Sua Maestà Stelvio

Lo Stelvio ha risvegliato un Giro d'Italia che sembrava essersi addormentato, abbandonato ad un letargo autunnale. Lo ha fatto nell'unico modo possibile, impassibile di fronte a ciascuna delle storie dei ciclisti che lo scalavano. Giudice ferreo di responsabilità inevitabili. Non c'è pietà fra i monti in mezzo a cui si inerpica una strada serpentina che sibila paure. Chissà cosa avrà pensato Almeida quando ha iniziato a perdere posizioni, quando ha capito che quelle ruote si allontanavano sempre più, quando ha pensato a tutti i suoi sogni, con quella maglia rosa addosso, e ha temuto di non poterne concretizzare alcuno. In fondo il difficile è proprio rinunciare alla felicità immaginata, a quella possibile fino a qualche secondo prima. Lassù faticano tutti ma i pensieri cambiano forma alla fatica. Wilco Kelderman per qualche chilometro alleggerisce la pedalata proprio grazie al pensiero, grazie a quel punto rosa che si allontana e gli fa credere che oggi è possibile, che Almeida, ora, è alla frutta. Tutto cambia, si ribalta, con una velocità che qui puoi solo immaginare.

Tao Geoghegan Hart è più tranquillo perché non è solo e lì davanti la sua squadra sta davvero facendo tutto il possibile. Tutto il possibile o anche di più lo ha fatto Rohan Dennis, davvero commovente oggi. Dennis aiuta con l'anima di chi vuole aiutare e lo fa sino all'ultimo respiro. E noi immaginiamo il suo pensiero: «Dai, ancora una pedalata e poi mi sposto. Arrivo a quel sasso, a quell'albero, a quel tifoso e poi mi sposto. Cambio rapporto, un'ultima spinta e mi sposto». Ha rimandato tanto Rohan Dennis, così tanto che quando si è spostato non ne aveva davvero più, quasi si fermava. Ha dato tutto, Dennis. Geoghegan Hart, in quel momento, avrà pensato alla responsabilità che aveva sulle gambe, perché quando qualcuno si sfinisce per te, per aumentare le tue possibilità di farcela tu ti senti in dovere di fare qualcosa. Qualcosa di speciale, magari vincere, magari indossare la maglia rosa. E chissà cosa avrà pensato quando non ci è riuscito. Cosa ha pensato Jai Hindley, invece, lo sappiamo. Lo ha detto più volte dopo il traguardo: «Incredibile, è incredibile». Dopo il traguardo, quando in maglia rosa c'è già Kelderman, per pochi secondi. In gara, mentre saliva ai Laghi di Cancano e parlava con Geoghegan Hart, avrà rivisto i suoi genitori e quel giorno in cui lo misero in bici a soli sei anni.

Avrà pensato che oggi sarebbe stato proprio un bel giorno per dimostrare che mamma e papà ci hanno sempre visto lungo. Magari per farlo in maglia rosa. E intanto la voce dalla radiolina, la voce di Kelderman che è lì e da chilometri e chilometri è maglia rosa virtuale. Chissà se uno dei due ragazzi Sunweb avrà pensato anche a questo? A cosa avrebbe ottenuto l'altro a fine tappa. Chissà se c'è un pizzico di rivalità fra Kelderman e Hindley? Chissà se, anche solo per qualche istante, avranno pensato: “La maglia rosa la voglio io, la devo avere io”. Perché certe cose sono umane ed è anche giusto dirle. Dei tanti chissà non sa cosa farsene la classifica generale che pone Kelderman in prima posizione e Hindley in seconda. Anche Geoghegan Hart ha altro da pensare perché stasera non ha solo due rivali ma ha due rivali che sono alleati o almeno dovrebbero esserlo. Lui, forse, può sperare. Può sperare che qualcosa fra i due vada storto, può sperare di essere lì per approfittarne. Ma questa è un’altra storia e ve la racconteremo molto presto.

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Chi ha paura di João Almeida?

Fatevi avanti coraggiosi, oggi, sulle non-troppo-ripide rampe che portano verso Piancavallo. Salita nervosa, irregolare a tratti, trampolino per impavidi, appiglio per timorosi, ma che tra freddo e vento in faccia potrà provocare dolore.

Fatevi avanti se volete ribaltare la corsa, perché fino a oggi avete avuto paura di un ragazzo che di anni ne ha ventidue, come Pogačar o Hirschi: quest'anno pare che non ne abbiamo ancora avuto abbastanza.

Quando un corridore indossa la maglia rosa, la narrazione, scritta o parlata, dà fondo a quello che è il sunto della retorica. La maglia rosa fortifica, quadruplica le forze, è un segno di eleganza e chi la indossa appare più bello e distinto di quello che è in realtà. Ti fa correre più forte, è una medicina, allevia la fatica, dà soddisfazione, alleggerisce nel suo essere un fardello, è come lo slogan su un giornalino degli anni '70: indossami - sarai soddisfatto. La squadra che ti scorta all'improvviso diventa una fratellanza, i ragazzi con i quali condividi ogni istante si tramutano in fedeli che si alimentano dall'energia che irradia il colore che porti addosso.

Il 2020 anche nel ciclismo è un anno che più strano e complicato non si poteva e immaginatevi la faccia di João Almeida che inizialmente non doveva nemmeno essere al Giro. Quando è passato sembrava già aver visto il meglio alle sue spalle, spremuto da una febbrile attività giovanile. Non ha mai vinto una corsa, non ha mai disputato un Grande Giro, l'unica Monumento non l'ha nemmeno portata a termine, e invece, a suon di costanza, scalava le gerarchie. Doveva esserci solo per dare conforto a Evenepoel, e poi eccolo lì.

Visto quanto va forte sul passo, e visto lo spunto veloce, dopo il terzo giorno è in maglia rosa e lo è ancora alla vigilia della quindicesima tappa. Per trovarne altri con più di dieci giorni in maglia rosa a meno di ventitré anni, bisognerebbe scomodare nomi di enormi talenti precoci e che per bontà lasciamo negli appunti.

Non vi fa paura uno così? Ne diciamo un'altra: quattordici tappe al Giro d'Italia 2020, mai fuori dai venticinque; quattro volte sul podio di tappa. Certo, di "salite vere" - corsi e ricorsi retorici - non ne abbiamo ancora viste e oggi, lo diciamo fuori dai denti, la possibilità di perdere la maglia rosa c'è ed è concreta - Kelderman, gettonatissimo.

In Portogallo si dice "Barriga cheia cara alegre" - pancia piena volto allegro - a noi, ammiratori di facce, il viso di Almeida sembra sempre attento e in tensione, la maglia rosa fa paura e cura la tristezza.

Un giorno, sul petto di un uomo alla deriva, e descritto alto e biondo come una birra, fu trovato scritto un messaggio: "Sono nato per rivoluzionare l'Inferno". Almeida forse (ancora) non osa così tanto, ma agli altri sembra far davvero paura.

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Sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo

Scruto negli occhi i miei avversari e vedo visi solcati dalla fatica, facce intrise di paura, agonismo e agonia. La pioggia picchia sulle nostre teste, passa attraverso un rigagnolo creatosi tra occhio e naso, e va a formare una valle di lacrime. Cambi regolari. Spengo la radiolina e poi la riaccendo come un tic nervoso. La strada è pericolosa e riflette un cielo diventato nero. Ho le mani fredde ma pedalo come se nulla fosse. Mi sposto per far passare un avversario, chiudo il buco, si sale e si scende: quale sporca abitudine. L'acqua si infila dappertutto, ci prende a schiaffi e ci fa soffrire.

Mi chiamo Jhonatan Narvaez. Ho la pelle scurissima tanto che mi hanno sempre scambiato per colombiano. In effetti sono nato al confine con quella terra e per diventare seriamente ciclista spesso mi sono spostato di là. Chi mi ha scoperto è andato in giro per l'Europa a dire che sono forte, addirittura fortissimo, che assorbo facilmente quello che mi viene spiegato, ma non vorrei che si sapesse troppo che imparare l'inglese per me è stato più difficile che andare in salita.

Sono forte sul passo, ho vinto titoli in pista e a cronometro. Ho spunto veloce. La prima volta che sono venuto in Europa mi hanno sottoposto a dei test fisici dai risultati, a sentir loro, sbalorditivi. Io sono sempre “andato”, senza preoccuparmene. Salita, discesa, pianura, volata, pista: insomma davvero forte ovunque.
Salita. Per arrivare a casa mia ho percorso migliaia di volte un “puerto”, come diciamo noi in spagnolo, di cinque chilometri. Mi allenavo in montagna e quindi le salite al Giro non mi fanno troppa paura. Leggo dappertutto scritte che richiamano al Pirata Pantani. Lui davvero andava forte in salita, davvero non aveva paura in bicicletta. Quando vinceva il Giro, io avevo un anno, e dalle nostre parti non si faceva che parlare di quella volta che c'è stato il Mondiale in Colombia e lui arrivò sul podio.

Pista. Ho fatto il record mondiale di inseguimento giovanile sui tremila metri. Non sono Ganna, è vero, ma nemmeno uno sprovveduto.
Tra questi compagni di sventura in fuga non sono molto conosciuto non fosse per la squadra in cui corro. Non ho la verve di Pellaud, quello attaccherebbe anche nelle tappe di riposo; non parlo con l'accento toscano come Clarke, non sono a caccia di un contratto come Rosskopf e Campenaerts, non sono amato da tutti come Benedetti: lui si mette davanti al gruppo e non si sposterebbe per nessun motivo. Però vado forte nelle giornate come quelle di oggi e gli altri forse non lo sanno.

In Ecuador scrivono di me che vengo dal cielo perché sono nato e ho vissuto a tremila metri di altitudine dove la temperatura media è di dieci gradi e fa sempre freddo. E piove. Cosa volete che sia un'atmosfera così per uno come me? Pensate: oggi mi sembra di stare nei Paesi Baschi, non in Romagna, un posto che adoro perché piove sempre e fa freddo. Almeno quando vado in bicicletta.

Mi chiamano “avioneta”, l'aeroplano. E quindi attacco, plano dopo l'ultima salita con un ucraino che parla in bergamasco. Lui fora. Che sport di merda il ciclismo, vero? Me ne vado, pennello le discese, un po' presuntuoso mi paragono ad un'artista. In alcuni tratti appaio indeciso perché tiro il freno e prendo meno rischi possibili: se sentiste quello che mi stanno urlando nella radiolina rallentereste anche voi. Dicono che sia timido, ma con una volontà di ferro. Conoscete ciclisti senza carattere?

Ho peccato di superbia: tre anni fa Carapaz, Caicedo ed io abbiamo fatto baldoria. Abbiamo bevuto un po' troppo durante il ritiro della nostra nazionale prima dei Giochi Bolivariani, ci hanno beccati e cacciati. Fu una leggerezza. Ci hanno espulsi ma siamo tornati. Caicedo ha vinto una tappa pochi giorni fa, Carapaz ha vinto il Giro lo scorso anno, e la storia che a casa ha un grosso tacchino che fa da guardia al Trofeo Senza Fine non so se sia vera, ma è incredibilmente affascinante.

Pianura. Guardo dritto in posizione da cronometro, faccio il mio passo, mi frullano per la testa mille pensieri. Portal, quello che so del ciclismo lo devo tutto a lui; la mia terra, Playón de San Francisco, quello che sono lo devo all'Ecuador. Mio fratello, la scuola di Medicina che mi avrebbe accolto se non mi trovassi dove sono oggi, le corse in Francia dove mi sembravano tutti matti, ma se ho imparato a correre è perché lì si fa sul serio. Vedo il mare, ci sono delle giostre chiuse che sembrano carcasse di mostri giganti. Poco più in là il traguardo. La pioggia: anche in una giornata come oggi è benedetta, mi è amica. Quanto mi piace la pioggia? Quello che per gli altri sono schiaffi per me sono carezze. E un clima così? Non potrei volere altro. D'altronde sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo.

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Il tempo di riflettere

Riflessioni sugli ultimi avvenimenti al Giro d’Italia.

Diciamolo chiaramente ed evitiamo pericolosi fraintendimenti: ogni persona che svolga il proprio lavoro ha il sacrosanto diritto di pretendere che siano assicurate misure di sicurezza adeguate. Se queste misure non sono garantite ha la possibilità ed il diritto di segnalare le mancanze ed, eventualmente, di agire, anche giudizialmente, affinché queste carenze siano rimosse. La salute è un bene troppo importante e non ci si può nascondere: la pandemia da Covid-19 la mette a repentaglio. Il punto non è questo ma un altro. Il punto è assicurarsi che quando si agisce con recriminazioni varie, in tutti gli ambiti della società ed anche nello sport e quindi nel ciclismo, lo si faccia veramente a tutela del bene salute e non prendendo a pretesto questa tutela per difendere altri interessi personali. Chi protesta per difendere il bene salute ha tutta la nostra approvazione, chi lo fa in maniera pretestuosa per altri interessi, invece, crediamo debba riflettere. Quanto meno sul fatto che, in questo modo, non ha rispetto proprio per quel bene di cui finge di farsi paladino.

Cosa vogliamo dire? Abbiamo parlato con diversi direttori sportivi e ci è stato assicurato che le misure di sicurezza adottate dall'organizzazione del Giro d'Italia, per quanto concerne gli atleti, sono assolutamente adeguate. L'organizzazione questo deve fare: garantire il massimo della sicurezza possibile. La sua è un'obbligazione di mezzi, non di risultato. Risulta evidente a tutti come i numeri dei contagi siano aumentati e il ciclismo, per quante bolle possano isolarlo, vive in questa realtà. Per questo motivo qualche contagio poteva esserci e purtroppo c'è stato. Ci spiace e auguriamo agli atleti coinvolti una pronta guarigione ma il rischio che loro hanno corso e corrono è il rischio che corrono tutte le persone che, nonostante questa situazione, continuano a svolgere il proprio lavoro. Un rischio che si auspica sempre più vicino al minimo ma che non potrà mai toccare quota zero. Al Giro, fino ad ora, sono state trovate positive al Covid-19 otto persone: due atleti e sei membri dello staff fra i 571 test effettuati tra l'11 ed il 12 ottobre. Ci pare che, al momento, non siano numeri che possano mettere a repentaglio lo svolgimento di una manifestazione sportiva del livello del Giro d'Italia. In questi giorni si stanno effettuando altri test e una nuova tornata di test a tappeto è prevista per il secondo giorno di riposo: aspettiamo i risultati e proviamo a mantenere razionalità ed occhio critico. Vale per tutti ed anche per gli addetti ai lavori della stampa che anche in questi giorni, in taluni casi, per la fretta di diffondere una notizia, sono stati parte di un'informazione approssimativa che altro non fa se non seminare panico e allarmismo. Soprattutto a causa dei titoli, studiati per attirare click e visualizzazioni.

Si veda la vicenda dei 17 poliziotti della scorta del Giro-E positivi al tampone per cui, per fare chiarezza, è dovuto persino intervenire il ministero degli interni.
A qualcuno non sta bene la situazione in corsa? Ci risulta che nessuno impedisca alle squadre di esporre lamentele, cosa peraltro fatta, oppure di meditare il ritiro dalla corsa. Vista la situazione, ci permettiamo di non condividere una simile scelta e di dubitare che le reali motivazioni che la accompagnano siano da ricercare nella tutela della salute. Dubbio nostro, sia chiaro. Ogni squadra però deve scegliere secondo ciò che ritiene opportuno: non volete più restare in corsa? Ritiratevi, nulla da obiettare, state perseguendo un vostro legittimo interesse. Quello che invece è intollerabile è pretendere che quel vostro interesse, che visti i dati non rappresenta una tutela della salute, debba inficiare l'intera manifestazione impedendole di giungere alla normale conclusione a Milano. In ogni decisione sarebbe auspicabile una attenta ponderazione e scissione, a mente fredda, tra quello che è l'interesse generale e quello che è invece un interesse personale. Non sempre le due fattispecie sono nettamente separabili, in particolare quando la tensione e la pressione aumentano. Servirebbe solo qualche pausa di riflessione in più prima di formulare richieste e suscitare polemiche. Proviamo a prendercela. Tutti.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Elogio di Peter Sagan

Se Peter Sagan non ci fosse, bisognerebbe inventarlo perché di gente così il ciclismo ha bisogno. Forse, però, avremmo dei problemi, perché la persona più adatta per inventare qualcuno di simile a Sagan sarebbe proprio Peter Sagan. La fantasia non è per tutti e per inventare cose belle ne serve tanta. Sagan non ha problemi con l'inventiva ed oggi lo ha dimostrato, ammesso che ce ne fosse bisogno. Ha dimostrato che gli uomini hanno un unico modo per essere, e quel modo è il "nonostante". Tanto avrebbe potuto lamentare o recriminare, e sappiamo tutti quanto sia facile quando le cose non vanno, tanto avrebbe potuto dire, invece no. Peter Sagan ha scelto di usare la fantasia e l'inventiva: la salvezza che troppo spesso dimentichiamo di avere a portata di mano. Non quella che porta altrove, non quella che rifugge la realtà o i problemi, in cui comunque siamo calati, ma quella che si infila tra i problemi e prova a leggerli diversamente, a declinarli diversamente, a interpretarli mettendoci qualcosa che altri non vedono, che altri non capiscono. Gli altri certe cose non possono nemmeno immaginarle, forse non vogliono immaginarle perché immaginare un finale differente costa fatica.

Forse Sagan intendeva questo quando ha detto: «Finalmente ho vinto come piace a me. In che modo? Dando spettacolo, no?». Sagan che ha vinto a Tortoreto Lido dopo 471 giorni di digiuno e ci dicono avesse gli occhi lucidi dopo il traguardo. Non ha vinto come tante altre volte perché non ha fatto come tante altre volte, con intelligenza e lungimiranza. Arnaud Dèmare in volata è più veloce, non solo di lui, di tutti in questo momento. Non ci si può far nulla. O meglio: si può fare di tutto ma niente cambierà questa realtà. La realtà la cambi con ciò che realtà non è o almeno con qualcosa che realtà non è ancora. Non è realtà quando la pensi, quando la immagini, quando sei tu l'unico a crederci. La cosa peggiore è che realtà potrebbe non diventare mai: se la squadra di Dèmare insistesse ancora qualche chilometro, se tu non avessi più le forze o la fiducia per insistere ancora, se quei secondi ti sembrassero troppo pochi, se gettarti in discesa in quel modo ti incutesse qualche paura, se pensassi di accontentarti dei punti per la maglia ciclamino, se ti tornassero in mente quelle voci che hai sentito e non ti sono piaciute, di più, ti hanno ferito. Anche se non lo dai a vedere, anche se hai sempre il sorriso sulle labbra e la battuta pronta.

Le realtà immaginate si sbriciolano proprio in quel momento: quando ti fossilizzi sulla realtà che c'è invece che su quella che ci sarà o che potrebbe esserci. Come a dirti: «Se non ci credi più tu, cosa facciamo?». Tu devi crederci a qualunque costo. Peter Sagan non ha mai avuto dubbi su quel sogno sognato, non oggi almeno. Lui sa che si vive e si vince sempre "nonostante". Il che non significa arrendersi, non significa adeguarsi, non significa rinunciare. Significa vedere chiaramente ciò che c'è e cercare tanto e ovunque ciò che vorresti ci fosse. Con l'ostinazione dei sogni e con la concretezza della realtà.

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Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

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Michele Scarponi, l'Etna e quel ciclismo infinito

Michele Scarponi voleva che tutto fosse perfetto per quel Giro d'Italia 2011. Per questo, a primavera, scelse insieme ai suoi direttori sportivi, Roberto Damiani e Orlando Maini, e alla sua squadra, la Lampre, di andare ad allenarsi all'Etna. "A Muntagna" come la chiamano lì, quella stessa montagna da cui si vedono le alture ma anche il mare. A dire il vero, qui sopra si vede solo nero, tanto nero: sono le pietre laviche bruciate. Sembra quasi di percepire l'odore acre del fuoco che divora lentamente la sua preda, non potendola consumare con un'unica fiammata. Fuoco che mangia altro fuoco; questo sono i vulcani. Scarponi, però, guardava altrove, a quel lontano 15 maggio che, assegnando la prima tappa con arrivo in salita, avrebbe stravolto la classifica generale. Alberto Contador, il Pistolero, e Vincenzo Nibali, lo Squalo dello Stretto, sarebbero stati lì e lui doveva essere con loro, anzi, davanti a loro. Marco, fratello di Michele, lo spiega molto bene: «Michele voleva vincere. Quando a Natale giocavamo assieme a carte, se non vinceva, ad un certo punto iniziava a scherzare, a ridere, a prenderti in giro. Poi buttava il mazzo sul tavolo e se ne andava. Se giocavamo a ping-pong e perdeva mi tirava la racchetta. Grazie a quella bicicletta, al tempo, alle tante vittorie e alle tante sconfitte, Michele è cambiato, è cresciuto. Diventato padre, Michele ha capito che oltre alla vittoria c'è qualcosa di molto più importante. Lui lo aveva capito e stava cercando di donarlo a tutti». Passano giorni, settimane, mesi ed arriva il Giro d'Italia. Arriva la nona tappa, 169 chilometri: da Messina all'Etna.

Le speranze sono tante, la realtà non è quella desiderata. Quel giorno Scarpa non c'è. L'arrivo è situato a pochissimi metri dall'albergo dove la squadra ha effettuato il ritiro pre-Giro; il luogo peggiore che possa esserci, quello dove i ricordi e le aspettative si mescolano all'amarezza per una situazione che delude tutti. Michele si chiude nel silenzio, non vuole parlare con nessuno e per giorni non sembra nemmeno un lontano parente del ragazzo che tutti conoscono. Roberto Damiani se ne accorge e ne parla con Orlando Maini: «Michele soffriva. Tutti lo raccontano come un ragazzo allegro, simpatico, divertente, se vogliamo. Scarpa era così ma dentro aveva un animo estremamente sensibile, un animo da maneggiare con cura e delicatezza. Decidemmo di aspettare qualche giorno, confidavamo nella cura del tempo per quella delusione». Quando la terza settimana di Giro si avvicina, Michele è ancora con il morale a terra. Quasi rinunciatario. Damiani va in camera da Maini: «Scarponi non può continuare così; fa male a lui ed anche a noi. Deve scrollarsi di dosso questa sofferenza e, se decide di continuare il Giro, deve farlo con la convinzione dei primi giorni. Bisogna parlarci. Tu lo conosci meglio, sai meglio come trattarlo, ci parli tu?». Orlando Maini bussa alla porta di Michele quella stessa sera.

Si siede sul letto accanto a lui, lo guarda negli occhi pensando a come impostare il discorso. Poi decide di andare dritto al punto: «I discorsi preparati non mi sono mai piaciuti, gli dissi ciò che sentivo. Iniziai così: «Michele, cosa succede? Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto per arrenderci così? Molliamo tutto, molliamo tutti e andiamo a casa in questo modo? Sei sicuro di volere questo?». Michele era molto critico verso sé stesso quando non raggiungeva il traguardo che si era prefissato. Avevamo un gruppo di lavoro forte e coeso. Michele aveva bisogno di metabolizzare. Quel discorso andò a toccare il suo orgoglio. Servivano semplicità, delicatezza, sensibilità. E lo vedevi che si riaccendeva, che iniziava a farmi domande. Sono tornato in camera in brodo di giuggiole dalla contentezza. Lavorare con Michele è stato un privilegio. Sappiamo tutti come finì quel Giro: davanti a Nibali, un successo importante. Fino a che, con la squalifica di Contador, il Giro d'Italia venne assegnato proprio a Michele».

E, riguardando le immagini della tappa di ieri, noi ripensiamo a ciò che ci disse Marco Scarponi qualche tempo fa: «Il ciclismo è infinito, ricordiamolo sempre».
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Aiutarsi a vivere e magari a vincere

Quando Diego Ulissi è salito sul terzo gradino del podio al Giro dell'Emilia, il 18 agosto, l'amarezza del suo sguardo offuscava parte della soddisfazione per i risultati, comunque soddisfacenti, che il corridore toscano stava ottenendo. Sempre lì, secondo, terzo, quarto, quasi il primo posto fosse maledetto. I ciclisti lo spiegano bene: quando manca sempre meno a raggiungere un risultato e non ci riesci, quella volontà, tendenzialmente, diventa una sorta di ossessione, accresciuta dal fatto che manchi poco. E, quando "un'ossessione" ti tormenta, diventa tutto più difficile, dentro e fuori. Dentro perché tutto ti ricorda che sei lì ma non sei primo, perché inizi a pensare a tutto ciò che avresti potuto fare diversamente (e sai bene quanto è inutile ma la tua testa è fatta così e devi conviverci), perché vorresti un pizzico di quel sollievo che viene dal vincere, magari vorresti dedicarla alle tue figlie quella vittoria, a tua moglie che è a casa ad aspettarti, di certo le tue braccia fremono per la voglia di essere gettate all'aria. Così quando vinci, come ieri, le lanci all'aria con tale forza che ti chiedi come facciano a non farti male. Ma è così, quando sei felice non fa male. Accade anche con gli abbracci. Fuori, invece è più difficile perché la gente non sa, festeggia, ride, ti ferma, ti chiede, ti cerca e tu vorresti stare un attimo da solo, per ripensare a dove hai sbagliato. Non puoi perché sei un uomo conosciuto, perché il ciclismo è una festa, perché loro, le persone, non hanno alcuna colpa dei tuoi malesseri.

Diego Ulissi era sul podio e nella testa, probabilmente, aveva questo quando una giovane mamma con una bambina in braccio lo ha chiamato: «Diego, Diego lanciaci il cappellino». Ulissi si è voltato di scatto, inizialmente serioso, ha guardato la mamma, ha guardato la bimba e ha sorriso: «Non posso, mi spiace». La giovane donna ha capito e: «Non preoccuparti, sarà per un'altra volta». Si è voltato e ha iniziato a scendere gli scalini del podio. Ha sorriso pur non avendone alcuna voglia, ha sorriso per chi lo cercava. Capite l'importanza di questo dettaglio? Creare un sorriso per non deludere, perché sai che gli altri vorrebbero questo da te, perché sai che gli altri possono essere felici anche solo per questo. Perché «quel ciclista, quella ciclista, mi ha sorriso, mi ha salutato». Non è poco. Non è nemmeno scontato. Si tratta di una capacità profonda e difficile da acquisire; la capacità di accantonare il tuo "malessere" per qualcuno che ti cerca e ti vorrebbe felice. Per qualcuno che è nel mezzo di una festa e tu non vuoi rovinare la festa di nessuno. Ti ricordi come facevano i tuoi genitori da ragazzino, quando, negli attimi di gioia, ti omettevano le brutte notizie per permetterti di ridere senza ombre. Un poco ti arrabbiavi perché volevi sincerità ma oggi li ringrazi perché risate del genere non sai quando le farai più. E vorresti tanto qualcuno a coprirti le spalle.

E non conta nulla il fatto che il cappellino non sia stato regalato. Non conta assolutamente nulla. Ci sono delle cose che non possiamo fare e di fronte a queste poche parole possono valere. Alle regole non si sfugge, per dignità personale prima che per timore della punizione. Anche di fronte a queste, però, possiamo scegliere il modo di porci con chi ce le chiede. Per una bambina rinunciare al cappellino del proprio idolo è un sacrificio pesante e i grandi dicano ciò che vogliono ma tengano fede a un dovere. Quello di scivolare sulle vite degli altri lasciando il minor peso possibile perché quelle vite hanno già le loro complessità e le loro pesantezze. Cose che non possiamo sapere, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare e per questo non dovremmo giudicare. Una cosa però la sappiamo: per andare avanti gli uomini si aggrappano a tutto, ad ogni segnale impercettibile, anche a quelli a cui dicono di non credere. Ecco, abbiamo il dovere di dare qualche segnale di questi. Sempre. Anche e soprattutto quando non ne avremmo voglia e questo segnale servirebbe a noi. Non c'è altra possibilità per aiutarsi, a vivere e a magari a vincere.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Tornerai, Miguel

Per Miguel Ángel López è crollato tutto dopo 9'38'' dall'inizio del Giro d'Italia. Lo ha spiegato lui stesso, ieri sera, in albergo, parlando con i suoi compagni: «Mentre appoggiavo le mani sulla protesi, ho sentito la bici scivolarmi via. Era impossibile trattenerla: si è ribaltata sotto di me. Qualcosa di incredibile». Il referto medico ha escluso fratture evidenziando solo una profonda ferita nei pressi dall'arteria iliaca, recupererà nelle prossime settimane, insomma. L'uomo è un impasto più complesso, l'uomo non può fermarsi al dato di fatto degli esami clinici, la sua mente non glielo permette. Come quando la scienza sentenzia: «Lei sta bene. Non ha nulla». E tu non riesci a spiegarti come sia possibile, tanto fa male. Forse il viso di Lopez, appoggiato alla testata del letto, con gli occhi rivolti verso l'alto, vuole dire proprio questo. Cenghialta, suo direttore sportivo, lo ha detto mentre lo attendeva in ospedale: «Ora si è tranquillizzato, ora è più calmo. Dobbiamo solo aspettare». Quel sorriso dissimulato, rivolto ai compagni, sottintendeva questo: «Sono più tranquillo, va tutto bene. Se non c'è niente di rotto va bene, come dire il contrario?». In realtà non va bene niente e, prima di tutto, non va bene aspettare. Aspettare ancora. L’attesa ha senso quando c’è la possibilità di riempirla di significato con ciò che verrà. Quando ti strappano via da ciò che hai atteso, come non fosse ancora il tuo turno, come non fosse lì per te, come tu non fossi la persona giusta, dell’attesa proprio non vuoi sentire parlare.

Non abbiamo mai corso un Giro d’Italia in bicicletta ma lo abbiamo percorso in auto, per raccontarvelo. Sappiamo cosa significhi l'attesa di un evento del genere che è poi simile ad ogni altra attesa cercata, voluta. Abbiamo vissuto l'immaginazione che ti traghetta lì, al tuo primo Giro d'Italia o al ventesimo ma poco cambia o dovrebbe cambiare. Se smetti di aspettare ciò che vuoi vivere che senso dai al tuo essere qui? Quando aspetti ciò che vuoi, le ore che si dilatano sono direttamente proporzionali alle paure che ti assalgono. Vuoi essere parte di questo qualcosa in maniera così forte che vedi tutti gli ostacoli che potrebbero impedirtelo e speri solo non si manifestino. Non è tanto questione di ottimismo e pessimismo, accade quando ci tieni. Come quando hai un appuntamento per una sgambata e dieci minuti prima squilla il telefono, la mente corre: «Dimmi che non rimandiamo». Come quando aspettate la vostra gara per tanto tempo. Accade come è accaduto per i tanti eventi in bilico in questo periodo di norme anticovid. Come è accaduto anche per questo Giro d'Italia, ad ogni risalita dei numeri dei contagi. Per gli appassionati, per noi che lo raccontiamo e gli vogliamo bene, e per tutti gli atleti che, su questo Giro, hanno scommesso mesi. Mesi duri, difficili, senza certezze, chiusi in casa, in un vortice di dubbi. Poi i giorni si avvicinano e il Giro parte. Tu sei lì e te lo dici: «Ci siamo. Ho immaginato bene, sono qui. Ora si va, via». E magari sei come Miguel Ángel López ieri e non lo sai. Non sai che dovrai gustarti quella manciata di chilometri e basta. Perché la "bicicletta ti si ribalterà sotto" e non potrai fare nulla. Ti caricheranno su una barella, ti porteranno in ospedale e, fatti tutti gli esami, ti indicheranno una prognosi. Un numero che ti dirà fino a quando dovrai aspettare per poterci nuovamente sperare.

Ma qui le ore saranno ancora più lunghe, i mesi più difficili, le stagioni interminabili. Sì, perché quando ti strappano via dal tuo momento poi sembra impossibile un ritorno. E se torni e poi succede ancora? Se torni e non accade nulla di quello che desideri? In certi momenti ti dici anche che è inutile tornare, ti chiedi il senso del ritorno. Di lavorare tutti quei mesi e poi chissà. Quanto può essere cattiva la vita? Non serve chiederselo. Serve riprendere in mano quella bici e andare. Tirando qualche pugno sul manubrio, imprecando, magari anche sbattendola contro qualche muro in qualche momento no: ma poi riprendendola in mano e controllando che sia a posto. E, magari, quella stessa vita ti farà trovare sul cammino qualcosa di così inatteso, ma bello questa volta, per cui valga la pena. Più verosimilmente non sarà qualcuno a darti una ragione per aspettare e tenere duro ma sarai tu stesso a doverla cercare. Perché lo sai bene ormai: chi aspetta può essere deluso ma chi smette di aspettare è disilluso. E questo è ben più grave. Un ciclista non può permetterselo, un uomo non può permetterselo. Ricordiamocelo quando aspettare stanca.

Foto: Bettini


Filippo Ganna è straordinario

Permetteteci di dirlo: Filippo Ganna, oggi, è stato semplicemente stupendo. Per quella bicicletta dorata, omaggio alla perfezione del mezzo che sfida il vento (ma "ghe voeren i garùn" come ricordava qualcuno) e per quella maglia iridata che ne scolpisce ogni centimetro di muscoli, ogni proiezione di forza, di potenza. Ancor di più: è stato commovente nella semplicità con cui ha risposto alle domande dei cronisti dopo il traguardo, un profumo di normalità che ben si mescola all'atmosfera di questa Sicilia agli albori dell'autunno, spazzata da un vento caldo che ricorda Luglio. Gianni Mura spiegava che il vento, e lui parlava di quello del Mont Ventoux, è come una mano che ti prende e ti sposta. Un consigliere del timore che sconsiglia azioni di fantasia e ti spinge indietro, di lato, obliquamente, persino a terra, se provi a non ascoltarlo. Quel vento traditore e multiforme che appare e scompare, ingrandendo e ridimensionando aspettative e progetti. Quello che fa sentire gli uomini tanto piccoli e impotenti, che ne quieta la tracotanza, come tutti i fenomeni atmosferici che sovrastano e dominano il mondo.

Gli atleti, almeno nelle prime fasi di gara, sono scostati dal vento, devono mettere nelle braccia altrettanta forza di quella che mettono nelle gambe, per reggere il mezzo. Per segnarne ed indirizzarne il tragitto. Il confine dell'impossibilità che si manifesta, quello dove l'uomo deve rallentare, riflettere e dare il massimo per non arrendersi. Accade nella vita, accade in sella. In certe circostanze, restare in sella è tutto ciò che sia possibile fare. Devi dare tutto ciò che vali, questo conta, poi le condizioni esterne avranno un impatto sulla tua prestazione, ma di quelle non devi farti carico, quelle sono da sopportare, da vivere. Siete capitati nello stesso istante, nello stesso luogo, o scappi o accetti la vertigine.

C'è poi qualcuno che quella vertigine può domarla. Che ha un dono, una dote per cui in quel timore di caduta vede una possibilità. Qualcuno che non nasce oggi, come non nasceva poco più di una settimana fa al Mondiale di Imola o qualche mese fa al Campionato italiano. Giusto per ricordarlo. Qualcuno che a quell'essere saldo, marmoreo, vettore di spazio e tempo, ha lavorato silenziosamente per anni. Sin da ragazzino, sì, perché i talenti puoi possederli ma devi crescerli, coltivarli, curarli. Proprio in segno di gratitudine, verso te stesso e verso la natura che ha scelto te: non era dovuto. Filippo Ganna ha fatto questo per tanti anni e continua a farlo, silenziosamente, con coscienza ed occhio critico. Prima di tutto verso la propria persona. E tutti sappiamo come questo sia merce rara in tempi di giudizi sparsi a pioggia, quasi se li portasse via il vento.

Filippo Ganna che percorre i 15.1 chilometri della cronometro inaugurale del Giro d'Italia numero 103 ad una media di 58.8 chilometri orari. Che percorre un chilometro in meno di un minuto, 51 secondi per la precisione. Che supera i 100 chilometri orari di velocità. Che è campione italiano e campione del mondo della specialità. Che è tanto altro, tutto da scoprire e da raccontare, magari con lo stesso stupore del suo viso di fronte ad ogni nuovo successo. Filippo Ganna, di Vignone, che oggi è maglia rosa, nel primo giorno del Giro. E non abbiamo ancora detto tutto.