Imperfetti come l'Alpe d'Huez

È strano. Tutte quelle voci, quelle campane, quelle mani che battono, che si mescolano sui ventuno tornanti dell'Alpe d'Huez, se sentiti altrove non avrebbero nulla di armonico, sarebbero rumore. Invece lassù sono suono. Sarebbero rumore perché non c'è nulla di concorde, nulla di studiato, di preparato, perché ognuno improvvisa, si dicono cose diverse in lingue diverse. Si urla. Fra i tornanti che diventano colori, poi nazioni e sensazioni, invece, sono suoni per gli stessi identici motivi. Perché sono imperfetti.
Vogliamo parlare della piacevolezza dell'ascoltare e del vedere l'imperfetto: qualcuno che è già caduto, che si è già "sgualcito", che è già cambiato tante volte, che ha perso qualche illusione, non la speranza. È imperfetto Chris Froome perché se fosse stato quello dei tempi migliori non avrebbe avuto bisogno di andare in fuga per arrivare terzo e, anzi, non sarebbe proprio arrivato terzo. Il keniano bianco, oggi, sembra la lingua dell'Alpe, un rumore, in termini assoluti, che si fa suono. E quel suono lo capiamo tutti, è piacevole, confortante.
Giulio Ciccone che inizia l'Alpe d'Huez in testa, sui pedali, guardando verso l'alto non è molto diverso da lui. Ciccone dei rumori ha fatto suono più di una volta, delle cose belle nei momenti peggiori ci ha parlato giusto un paio di mesi fa a Cogne. Quanto peseranno quegli occhiali che Ciccone getta via quando vince? Ben poco, eppure strapparsi qualcosa di dosso ha molto a che fare con gli scalatori: quasi ad alleggerirsi, realmente o simbolicamente. Buttare via qualcosa, lanciarla, è liberarsi. Non si può fare con ciò che si è passato, si fa con quello che si ha addosso. Si resta imperfetti quando si soffre, ma liberi. Liberi di esserlo. Quando hai capito questo, sì, puoi scattare.
Il volto di Tom Pidcock che va verso il traguardo e vince porta ogni segno di questa sofferenza. C'è quel rumore a spingerlo. Ci avete fatto caso? Quelle voci vanno in sincronia con la corsa, sembrano accelerare quando la corsa accelera, rallentare quando si quieta. E i pedali di Pidcock, il suo corpo, quasi seguono quelle voci: c'è accordo. Cosa può diventare quel rumore? Non solo suono, anche sincronia che è muoversi allo stesso tempo, che è quasi musica. Un sottofondo adatto alle sue curve in discesa qualche tempo prima. Eppure era imperfetto. Era tutto imperfetto.
Anche Tadej Pogačar ieri è stato imperfetto in sella: ha perso, è stato sconfitto come mai lo era stato. Ha conosciuto un dolore che mai aveva conosciuto così e l'ha affrontato. L'ha affrontato sentendo male e poi ridendo, scherzando. Non è scontato quando non sei abituato. Quando, oggi, è scattato con Vingegaard alla ruota c'era qualcosa di diverso: la stessa forza, la stessa grinta ma un'altra leggerezza. Il permesso di perdere, di non essere perfetto e piacere lo stesso, forse ancora di più perché si assomiglia alla maggioranza delle persone che gridano, urlano, muovono quei campanacci a tempo perché si immedesimano. Sono e vogliono sentirsi come chi arriva qui in bicicletta. Non come l'atleta, come l'uomo.
Il suono dell'Alpe, la sua lingua, parla a tutti per questo motivo. Basta qualche secondo e capiamo tutti di assomigliargli più di quanto somigliamo a qualsiasi sinfonia.


L'ottavo giorno

E l'ottavo giorno un incidente meccanico. Wout van Aert, smette di pedalare. Scende dalla bici e poi è costretto a inseguire. E l'ottavo giorno Thomas Pidcock pigia sull'acceleratore (in particolare tra 4° e 5° giro, come una furia, chiusi sotto il tempo di sette minuti), piccolo sì, ma forte, guidatore sublime, tecnicamente impeccabile sul circuito olandese. Impeccabile o quasi, con un errorino che nel finale rischia di pregiudicargli il successo: d'altronde il ciclocross non ricerca la perfezione nonostante i tentativi connessi a cui aspira van Aert. Il ciclocross è arte e come l'arte che piace a noi è imperfezione, tecnica, ricerca e istinto. È forza nelle gambe e nella testa.
Parlavamo di piccoli, ma tenaci, ed ecco spuntare Eli Iserbyt, prima a comandare, poi a tiro quanto non bastava per superare il rivale (di sempre), ma per creargli apprensione, quello sì, salvo dare tregua a quelle gambe che da mesi macinano chilometri e sembrano non fermarsi mai.
Hulst è Olanda, non è Belgio. Davvero poco cambia, ciclocrossisticamente intendendo. Il Vestingcross di Hulst è tecnico, ma velocissimo, il terreno varia e c'è un enorme mulino, lo Stadsmolen, tra le attrazioni da visitare. Non fossimo in piena pandemia, nella giornata di ieri sarebbe stato bello andare lì e farsi un giro. Se non è altro perché era in piena vacanza natalizia. Poi in quel mulino i ciclisti ci passano dentro in gara, si gira attorno e tra le mura. Si sale, si salta e si scende, si corre a piedi, insomma ad Hulst, che non è Belgio ma è Olanda, ci si diverte e si potrebbero fare anche un sacco di foto da ricordare. Non manca nulla (a parte van der Poel). È il ciclismo questo, e per fortuna il meglio deve sempre arrivare.
E l'ottavo giorno Wout van Aert rimonta fino al 4° posto dopo essere rimasto fermo per quasi un minuto ed essersi messo a lottare spalla a spalla con gente che incrocia solo - a malapena - sulla linea di partenza o in ricognizione.
Poche ore prima, a Baal, a casa Nys, un altro problema, ma lì un percorso più lento gli permise la rimonta, qui si interrompe senza togliere il fascino a una gara che regala un degno vincitore. Perché se non vince van Aert, ma lo fa Pidcock è comunque qualcosa di notevole. Non tutti sono d'accordo nel parlare di "big three" o "tre tenori" o vedete voi, ma a oggi, da quando è tornato van Aert, hanno vinto solo loro due.
Ha guidato magnificamente Pidcock, mentre da dietro van Aert rimontava e rimontava nella sua livrea nero-giallo-rossa. Dopo pochi minuti piombava su Venturini, il campione di Francia, 20° al traguardo, uno che non correva in coppa del mondo di ciclocross da diversi anni e l'ultima volta che lo fece arrivò 4°. Lo dribblava, sguardo da segugio in ferma, sempre rivolto in avanti a caccia.
Si ferma a sette di fila van Aert, uno che vince in media tra cross e strada una gara su tre, circa, e che nei giorni scorsi ha pubblicato una serie di dati relativi al suo 2021 tra cui 205 giorni in cui ha dormito fuori casa. Si dice che forse non ci sarà al Mondiale e sarebbe lo spot peggiore per il ciclocross, soprattutto oggi che c'è preoccupazione sulle condizioni di Van der Poel.
E allora Pidcock sogna concretamente di conquistare il titolo mondiale in tre specialità (cx, strada e mtb) e intanto approfitta e inizia a vincere qua e là, mentre Eli Iserbyt si porta a casa la coppa del mondo che proprio male male non è, succedendo nell'albo d'oro proprio a Wout van Aert.
E così l'ottavo giorno qualcosa cambia nella sfera del ciclocross, mentre restano intatti il divertimento e qualche accento con sbavatura.


Pidcock tra van Aert e van der Poel

Tom Pidcock non ci sta. Sfrontato come i suoi ventidue anni, cortese come un baronetto del Regno Unito, di Leeds. Elegante e redditizio su strada, deciso quando si destreggia nel fango come un occhio che cerca un varco nel fumo di Londra.
«Non voglio essere sempre terzo, corro per battere Wout e Mathieu» ha detto così a Het Nieuewsblad, chiamando van Aert e van der Poel per nome, un guanto di sfida, e ha gasato tutti perché Tom è uno da prendere sul serio, ciò che dice fa. Va bene il rispetto, la fiducia, l’orgoglio di essere fra loro ma il sale è quella voglia di ribellione, di provocazione, di mettere la propria ruota sporca di terra davanti alla loro. Ce la farà? Lo scopriremo.
Intanto ieri, a Rucphen, in Olanda, pur con l’assenza di van Aert e van der Poel, ha battuto Iserbyt e Vanthourenhout e non in un modo qualunque. Quasi con l’istinto di colui che sente l’odore della preda nella boscaglia e si sfregia coi rovi pur di prenderla. «Ad un certo punto mi sono detto: diavolo, ora dai tutto e vinci». La voglia di riscossa, di rivalsa. Prima Coppa del mondo fra gli élite, una di quelle pietre miliari di cui vi abbiamo parlato in questi giorni.
«Van Aert ha uno stato di forma incredibile ma anche io sto meglio di quanto potessi pensare» come se non lo vedessimo. Anche quando non ci riesce a vincere, come oggi a Namur, su quel fango che sa di Inghilterra, per dirla con le sue parole: due scivolate, qualche insicurezza e Vanthourenhout che va a vincere. Ma ha fatto la gara, ha messo pressione agli avversari, affamato, forse ancor di più dopo una sconfitta.
Van Aert, Van der Poel e Pidcock, rigorosamente in ordine sparso. Un tris d’assi da celare e poi gettare sul tavolo, mentre sotto le noccioline continuano a scricchiolare. La grande sfida è sempre più vicina e sarà una festa, comunque vada.


Pidcock al Giro?

Forse. Almeno questo è il suo desiderio. Certo sarà un lungo periodo caotico e dovrà ricordarsi di cambiare bici - a meno che non si metta in testa di correre il Giro con una mountain bike o di provare a vincere l'Amstel con la bici da ciclocross, ma non divaghiamo.
Questo fine settimana lo vedremo all'esordio stagionale nel fango e poi in primavera a lottare con i soliti noti nelle classiche, e lui potrà puntarle tutte: da quelle italiane a quelle fiamminghe, pietre o colline poco cambia quando si va forte.
E poi vorrà correre in Italia e c'è quel desiderio espresso di fare il Giro: saranno squadra e forma ad avere l'ultima parola. Noi ci sfreghiamo le mani all'idea di Pidcock dalle "nostre parti", se fosse necessario potremmo pure raccogliere delle firme: "Pidcock al Giro". Tuttavia terreno per dare spettacolo ne avrà a patto di non arrivarci troppo stanco dopo l'intensa attività cross-classiche.
Oltretutto potrebbe essere anche un esempio da dare a quelli che, tanti, puntano sulle gare di un giorno in primavera e poi ricaricano le energie nel periodo che casualmente prende quelle tre settimane di maggio.
Ogni tanto un po' di partigianeria non guasta soprattutto se si parla di Corsa Rosa e di corridori che possono dare un valore aggiunto. E allora forza Tom, ti aspettiamo.


Per la storia

Domani alle ore 8 ci sarà da divertirsi. Domani alle 8, mentre noi, comuni mortali, saremo schierati davanti a cappuccino e brioche, oppure avremo appena varcato la soglia dell'ufficio, o staremo facendo zapping con le occhiaia per la sbornia olimpica. Insomma, domani alle ore 8, segnatevelo: Mathieu van der Poel, che a differenza nostra di comune non ha nulla, proverà a fare ancora una volta la storia delle due ruote.
Mountain bike, XCO, inseguendo l'oro olimpico, nell'anno in cui ha conquistato la sua quarta maglia iridata (tra gli élite), la sesta in totale nel ciclocross. Eventualmente: nessuno come lui. E per alzare l'asticella c'ha messo vicino una bella maglia gialla qualche settimana fa al Tour, sia mai che in futuro, magari un figlio o un nipote viene fuori ancora più forte e lo possa superare. Intanto mettiamo giù più record possibili - avrà pensato.
Non sarà facile per uno che di comune non ha niente se non due gambe (ma che gambe), due occhi, due braccia (e pure lì...), dorsali corazzati, polmoni che potrebbe soffiare via tutti i problemi della terra se solo volesse.
Beh, insomma, a parte le esagerazioni: domani ore 8, ricordatevi che si fa la storia delle due ruote, segnatevi l'orario da qualche parte che poi venite a dire che nessuno vi aveva avvertito.
Certo: facile non sarà come averlo scritto o pensato. Schurter, campione in carica, tre medaglie olimpiche, otto titoli iridati, forse il più grande di sempre di questa disciplina, avrebbe qualcosa da ridire e sul circuito (molto tecnico, su e giù senza respiro), lo farà.
Idem Sarrou, che pochi giorni fa si è fatto male proprio allenandosi nel circuito di Izu, ma è il campione mondiale in carica, e poi Avancini, Flückiger, Koretzky. E poi Tom Pidcock, un altro che sfugge la normalità come fosse un problema che non lo riguarda. Un altro che, anche solo finendo sul podio, potrebbe fare la storia di questo sport.
Gli avversari sono grandi e van der Poel vorrà dimostrare di essere ancora più grande. Sì, domani alle ore 8 ci sarà da divertirsi.


La natura dei fuoriclasse

Liberi scorrazzano i cavalli nei campi attorno a Colle Pinzuto. In tensione i corridori scavallano il penultimo settore in sterrato, frustrando gambe e frustando pedali. Con lingue in fuori e gote rosse, senza rispetto né riguardo per i sentimenti dei propri avversari. Senza avere nemmeno il minimo ritegno per le nostre coronarie: due ore finali di corsa come celebrazione assoluta. Da farti alzare dalla sedia, da far scomodare tutta una lista di aggettivi e di superlativi che dicono si dovrebbero lasciare da parte, ma che vengono in soccorso, mentre il cuore solo un’oretta dopo l’arrivo dei corridori inizia a rilassarsi. Spettacolare, meravigliosa, la definiamo così, in modo banale, ma senza orpelli. Una corsa bellissima figlia dell’interpretazione di una generazione di fuoriclasse.

Tutto attorno alla Strade Bianche 2021 è verde intenso, per la natura è stato un buon inverno e pare una giusta primavera. All’ombra fa freschetto il giusto, al sole si suda, a tratti c’è una leggera bava di vento che non dà fastidio, in altri momenti, invece, sembra nemica di chi va in bicicletta. Spira di lato, soffia impazzita, muove gli alberi che sembrano ossessi sbilenchi appesi un po’ per caso, un po’ per necessità.
Il verde spiritato si alterna a un giallo paglierino che sono campi, sì, ma è anche terra sabbiosa, argillosa, creta che a vederla fa quasi male agli occhi. Spuntano le prime timide fioriture; il cielo, stamane piombo fuso sulla testa di ciclisti e di senesi, ora è blu come avessero capovolto il mare. Le nuvole sono barche sparse di pescatori appiccicate a testa in giù e che in qualche modo provano a rientrare verso casa.

La polvere che nasconde i corridori è una coltre di nebbia lattiginosa che brucia i polmoni. Lo sterrato è battuto. Cani sparsi a bordo strada come spettatori; spettatori (pochissimi) che dialogano in toscano: «Eppure ai corridori gli garba» afferma uno. «Beh anche se un gli garbasse l’è la loro vita» risponde l’altro.
Brucano le bestie nei campi, bucano le gomme i corridori e arrancano, si fermano, bestemmiano, ondeggiano, in un tumulto di macchie colorate di squadre e sponsor. Inviati di stampa e televisioni in scampagnata solo apparente rincorrono auto e ciclisti, filmano, applaudono, salgono e scendono, si affrettano e annaspano. Si annullano le urla fino a una silente Piazza del Campo dove l’unico sussulto sono i rumori dell’attrito di ruote e telai, oppure della potenza di van der Poel che emana un suono che durerà nel tempo.

Fuggono i fuggitivi, si fiondano gli inseguitori, allungano i più forti, resistono i temerari. Scappano i primi con nomi pittoreschi e diverse storie da raccontare, ma magari sarà per un’altra volta. Sono Bevilacqua – e quanto ce n’è bisogno oggi – e Rivi; Walsleben, Zoccarato – grande da sembrare infinito – Petilli e Van der Sande – uno figlio di pizzaioli, l’altro di paninari – Ledanois e Tagliani.
La loro sorte è segnata, ma se ne fregano. Valli a capire e infatti li capiamo. In otto di loro hanno vinto tre corse tra i professionisti e se per Zoccarato e Rivi è anche normale – sono al primo anno – per Ledanois è un cruccio, lui che nel 2015 trafisse Consonni nel Mondiale Under 23. Walsleben, infine, serve a riequilibrare il karma: è il meno giovane davanti, non ha mai vinto in vita sua, ma corre in squadra con van der Poel.

Dura poco la loro sortita, il tempo di un sospiro, di un faticoso respiro. Di uno sterrato dietro l’altro. In gruppo si attacca: è nella natura di questa corsa. Folle, differente, affascinante e ammaliante, spettacolare, pericolosa, amata dai corridori. Casali, ulivi e campi ovunque, curve infide, salite indigeste, discese incontrollabili; dislivello e fatica da tappa di montagna, cadute e polvere, ristoranti, chiesette e scaramucce.

Sulle Sante Marie arriva il primo grido “che spettacolo! che corsa!”. Un gruppo di stelle in parata con van Aert che appare irresistibile. Vanno via Pidcock, Bernal, van Aert, van der Poel, Gogl – ribattezzato Van Gogl per l’occasione – Pogačar, Simmons, Geniets. Quest’ultimo cede, poi Simmons buca e non rientra più. Su Monteaperti tutto cambia: è sempre la natura di questa corsa, è ciò che più diabolico prepara il ciclismo. Van Aert sembrava il più forte ma si stacca (con Pidcock). Van Aert ha un cuore grande che potrebbe battere per tutti gli abitanti del pianeta e allora rientra per poi staccarsi di nuovo.
E su Le Tolfe cede pure Pogačar e ci ritroviamo con Bernal, Alaphilippe e van der Poel a giocarsi tutto verso Piazza del Campo. Il resto è storia nota, non è mai stata noia: van der Poel che vince, Alaphilippe secondo, Bernal terzo, van Aert quarto. Il modo in cui l’olandese ha vinto servirà per scomodare gli appassionati: “ma quanta potenza ha sprigionato van der Poel?” ci si chiederà.

Qualcuno dirà di avergli visto perdere un pedale nella penultima curva, altri che avranno visto schizzare scintille, volare schegge di sanpietrini. Altri ancora diranno di averlo sentito urlare al traguardo come mai prima. Le gote rosse, di nuovo, i muscoli in fuori. Una tattica perfetta. «Per vincere le gare importanti, devo iniziare a correre con la testa», raccontava alla vigilia. E lo ha fatto. Perché corridori così imparano da ogni dettaglio. È la natura dei fuoriclasse.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021