Le ferite di Fabio, di Dylan e del ciclismo

Mi piacerebbe poter chiedere conforto e ispirazione a Gianni Mura per questo incipit e magari trarre spunto da qualche sua bella frase, un commento, un virgolettato per essere il meno banale e retorico possibile e spiegare con parole che non mi vengono, o con maggiore accuratezza, che anno di merda sia stato il 2020. Purtroppo però, il tempo se lo è portato via.

Mi piacerebbe parlare di Fabio e Dylan – li chiamo per nome – come se i loro destini avessero preso strade differenti; come fossero due ragazzi che hanno battagliato per mesi subito dopo il traguardo di Katowice dove invece, qualcosa, che poi è il loro tutto, si sarebbe spezzato per sempre.

Erano lanciati a ottanta all’ora verso quell’arrivo in discesa che non ha senso di esistere; Dylan cambia traiettoria, chiude Fabio all’esterno, e allarga il gomito; è vero non si fa, non si dovrebbe fare, il suo gesto è pericoloso, pericolosissimo, quello del corridore è un mestiere infame: ma quante volte succede in volata?
(nessuna giustificazione, solo un dato di fatto).

Fabio sbatte sulle transenne e scompare per un attimo, sembra risucchiato, carambola a una velocità difficile da decifrare. Le transenne dovevano essere lì per ragioni di sicurezza e invece, posizionate e fissate male, troppo leggere, finiscono per disintegrarsi sotto l’energia cinetica del ragazzone olandese. «Stavo bene, ero a ruota di Davide e Florian, dopodiché il buio» – Fabio è tornato a parlare della vicenda qualche giorno fa su un quotidiano olandese.

Ricorda, o forse glielo hanno semplicemente raccontato, che se è ancora vivo il merito è del caso che ha le sembianze di un commissario UCI che ha attutito il violento colpo e ha fatto sì che Fabio rallentasse la sua paurosa corsa evitando di finire violentemente contro il pilone del traguardo. Poi l’intervento di Sénéchal, suo compagno di squadra. «Florian ha visto il panico nei miei occhi, ha visto il sangue che sgorgava: ha sollevato la mia testa in modo che il sangue potesse uscire dalla mia bocca e dal naso». E nemmeno Florian ricorda bene quegli attimi, sa solo che ha passato giorni a piangere e disperarsi pensando che con quel gesto avrebbe potuto provocare danni peggiori a Fabio. «Ha scelto tra due mali: ed è stata la scelta giusta».

Pensava di morire, Fabio – e lo abbiamo pensato tutti inutile girarci attorno. Chi ha visto quella scena dal vivo ha i brividi tutt’ora. «In ospedale perdevo conoscenza continuamente, mi svegliavo e mi riaddormentavo, ho preso diversi farmaci, facevo fatica a respirare e pensavo: è così ora morirò».

È a pezzi e probabilmente lo resterà per sempre, ha subito tutta una serie di interventi di ricostruzione del volto che ancora non sono terminati. «Il danno peggiore è alle corde vocali: sono vitali per respirare e per pensare di tornare a essere un corridore. A marzo mi piacerebbe essere in gruppo con i miei compagni e magari correre ad agosto, ma i medici vogliono fare le cose con calma. Paura? Non ho mai avuto incubi sull’incidente perché non ricordo nulla, ma non so come sarà quando e se tornerò in gruppo».

A pezzi è anche Dylan: ha sbagliato, pagherà. Più che la squalifica – tornerà in corsa a maggio – rimarranno per sempre squarci indelebili nell’anima, ferite tali che quando provi a mandare giù il groppone restano sempre lì, che diventano scosse elettriche che sembrano strapparti l’anima dal corpo. Paranoia, sensi di colpa, sarà straziante sopportare il giudizio di un gruppo – quello dei suoi colleghi – che punterà il dito contro di lui. «Nove mesi di squalifica sono una punizione severa, ma lo sarà ancora di più quello che si porterà per sempre dentro» afferma Gilbert. «Certo è che molti in gruppo faticheranno ad accettarlo di nuovo».

È stato sbattuto in prima pagina, ha sbagliato, ha pianto disperatamente, ha chiesto perdono. «La scena che avevo davanti mi ricordava quella di una famiglia in lutto, sconfitta. Scene di sofferenza e di vuoto» racconta una giornalista olandese che lo ha intervistato pochi giorni dopo l’incidente.

Ma ne esce a pezzi anche il ciclismo: il team manager della squadra di Jakobsen ha invocato il carcere per Groenewegen nelle drammatiche ore subito dopo l’incidente; l’UCI ha pensato inizialmente di lavarsi le mani e di fare di Dylan il capro espiatorio, nascondendo i problemi di sicurezza in corsa (non solo tra i professionisti, ma anche nelle corse minori, giovanili eccetera) che ci sono da anni e che negli ultimi tempi sembrano aumentare.

Nei mesi successivi all’incidente si è aperto un dialogo: ci sono stati incontri tra sindacato dei corridori, il CPA, organizzatori e UCI sul tema della sicurezza; dopo uno di questi incontri Gilbert ha strigliato i colleghi rei di non essersi interessati alla faccenda. «Si organizzano spesso incontri di questo genere e non si presenta mai nessuno. In questo caso sembra che solo io e Trentin abbiamo ritenuto valesse la pena presenziare alla riunione del Professional Cycling Council. Come se a ragazzi di vent’anni che corrono non stesse a cuore quello che è il loro futuro. Ci si lamenta sulla sicurezza attraverso i media, sui social ma se davvero vuoi cambiare qualcosa devi sapere quando è il momento buono per aprire la bocca e dire la tua».

Per alcuni non partecipare a questi incontri è invece sembrato il normale mutare delle cose che sta portando a una spaccatura all’interno del gruppo dei professionisti. Per Michael Mørkøv, compagno di squadra di Fabio Jakobsen, il CPA è un organo totalmente inutile e che non ha mai fatto nulla per cambiare il sistema. Altri lo giudicano una marionetta dell’UCI. Da poche settimane, invece, è nato un nuovo sindacato, The Rider’s Union, attualmente non riconosciuto dall’Unione Ciclistica Internazionale e del quale fanno parte diversi corridori ex corridori e procuratori.

Qualcosa in quelle riunioni, però, pare si sia intravisto: veicoli in corsa e transenne sono stati i temi maggiormente messi sotto esame. «Le transenne devono essere più sicure: se le colpisci non devi rischiare la vita. E devono essere disposte prima dei trecento metri dall’arrivo. E poi un altro tema delicato è l’esagerato numero di veicoli presenti in gara». Per Trentin la sicurezza dovrà essere tema prioritario per il 2021.

Intanto a margine di tutto ciò, il Giro di Polonia è stato premiato in patria come  “Evento sportivo dell’anno per aver messo in piedi al meglio la prima corsa a tappe ciclistica internazionale dopo la pandemia”. Celebrato sul palco da Agata Lang, vicepresidente della corsa e dell’UEC (Unione Europea del Ciclismo), e sui social dall’account Twitter della corsa.

Le ferite di Fabio e Dylan resteranno per sempre, ma forse serviranno a cambiare qualcosa. Spaccature politiche permettendo e che si combattono, però, sempre sulla pelle dei corridori.

Foto: Tim van Wichelen/CV/BettiniPhoto©2020


Giù le mani

Confessiamo che il giorno successivo alla spaventosa caduta di Fabio Jakobsen al Giro di Polonia, durante la volata testa a testa con Dylan Groenewegen, abbiamo creduto che la maggior parte dell’opinione pubblica pensasse di aiutare Jakobsen etichettando Groenewegen in maniera ingiuriosa. Così abbiamo letto che l’olandese del team Jumbo Visma sarebbe un delinquente, un criminale, che meriterebbe la reclusione, che andrebbe espulso a vita dal gruppo. E tante altre simili idiozie. In quel momento, forse, l’unica cosa da fare sarebbe dovuta essere rivolgere un pensiero a un ragazzo di ventiquattro anni in pericolo di vita. Poi, a sangue freddo, riflettere sulle reali responsabilità dell’accaduto, magari evitando la solita valanga di insulti social di persone che, pur totalmente incompetenti, non hanno resistito alla pruriginosa volontà di gettare fango. Ovviamente nascoste dietro uno schermo, ovviamente senza rispondere delle proprie affermazioni. Ovviamente sull’anello più debole della catena che in quel momento non poteva difendersi.

Prima che la scarica di ingiuriosi epiteti colpisca anche noi che -ci perdonino costoro- esprimiamo un punto di vista differente, sgombriamo il campo dall’equivoco. Dylan Groenewegen ha commesso delle irregolarità in volata e per questo è stato e verrà giudicato. Il suo comportamento è da stigmatizzare senza se e senza ma. Sarebbe però non poco miope la visione che riconducesse solo a Groenewegen le colpe dell’accaduto. Dylan Groenewegen ha commesso solo l’ultimo di una lunga serie di errori che purtroppo stanno pesando su Fabio Jakobsen. Le altre e, diremmo noi, ben più gravi responsabilità ricadono, alla base, sugli organizzatori della corsa e sull’UCI. La stessa Unione Ciclistica Internazionale che non ha perso tempo nell’informare delle esemplari sanzioni pensate per Groenewegen ma che non ha avuto la stessa sollecitudine nel verificare le responsabilità degli organizzatori. Le transenne, su quel traguardo, erano mal posizionate e, a quanto pare, non agganciate. Come da autorevoli pareri, sarebbero servite transenne diverse, di circa due metri, come quelle utilizzate, per esempio, al Giro d’Italia sul rettilineo d’arrivo. Come mai di questo gli autorevoli esperti della rete non hanno detto nulla? La risposta è semplice: perché probabilmente non sanno nemmeno nulla del tema e hanno colto l’occasione per schiumare rabbia. Il bersaglio è stato Dylan Groenewegen ma avrebbe potuto essere chiunque altro.

Ieri le immagini di una recente intervista hanno mostrato Dylan Groenewegen in lacrime, distrutto per l’accaduto. I segni psicologici di simili avvenimenti sono devastanti e spesso non si superano se non con il passare del tempo, di molto tempo. Un’opinione pubblica pronta ad azzannare con tutti i denti che ha, non aiuta. Anzi rischia di creare ulteriori danni. È già successo troppe volte. E in ballo c’erano uomini. Uomini che hanno sbagliato ma pur sempre uomini. Rimpiangere dopo non serve. Occorre invece estrema attenzione prima, occorre cura anche per chi sbaglia. Non si parla solo di cultura sportiva, si parla di cultura umana.

Forza Fabio.
Stiamo aspettando solo te.