Aert, Van der Poel e Pidcock, rigorosamente in ordine sparso. Un tris d’assi da celare e poi gettare sul tavolo, mentre sotto le noccioline continuano a scricchiolare. La grande sfida è sempre più vicina e sarà una festa, comunque vada.


Breve ricordo di biciclette da Vermiglio

Le bici dei ciclisti professionisti non sono normali. In nessun caso. Sono messe a punto da professionisti, adoperate da persone che le immaginano estensioni del proprio corpo.
Per andare sulla neve, per di più, devono essere bici molto particolari: le pedivelle e le parti meccaniche, per esempio, sono state bagnate con abbondante liquido antigelo. Prima di arrivare a Vermiglio, per la tappa della Coppa del mondo di ciclocross, ero incuriosito proprio dai mezzi che sarebbero stati adoperati: d’altronde, cos’è un tennista senza la racchetta?
Ecco diversi dettagli insoliti delle biciclette in Val di Sole:
- Una delle bici più riconoscibili è quella del team KTM Alchemist, le cui forcelle arancioni risaltano vividamente rispetto al telaio verde muschio;
- La Pinarello Crossista di Tom Pidcock (il Team Ineos ne ha portate tre, una per tipo di copertone montato) ha sul telaio l’adesivo con le carte da poker e la scritta “play your cards right”;
- Le ruote imbiancate dalla neve: le ruote di tutti, sempre;
- Gli inserti gialli della Cervélo di Marianne Vos, che si confondono quasi con gli inserti gialli sulle sue gomme;
- Dettagli tecnici della Proflex 855, bici degli anni Novanta vista dal cellulare dello speaker Paolo Mei, che ne discuteva con Christian Leghissa. Quest’ultimo ha fatto firmare – e poi metterà all’asta, per beneficienza – il sellino di una bici a Wout van Aert;
- La scritta “Ago” sulla Guerciotti di Filippo Agostinacchio. Tecnica utilizzata: pennarello nero indelebile su carbonio;
- I nomi delle atlete sui copertoni: “Eva” per Lechner, “Puck” per Pieterse;
- La S-Works violacea di Maghalle Rochette, piantata nella neve a fianco di una bottiglia di Ferrari stappata sul podio (la canadese è arrivata terza) e col sellino sepolto sotto il bouquet di fiori.

Foto: Daniele Molineris