Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol

Come brillano i muscoli di Bettiol quando sul traguardo leva le mani dal manubrio, sorride, li mostra, ci crede, occhi nascosti dagli occhiali che riflettono la luce del sole che abbaglia Stradella.

Ci crede, sì, ma fino a un certo punto. Ci ha creduto, pareva non arrivasse più questa vittoria, in una giornata dura, da fuga pazza, da finale a tutta, chiama all'appello il pubblico che risponde, e quel punto esclamativo davanti al suo nome scritto sugli appunti si cerchia di rosso.
Un gladiatore, Bettiol: gettato nell'arena mostra i pericoli delle sue zanne. Infligge ferite: chiedete a Cavagna. Ripreso sull'ultima salita esplode per tenergli la scia come se davanti alle sue ruote la forza di Bettiol emanasse vapore bollente.

Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol. Finalmente Bettiol, ci vien da dire. Vittoria cercata e arrivata, suggerita da ogni angolo del globo ciclistico. Dopo aver mostrato di andar forte ovunque a questo Giro, pure in salita, Hugh Carthy se lo è tenuto stretto. Bettiol vicino a lui, una guardia, una coperta in inverno, con tutto il freddo che hanno preso. Francobollato alla sua schiena, Carthy, come se dalla linfa di Bettiol prendesse forza. Come se i suoi muscoli bastassero per due.

E non poteva esistere, in un mondo fatto di ruote, grasso e catena, che uno così avesse vinto solo due corse in carriera. E non poteva esistere che in un gruppo di bei nomi come quelli oggi in fuga, uno come Bettiol non fosse tra i favoriti.

E non poteva scegliere tappa migliore. Infinita da non sembrare vero con i suoi 231 km al diciottesimo giorno di corsa. Da attaccanti, da lunghi rapporti in salita che lui spinge con la naturalezza di un animale nato per vincere oggi. Salite spacca gambe che ispirano il talento, discese più che pennellate affrontate in sicurezza. Uno scenario da cartolina da mandare a casa e scrivere: "Ciao mamma, oggi ha vinto Bettiol!" e di fianco una faccina sorridente, un cuore scarabocchiato, un altro punto esclamativo di fianco al suo nome.

Occhialini tricolori e casco rosa: apoteosi della partigianeria in salsa Giro. È uno strano animale da corsa Bettiol, a volte te lo aspetti e non arriva, oggi lo vedi lì, frizzante, ma quando parte Cavagna pensi di nuovo all'occasione sfumata.

Invece appare calcolato: animale razionale che usa finemente il cervello, sfrutta muscoli d'annata, e una pedalata, oseremmo dire, da giorni migliori. Da giorni forse mai visti. Quei giorni che un paio di anni fa gli permisero di staccare altri animali, quelli da pavé al Fiandre.
Quel giorno come oggi dove tutto fila liscio come l'asfalto dell'Oltrepò Pavese che si insinua seguendo curve e controcurve, dove la pianura cozza con la collina.

E così ha vinto Alberto Bettiol. Scattando a Cigognola, sgasando a Broni, sfogandosi a Canneto Pavese, traduzione maccheronica di quel Oude Kwaremont che lo ha reso grande.
Cavallo di razza, estroverso e simpatico, coinvolgente, con quell'accento toscano, lui che sogna la Strade Bianche, ma vince il Fiandre e una tappa al Giro. Speciale come ogni animale ciclistico e col merito di averci fatto urlare oggi: Alberto Bettiol!

Foto: Luigi Sestili


Per raccontare Egan Bernal

Per raccontare Egan Bernal, forse, basterebbe raccontare ciò che ha detto ieri in conferenza stampa, in un giorno difficile, in un giorno in cui avrebbe anche potuto non avere voglia di parlare. Ha detto che, in fondo, per le persone che amano il ciclismo è meglio così, perché il Giro è più aperto, perché non si sa mai cosa aspettarsi, perché, se gli attacchi continueranno, sulle strade ci sarà spettacolo e la gente si divertirà. Non è facile dirlo, non è facile quando hai perso, quando sembravi poterti fermare da un momento all'altro su quella salita.

Poi, per raccontare Bernal, si potrebbe o si dovrebbe raccontare Daniel Martínez, il suo compagno di squadra, colui che ieri l'ha incitato fino alla fine mentre perdeva le ruote. «Mi diceva di resistere, mi diceva “Pensa che vinci il Giro”. Dani è un amico». E pure quell'inciso sull'amicizia è tutt'altro che scontato. Perché si potevano usare le solite parole: compagno di squadra, gregario, scalatore. Invece no, Bernal dice “amico”. Soprattutto Bernal dice.

Ce lo hanno spiegato Santiago, Mariana e Mateo, colombiani come Egan e Daniel, quanto sia importante. «Martinez non avrebbe fatto nulla di male se non si fosse voltato e non lo avesse incitato. Un gregario non deve necessariamente voltarsi ed incitare, per quello ci sono i tifosi. Ma lo ha fatto ed in quel farlo probabilmente c'è anche la Colombia. Tutti pensano alla povertà come ad una mancanza di cose, la povertà è anche mancanza di parole. Delle tue e di quelle degli altri. Perché in certi casi le persone non sanno cosa dirti e tu non hai nemmeno il coraggio di chiedere. C'è anche questo nel nostro essere solari, nel nostro accogliere, invitare ed incitare».

Per raccontare Egan Bernal non si potrebbe non raccontare del rapporto con la sua famiglia. «La maglia rosa ti toglie tanto tempo, sei l'ultimo a tornare in albergo e, sei vuoi mantenerla, devi riposare bene, quindi devi andare a letto presto e non hai molto tempo. Però, per parlare con mia madre, mio padre e la mia ragazza quel tempo me lo ritaglio. Sono loro la mia motivazione». Umile, per nulla egocentrico perché «in casa non ho foto mie in bicicletta, nemmeno miei ritratti. Ne ho una di Marco Pantani e mi basta».

Bisognerebbe raccontare della sincerità di Egan Bernal. «Sì, forse sarebbe stato meglio andare a vedere la salita di Sega di Ala. Forse avrei fatto meglio. Come, probabilmente, a me il giorno di riposo ha fatto male ed è anche per questo se ho pagato. Ma non si possono nemmeno prendere queste scuse. Yates mi avrebbe staccato comunque perché era più forte oggi. Bisogna dirlo e basta». Ed ancora bisognerebbe raccontare di tutto ciò che non ritiene scontato e della fame di esserci, di essere lì, di non sparire. Qualche anno fa lo disse: «Non voglio essere uno di quei corridori che appaiono a ventidue anni e di cui a ventisette non si ricorda più nessuno». Chissà, forse Mateo, Mariana e Santiago direbbero che pure qui c'è la Colombia e tutte le cose che in quelle terre non hai. Anzi, direbbero certamente così. Lo decidiamo noi.

Per raccontare Bernal bisognerebbe andare nella sua terra ed osservare per qualche minuto un bambino che lo guarda mentre attacca, un padre contadino che si asciuga la fronte dal sudore per vederlo ed un anziano che chiama la compagna per tifarlo assieme. Bisognerebbe andare in quella terra per capire cosa significhi per loro Egan Bernal. Bisognerebbe andare in quella terra perché, per raccontare Egan Bernal, bisognerebbe soprattutto raccontare la loro speranza.

Foto: BettiniPhoto


Giocando col tempo che passa

"Che sport incredibile il ciclismo" è un messaggio che ricevo mentre i corridori stanno affrontando gli ultimi chilometri. E lunghi sono stati quegli ultimi chilometri, perché la relatività del tempo applicata al ciclismo trova oggi pieno significato.
È impressionante quanto il tempo sia soggettivo e risponda a leggi fatte di fatica e sensazioni, di impulsi e riscontri. Come si modifichi a seconda del soggetto che lo vive, del momento e delle emozioni.

Per Martin gli ultimi quattromila metri sono interminabili. Almeida forse avrebbe chiesto qualche centinaia di metri in più. Yates arrivava quasi sorridente al traguardo, mentre Bernal, dopo un'imbeccata di Martinez, arrancava, ondeggiava ma si salvava: oggi una giornataccia la sua, ma lo è stata per molti.
Il tempo. Quello di una corsa come oggi che parte in discesa, veloce, velocissima, bevi un caffè e loro sono già a Trento. Il tempo che si dilata salendo verso il Passo di San Valentino, duretto non c'è che dire, o verso Sega di Ala, salita dura, vera, bellissima come il disegno di una frazione fatto come si deve.
Il tempo relativo a guardarsi indietro: due settimane già volate via, tra noia e domìni, colpi di scena, fughe e sprint. Polemiche, lacrime, cadute, persino oggi e forse decisive per qualcuno. Ferite, rinascite, vittorie e sconfitte; pioggia, neve, sole e il caldo odierno, finalmente, che di sicuro esprime nuovi valori in campo. E poi vento, mare e montagna, colline e splendide vallate.

Il tempo che sfugge: fra pochi giorni saremo a Milano, e un altro Giro sarà finito. Tre settimane così maledettamente veloci e tutto questo sembra già mancarci.

Il tempo che si comprime: la tappa degli sterrati durata un attimo, quella di Verona non finiva più. Cronostasi sul Giau senza immagini che era come entrare nella Casa di Foglie di Danielewski. O come oggi: per noi è un flash ridotto a brandelli di minuti su quell'ultima salita dove succede di tutto un po'.
Il tempo che plasma, che esplode o che invecchia. Il tempo di Covi: giovane di quelli che però il tempo non lo vogliono perdere. Oggi ancora in fuga, mosso, racconta, da passioni immotivate - lo capiamo benissimo, perché è come quando ci chiedono: perché ti piace il ciclismo?
Il tempo come un inganno che vola veloce, come quello di Luis Leon Sanchez che in un attimo si è guardato indietro ed è il più anziano in fuga.
Il tempo nel ciclismo, come un gioco a cui giocare, anche se qualcuno avrà da ridire: definirlo così è roba da pazzi. Definirlo un gioco, oggi, un azzardo impensabile.

E col tempo Martin non ci gioca, esulta sul traguardo con faccia e stile da sgangherato Paul McCartney, «non ho bisogno di vincere per stare bene con me stesso - sosteneva tempo fa - Mi basta aver dato il 100%». Oggi quel tutto lo ha dato e in cambio ha ricevuto qualcosa.
Quel tempo oggi per lui è durato un attimo, oppure un'eternità. Sarà una foto che non dimenticherà mai e conserverà per sempre, magari in una di quelle giornate in cui un momento sembrerà non passare più.
Come quegli attimi finali, vividi, impressi a tratteggiare questo Giro. Che chissà, forse possono aver cambiato faccia alla corsa.
E se ci dovessero chiedere di nuovo: perché ti piace il ciclismo? Risponderemmo senza timore: perché in giornate come questa sa essere uno sport incredibile.

Foto: Luigi Sestili


Lasciare il segno: intervista ad Edoardo Affini

Al termine della cronometro inaugurale di Torino, vinta da Filippo Ganna, Edoardo Affini gli si è avvicinato e gli ha detto: «Pippo, guarda che a Milano farò di tutto per romperti le uova nel paniere». Ganna e Affini sono accomunati dalla genuinità: poche chiacchiere e pedalare, per dirla in gergo ciclistico. Per questo, se Edoardo dovesse scegliere due parole per descrivere il suo lavoro al Giro sceglierebbe affidabilità e tenacia. La prima perché la fiducia, nel ciclismo, è fondamentale: «Da gregario, so di essere qui per gli altri, per far fare meno fatica possibile ai miei capitani. Questo significa dare tutto, anche più di quello che daresti per te stesso. Se guardate il mio viso sullo Zoncolan, capite il vero significato dell'essere gregari. Ero finito, non ne avevo più, distrutto. Ci vuole coraggio e grinta per sacrificare te stesso per un'altra persona». Essere gregari significa mettere le tue gambe per qualcun altro, ma non solo. «Se le gambe non girano, non puoi farci nulla. Tutte le parole sono inutili, se il tuo capitano non è in condizione. Però, quando sei in corsa per tre settimane, serve anche la parola giusta al momento giusto. Non incide sulla prestazione, ma sulla persona, sul suo stato d'animo».

A lui, per esempio, ha fatto molto piacere il gesto di George Bennett che, proprio quel giorno, scendendo dallo Zoncolan dopo il traguardo, lo ha visto in difficoltà in salita e gli si è avvicinato per un breve tratto, per ringraziarlo. «Mi ha detto che più di così non era riuscito a dare, che gli spiaceva. Anche questa è fiducia, è considerazione di chi ha lavorato con te». Qui c'è un appunto: «Purtroppo a seguito della voce che raccontava di Bennett che ha scalato due volte lo Zoncolan per starmi vicino - cosa impossibile: avremo fatto assieme 50 o 100 metri - mi sono sentito dire che avrei dovuto essere squalificato, che avevamo commesso un'irregolarità. Spiace perché si rovina un bel gesto. Un gesto da raccontare, ma correttamente».

Verona è stata la città in cui più si è meravigliato, proprio mentre stava lavorando per Dylan Groenewegen. «Ho preso la testa mentre arrivavano le altre squadre da sinistra per non rimanere imbottigliato. Andavo talmente bene che pensavo fosse il lancio perfetto. In volata non ti volti mai, ma ti accorgi se hai qualcuno a ruota ed io non sentivo nessuno. Ho continuato a spingere fino a quando non ho sentito l'aria mossa da Nizzolo alle mie spalle. Lì ho capito che mi avrebbe superato». Dylan Groenewegen e Edoardo Affini non si conoscono molto: si sono visti qualche giorno in ritiro e poi sono venuti qui.

Affini crede che il segreto per ritrovare Groenewegen sia la normalità. «Noi lo abbiamo trattato come il ragazzo di sempre, come un velocista che sa vincere e vincere bene. Ogni volta che abbiamo formato il suo treno, abbiamo pensato questo e lui lo sa, lo ha capito. A Verona era arrabbiato con se stesso, perché avrebbe voluto fare di più. Mi sembra un buon segnale» In ogni caso, dice Affini, tornare serve, sempre, anche se fa paura. «Dopo quell'incidente lui e la sua famiglia hanno subito minacce molto pesanti. Sono passati nove mesi, ma è tornato ed è molto motivato. Certo, qualche residuo questi avvenimenti lo lasciano, lui, però, è molto bravo a separare la parte umana da quella professionale. Credo soffra ancora per l'accaduto ma, da professionista qual è, in gara riesce a metterlo da parte. Riesce a essere quanto più simile al ragazzo che tutti conoscevamo».

Poi una battuta, sulla terza settimana. «Per me sarà sopravvivenza e costante aiuto in squadra. Però i freni non li tirerò. Se capito davanti e vogliono battermi devono andare più veloci altrimenti potrei metterci lo zampino».

Foto: BettiniPhoto


Dal fondo del gruppo

«Faccio parte della corsa, in realtà la chiudo, ma mi sento a tutti gli effetti un piccolo pezzo della carovana». Basterebbero queste poche parole di Fabio Allotta per raccontare il suo compito al Giro d'Italia. Fabio è sul furgone del fine gara: l'ultima vettura che vedete transitare quando andate ad assistere ad una tappa. In quel “far parte”, in “quell'appartenere” ci sono già molte cose che lui si preoccupa di spiegarci. «Sai, con il fatto che sei il “fine gara”, molti non riescono nemmeno ad immaginare quanto si viva intensamente la corsa dal fondo. Pochi metri davanti a me ci sono tutte quelle storie che nessuno vede perché le telecamere non le inquadrano quasi mai, tutte quelle storie che nessuno racconta. Così, spesso, si parla solo dei primi». Fabio Allotta ricopre questo incarico da tre anni, prima ha anche corso in bicicletta e certe sensazioni non può dimenticarle. A livello pratico comunica con la giuria, segnala i tempi ed i dorsali dei corridori che si ritirano. Raccontarla così, però, sarebbe riduttivo.

«Ieri sono arrivato al traguardo quarantacinque minuti dopo la corsa. Voi pensate di salire il Giau con gli ultimi, di vederli faticare, mentre rischiano di uscire dal tempo massimo e di non poter far nulla. Diciamocelo, è snervante». Certo, perché poi quella del fine corsa diventa una vita parallela al gruppo ed ai suoi spostamenti, nel bene e nel male. «Quando c'è stata la caduta di Alessandro De Marchi ho fatto fatica a trovare il coraggio di guardare. Indietreggiavo come a non voler vedere. I corridori sono abituati ad alzarsi subito e ripartire anche se feriti. Quando vedi un ragazzo che non si muove per tre o quattro minuti, ti prende paura». Uno dei momenti più brutti è proprio il ritiro.

«In alcune situazioni è mio compito caricare la bicicletta dei corridori che lasciano la gara. Alcuni salgono sul furgone del fine gara e arrivano con me al traguardo. Ricordo ancora quando, l'anno scorso, Boaro si ritirò in lacrime, deluso, col morale a terra. In quel momento tu hai accanto una persona che sta soffrendo, cosa puoi fare? Devi stare in silenzio, aspettare e poi, con delicatezza, provare a vedere se ha voglia di parlare. Devi cercare di portarla per qualche attimo fuori da quel mondo perché quel mondo, in quel momento, è l'oggetto della sua delusione. Con Manuele ci sono riuscito e quando è salito sulla sua ammiraglia ha sorriso». Fabio Allotta prova a fare lo stesso con tutte le persone che incrocia sul percorso: «Mi faccio vedere, saluto. Le persone sono incuriosite anche dalla mia vettura, vogliono capire cosa faccio. Per questo cercano di sbirciare dai finestrini, proprio come fanno con le ammiraglie».

Perché, alla fine, la realtà del fine corsa è fatta proprio da questi piccoli momenti. «Non c'è molto tempo per parlare, ma i ciclisti sono una specie rara. Io ho sempre in macchina dei gel o dell'acqua. La crisi di fame è orribile, si soffre in maniera indicibile, avendola provata lo so e, se li vedo in difficoltà, passo una barretta. Loro se ne ricordano, ti ringraziano e da quel momento maturano una forte fiducia in te. A me quella fiducia fa stare bene». Forse quella fiducia deriva anche dal fatto che è proprio Fabio ad alzarsi all'alba ogni mattina per andare in un punto prestabilito, recuperare l'acqua per i corridori e portarla ai pullman. «Così ho conosciuto i massaggiatori ed i direttori sportivi. Magari scambiamo solo due parole, al volo, quando ci fermiamo a fare pipì durante la tappa, ma, in fondo, il bello della carovana è proprio questo. Basta poco, che poi poco non è mai».


Una lezione di rispetto

Il ciclismo è una lezione di rispetto. Leva e dà, assorbe, ma soprattutto insegna. Perché Bernal rispetta il Giro. Lo capisci in quell'attacco sul Giau dove riprende di nerbo e con grazia quelli davanti, va in discesa e te lo puoi solo immaginare fino a quando non sbuca dall'oscurità.
Lo scorgi in un attimo dopo aver passato quaranta minuti a guardare facce festose al traguardo, invece che la corsa, perché sì, il Giro è nell'attesa dei tifosi all'arrivo - e su Pordoi e Marmolada, ma quelli non hanno visto passare nessuno - ma anche nel nervosismo di chi impreca davanti alla tv.
Perché Bernal voleva venire da anni qui per vincere. Niente frasi di circostanza, in Italia è diventato corridore e qui si vuole consacrare - lo ha sempre detto. Perché nel suo gesto di levarsi via di forza la mantellina, accomodandola nel taschino posteriore e senza più badare a pioggia o a intoppi, ma solo per mostrare la sua maglia rosa, c'è il rispetto per una giornata che difficilmente dimenticheremo. Perché qualche giorno fa, quando vinse a Campo Felice, non esultò, convinto che davanti ci fosse ancora la fuga e quella cosa non gli è andata giù.
"Davanti continua la cavalcata meravigliosa di Egan Bernal", la spiegava così Pancani. Un momento surreale - moderna radiocronaca. Catapultati nel passato: perché chi vuole pensare in grande cercando paragoni con il Tour dovrebbe prima guardare in casa propria. E in un tappone diventato tappino ma che farà ugualmente i suoi danni, non può lasciare tutto il mondo senza immagini.
Perché il rispetto per il ciclismo è in Gorka Izagirre a tutta e che finisce lungo in discesa e solo lui lo sa come ha evitato quell'auto parcheggiata in curva. Perché nonostante il freddo, la pioggia, la stanchezza e la paura, i corridori e le squadre dicono che avrebbero corso la tappa originale, ma si è preferito fare altrimenti - e le motivazioni non convincono del tutto, e la poca chiarezza sull'argomento resta tale anche dopo la tappa.
E partono sotto una pioggia che non cessa un secondo e vanno all'attacco, per conto proprio o in compagnia, ma sempre alla ricerca di qualcosa che solo loro possono capire.
Perché i gesti più belli, anche in una giornata da dimenticare, ma che non dimenticheremo, arrivano da loro: uomini spettacolo, ma soprattutto uomini. Caruso, che dopo una vita per i suoi capitani, oggi è più vicino al podio. Bettiol e Ganna che da soli potrebbero trainare il gruppo per giorni. Nibali che ieri cade e si fa male, oggi va in fuga. Ciccone, Vlasov e Carthy che soffrono, ma resistono. Almeida, che ha sacrificato i suoi sogni per la causa di Evenepoel.
Evenepoel, arrivato dietro, tanto dietro che non te lo potevi immaginare, congelato, che non riusciva più a pedalare e nemmeno a scendere dalla bici. Perché come lui altri che non abbiamo visto e mai vedremo, come Guglielmi e van den Berg in fuga nei giorni scorsi e oggi ultimi a quasi un'ora. O Formolo e Pedrero che ci provano in una giornata tremenda, accorciata e mutilata, sì, ma pur sempre dura. Ci provano e, possiamo giurarci, ci riproveranno.
Perché il ciclismo insegna, toglie, offre spunti. Eccellente educatore. Oggi ci ha tolto tanto, in una giornata ai limiti del grottesco, ma ci ha restituito tutto - o almeno c'ha provato - in quegli attimi finali in cui Bernal è spuntato dalla curva, dopo il buio. Degno padrone di una corsa, oggi, ahinoi, più piccola di quello che pensava di essere, ma resa grande dai suoi protagonisti.

Foto: BettiniPhoto


Andare a vedere il Giro

La domenica, forse, è il giorno in cui meno ci si sorprende quando si incontrano tante persone sulle strade del Giro d'Italia. Non ci si sorprende perché di solito è il giorno in cui non si lavora e non si va a scuola, così c'è tutto il tempo per venire qui, per sedersi su un marciapiede e aspettare il passaggio. Non è sempre così, però, e forse dovremmo ricordarcelo più spesso. A noi, ieri pomeriggio, a Gorizia, lo ha ricordato Guido.
Non sapevamo nulla di Guido e Guido non sapeva nulla di noi. Ci ha colpito perché era fuori dall'uscio di una casa con un grembiule azzurro, sporcato sul petto e sulle maniche di grigio. Ci ha colpito, forse, proprio perché era domenica e di domenica, al Giro, tutti si presentano con l'abito della festa. Solo scambiandoci qualche parola abbiamo capito.
Guido è un falegname, come era un falegname suo padre, e la sua è la realtà di tutte le botteghe artigiane. «Mio padre mi ha sempre detto che si fa festa quando si è fatto il proprio dovere, per questo, se alla domenica non si è finito di preparare le consegne, non è domenica. Quando hai fatto il tuo dovere, mi diceva, ti riposi anche meglio perché sei tranquillo con te stesso e non hai più pensieri».
Per Guido ieri non era domenica, perché ha molto lavoro da fare e pochi giorni per terminarlo, così era in bottega, così stava lavorando e fino a qualche giorno prima non pensava neppure al Giro d'Italia perché «dopo quello che abbiamo passato con la pandemia, con tutte le spese che ho da pagare, con tutti i problemi che mi vengono in mente appena apro quella porta, figuratevi se ho tempo di pensare al Giro d'Italia».
Fino a qualche giorno fa, perché poi ha cambiato idea. «L'altro giorno mio figlio mi ha detto se lunedì potevo farlo restare a casa da scuola e portarlo a vedere il tappone di Cortina d'Ampezzo perché “il Giro arriva anche domenica, ma la tappa di lunedì è più bella”. Cosa pensate gli abbia risposto? Gli ho detto di no, che poteva scordarselo, che il dovere viene prima del piacere, che se non va a scuola, se non studia, si troverà a lavorare giorno e notte come me, a non saper parlare come si deve, a fare brutte figure. Gli ho detto che avrebbe dovuto accontentarsi dell'arrivo di domenica». Poi, però, Guido è andato da solo in bottega, si è messo a lavorare ed ha ripensato a tutto.
«Mentre non avevo lavoro, nei mesi scorsi, ho passato davvero momenti difficili ed ho capito quanto avesse ragione mio padre: quando manca il lavoro si disfa tutto, crolla tutto. Se non riesci a mettere assieme un pranzo con una cena non c'è storia che tenga. Sinceramente, però, ho anche capito quanto avesse ragione mio figlio. No, non andare a scuola è sbagliato ed infatti non lo farò stare a casa, però anche non fare ciò che vorresti per pensare sempre e solo al dovere è sbagliato. Perché poi, se succede come è successo in questi due anni, non sei solo a terra perché non porti a casa la pagnotta per le persone a cui vuoi bene. Sei a terra anche perché col tuo modo di essere le hai rese tristi due volte: prima negandogli i divertimenti per il senso del dovere, poi spiegandogli che era stato tutto inutile perché non solo non avrebbero avuto più i divertimenti ma nemmeno le cose a cui erano abituati perché “papà non ha lavoro”. Sì, domani chiudo presto bottega e appena mio figlio torna da scuola lo porto a vedere il Giro che passa. Fosse anche solo uno sguardo da un cavalcavia, ma lo porto al Giro. Il tempo bisogna trovarlo. Stasera mi studio la cartina».
Così Guido e suo figlio oggi avranno tempo per il Giro, ma soprattutto avranno trovato tempo per se stessi. Assieme come un padre ed un figlio e questo è quello che conta davvero. Sempre.


Suggestioni

Chi conosce bene il Friuli conosce altrettanto bene i suoi richiami. D'altra parte lo spiega anche lo slogan che fa più o meno: "dal mare alla montagna in poche ore". Oppure il giro inverso, come in questo caso, grazie al potere della Corsa Rosa.
Ieri Carnia, montagna, alta, ma non proprio cime che toccano il cielo. Lingua dura, caratteri chiusi. Poche ore dopo si scende e si parte dal mare, da Grado, per poi superare la collina e vedere Gorizia.
Da Grado, vocali aperte, con quel centro storico che ha qualcosa di pregiato, che può far perdere la testa a chi, romanticamente, schiude il cuore all'inflessione del mare.
Barchette pastello attraccate ovunque, il molo, il consorzio dei pescatori dove chiedere se preparano il boreto, e poi la partenza della tappa attraversando il ponte che collega Grado ad Aquileia. Una volta a Grado ci potevi venire solo in barca.
C'è ancora il sole alto e qualche leggera bava di vento, e Campenaerts ha già attaccato quando una caduta estromette Buchmann dal Giro. Era appena passato il chilometro zero e si era proprio lungo quel ponte. Il giro di Buchmann, sin qui perfetto, finisce contro l'asfalto. La partenza viene fermata e ritardata, quando si riparte scappa la fuga rilanciata ancora da Campenaerts.
Si sono lamentati in molti anche oggi, ma se c'era un giorno in cui era permesso e logico andare via era proprio questo. I rimpianti, piuttosto, sono da ritrovare negli animi di chi non è scappato, poco lesto, stanco o forse distratto, o, piuttosto, nelle altre tappe.
Suggestioni, a riprendere il filo: perché dalla montagna si passa al mare, per arrivare al mosso confine attraversando il Collio, passando in mezzo a tenute, castelli, vigneti, ettari su ettari di prati ben tagliati.
In poche ore abbiamo sofferto in montagna, amato il mare, per poi guardare le colline verdi intorno a Gorizia, passando sopra strade ruvide e con il cielo che via via tendeva al nero.
Vento e suggestioni friulane, dove il tempo cambia repentinamente con il battito di un'ala. Dove le strade si fanno strette, si arrampicano, scendono, si amalgamano con curve a gomito, attraversano il confine per poi rientrare. Dove in pochi minuti si parla in un modo e poi in un altro, dove lingue e accenti si mescolano.
Suggestioni: come quelle che prova Victor Campenaerts all'arrivo dopo aver battuto Riesebeek e dopo averci provato in ogni modo. In fuga sempre, o quasi, in questa stagione e in questo Giro. Ce lo ricordiamo per quella dichiarazione in mondovisione al Giro del 2017 quando arrivò al traguardo mostrando sul petto una scritta grezzamente fatta con un pennarello: "Carlien Daten?". Era la richiesta di un appuntamento. Carlien, la ragazza, acconsentì per poi farlo piangere: "preferisco se restiamo amici" gli disse. Quel giorno al Giro Campenaerts fu anche multato e declassato.
Ce lo ricordiamo anche per il record dell'ora, poco non è, ma da un po' di tempo Campenaerts ha cambiato modo di correre: più aggressivo e sempre all'attacco, stanco di piazzamenti e forse anche di due di picche.
La pioggia batte incessantemente e poi dà tregua. Caldo, poi freddo e vento. Ci si inzuppa: "Ciò che zima che xe oggi", direbbero da queste parti. Ma per Campenaerts la suggestione rimanda a un giorno caldo dove mostrare il cinque a tutti, dove il suo mondo ha funzionato alla perfezione. Suggestioni, per lui che rilancia l'impegno della sua squadra in Africa affermando come «la bicicletta ti può cambiare la vita».

Foto: Luigi Sestili


Pensieri sparsi su fughe e Zoncolan

C'è qualcosa che non convince della giornata di ieri, qualcosa che torna a metà.
Diverse cose interessanti e da salvare, raccontare e tramandare: la parabola zoncolaniana di Fortunato sul quale si spendono parole di elogio ormai da ore, entrato nella storia dopo aver vinto su una salita che in pochi anni è leggenda; il talento (sbocciato, ma aspettiamo il successo pesante) di Covi, secondo a Montalcino e terzo sullo Zoncolan, ovvero le due tappe più attese, in attesa, perdonate il bisticcio, di domani, Cortina.
L'eleganza di Bernal, degna maglia rosa, si sarebbe detto una volta. il suo scatto (l'unico tra i big) nel finale a dimostrare che a oggi solo la schiena o qualche intoppo potrebbero fargli perdere il Giro. C'è Yates (il suo più che uno scatto, un allungo per testarsi e testare) che forse ha davvero calibrato la sua crescita man mano che si sarebbe andati avanti con le difficoltà in aumento. Ciccone e Caruso colpiscono perché non mollano: due italiani tra i primi 5 a fine Giro si possono sognare.

Due parole su Evenepoel, superata la crisi cognitiva (copyright di Kristian Perrone su Cicloweb, andate a leggere il pezzo) di Montalcino, ieri di nuovo in difficoltà lungo la discesa del Monte Rest.

Davanti Izagirre si esibisce nel solito spettacolo di famiglia non appena la strada scende (poi un giorno qualcuno spiegherà la capacità dei baschi di guidare così bene la bici) e Remco si stacca, e poi rientra grazie ai compagni. Sulla salita finale cede (quasi) subito sul forcing Ineos, ma va su del suo passo chiudendo a meno di 20" da Vlasov che aveva acceso la corsa, che sembrava dovesse metterla a ferro e fuoco e invece ne esce come lo sconfitto di giornata.

Il ragazzino belga per quanto abbia ancora dei limiti e per quanto siamo d'accordo tutti non è, oggi, Merckx, sul passo ha un motore con pochi eguali e una gran testa, quella che fa la differenza. Il suo limite, però, viene amplificato dal fatto che i suoi due maggiori rivali generazionali, Pogačar e Bernal, fanno proprio dell'abilità nella guida, sia in gruppo che in altre situazioni, uno dei loro punti di forza. Remco in questo dovrà migliorare, perché così sarà sempre attaccabile.
Aspetti che non convincono. Intanto le fughe. Abbiamo detto: piacevole, anche di più, celebrare le vittorie di Lafay, Schmid o Fortunato, vedere Covi brillare ovunque, oppure Vendrame e van der Hoorn, e le loro storie da raccontare. Però qualcosa non torna quando su 13 tappe in linea ben 7 vedono la fuga arrivare e un'ottava è ripresa da Bernal (unico uomo di classifica a vincere una tappa) a pochi metri dal traguardo.

Sia chiaro, a noi la fuga piace, ma non così. Non quando è un libero lasciapassare tattico e politico da parte del gruppo. Non questa esagerata quanto plateale concessione. Il contentino dato dai più forti. Non questo ridurre ogni giorno a una sfida inclusiva tra fuggitivi, per la tappa, e tra gli uomini di classifica, per piazzamento e distacchi.

Chi vi scrive si era distratto su alcuni fatti ciclistici, come gli succede spesso nella vita di tutti i giorni, e non si era reso conto fino a qualche settimana fa che lo Zoncolan era da Sutrio e non da Ovaro. Due salite non paragonabili. Lo Zoncolan continua a non convincermi del tutto, in realtà, e perde il confronto tecnico rispetto a tante salite e tanti finali di corsa, non solo tra quelli disegnati nell'arco alpino.

Lo Zoncolan è una meravigliosa operazione di promozione del territorio, ha un nome che suona bene, bello e misterioso, dà agli spettatori la possibilità di vedere i corridori passare lenti come non mai, ti fa ammirare e rispettare la loro fatica, lo scenario è quasi geniale per quanto appare perfetto - ieri nebbia e neve, sull'altro versante le meravigliose curve da stadio, ma la domanda è: lo Zoncolan è così interessante dal punto di vista tecnico? È vero che la gara l'accendono i corridori, ma ieri come da previsione non è successo nulla fino a poco prima del chilometro finale - i più ottimisti speravano di vedere qualcosa intorno ai -3, ovvero l'inizio del tratto mortifero.

Almeno lo Zoncolan da Ovaro ti mette in un angolo da subito, pur restando poi una salita dove è (quasi) impossibile scattare davvero, dove con i rapportini ci si salva, dove la selezione arriva da dietro. E in aggiunta: perché non sfruttare per indurire la tappa anche qualcuna delle tante salite lì intorno?
Una sfida che più che ispirare, spaventa, anche se poi alla fine è vero, emergono sempre i valori dei più forti, come ieri Bernal o come tre anni fa Froome.

Foto: Luigi Sestili


Una questione di equilibrio

Il lavoro di Ugo Demaria è uno di quei lavori da spiegare bene. Demaria è fisioterapista e osteopata da molti anni ed è al Giro d'Italia con l'AG2R Citroën. «Credo ci sia un errore di base: alcuni pensano che dall'osteopata si vada solo quando ci si è fatti male in seguito a una caduta. In realtà non è e non deve essere così. Il nostro ruolo è anche quello di prevenire, di risolvere problemi che, magari, ad ora non sono nemmeno avvertiti come tali. Mi spiego meglio: se sali su una bicicletta con una ruota fuori centro, tu puoi pedalare comunque e, per i primi tempi, ti sembrerà anche normale. Fino a quando tutta la bicicletta si storterà e pedalare diventerà impossibile. Agli uomini e alle donne accade esattamente la stessa cosa».

Il punto centrale, osserva Demaria, è che gli umani non hanno naturalmente una conformazione fisica adatta a stare in bicicletta e molti movimenti che devono fare per stare su quella sella sono, per così dire, innaturali. «Determinate posizioni possono comportare dolore, proprio per questo motivo. Tendenzialmente sono situazioni marginali che se corrette portano un vantaggio minimo. Però un Giro d'Italia o un Tour de France spesso si giocano su pochi secondi e non ci si può permettere di trascurare nulla. Io parlo di riequilibrio: provo a fornire un equilibrio al corpo che per molte ore sta in una posizione a lui non consona».
La giornata di un osteopata al Giro inizia sin dal mattino presto, aiuta i massaggiatori, prepara i rifornimenti e poi va in hotel ad attendere l'arrivo della squadra. «Per questioni di tempo non riesco a trattare tutti gli atleti ogni giorno, così la priorità va a chi ha più bisogno di un trattamento per problematiche specifiche». Negli anni, Demaria ha affinato tecniche e capacità e, ultimamente, dopo cena, pratica anche trattamenti che aiutino il riposo.

«A questi atleti si chiede tutto, da loro si vuole tutto. Lo stress e la pressione sono una componente importante. Non sono uno psicologo e non mi arrogo competenze che non ho, ma sono sicuro del fatto che ogni persona che stia a diretto contatto con gli atleti debba cercare di affinare la propria sensibilità e avere particolare attenzione ad ogni dettaglio, anche quello che sembra trascurabile». E la sensibilità, che è pane per il lavoro di Demaria, è duplice. «La palpazione è fondamentale, aiutano i test e gli esami. Soprattutto, però, è necessario ascoltare e, se possibile, aver provato ad andare in bicicletta e conoscere quelle sensazioni. Conoscere la dinamica di un corpo in bicicletta, non solo a livello teorico ma anche pratico».

Il resto sono aneddoti e conoscenza personale. Per esempio quando si parla di Andrea Vendrame. «Potrebbe essere mio figlio. L'ho visto crescere. Nel primo giorno di riposo non stava molto bene, stava ancora entrando in forma. La sera prima ci ha detto che ci avrebbe provato. Diciamo che ci è anche riuscito. Noi avevamo il timore che non tenesse sull'ultima salita, quando ha scollinato poteva perderla solo lui». Demaria gli consiglia di riguardare le gare di Paolo Bettini e di ispirarsi a lui per istinto e tenacia.

Non solo, però, perché Demaria lavora anche con atleti fuori dalla squadra. «Se tutti avessero la testa di Pozzovivo, avremmo una qualità stellare. Pensate che è venuto a cena da me il 22 dicembre: c'erano tante golosità in tavola, lui no. Lui si è mangiato la sua insalata con la carne cruda. A Modolo, invece, una volta feci assaggiare il carpaccio, lo mangiò di gusto e, pensate, il giorno dopo fece scintille alla Sanremo».

Foto: Luigi Sestili