Coincidenze

Quando tempo fa gli chiesero quale fosse il suo sogno, Nils Politt, corridore di mestiere, corazziere di conformazione, rispose, deciso: vincere la Roubaix o il Fiandre. Quando arrivò a un passo dal realizzarlo quel sogno, Parigi-Roubaix 2019, si diede del pazzo. «Se mi avessero detto una cosa del genere...». Philippe Gilbert, che lo superò nel velodromo, precisò: «Meritavamo di vincerla entrambi».

Se di lavoro fa il corridore, Politt è un fiammingo per vocazione. Da ragazzo approfittava della vicinanza tra Hürth e il confine belga per testarsi, appassionarsi, innamorarsi delle classiche del Nord. Ed è lì che ce lo immaginiamo prima o poi a braccia alzate, con quel sorriso che spesso fa sbracare i commentatori che si lanciano in facili ironie, con quel suo unico modo che conosce di correre: attaccare da lontano, sconquassare, scombussolare.

Forse è un caso oppure no che oggi Politt, con quel cognome che ricorda l'essere educati, vada in fuga e vinca nel giorno del ritiro di Sagan, compagno di squadra; forse è un caso, oppure no, ma in quel gruppo in fuga, pieno di corridori di un certo tipo (fisicati, da Nord) e di un certo spessore (vedi Alaphilippe) c'è anche André Greipel.

Con Greipel, Politt divide la città di provenienza, di Greipel è stato compagno di squadra lo scorso anno, di Greipel non fa che parlare bene, su Greipel disse di avere spinto affinché continuasse a correre qualche altra stagione. Di Greipel è amico: «Ha vinto Nils?». Le prime parole del velocista tagliato il traguardo, e poi il sorriso.

Oggi quando Politt è partito se avesse potuto Greipel gli avrebbe dato una mano, avrebbe fatto un buco, ma era assente dalla fuga-nella-fuga. Ugualmente non c'è stato nulla per gli altri.
Ama il vento e la pioggia, Politt, e oggi di questi elementi c'è stato solo un assaggio. Non aveva mai vinto in tutta la sua vita fuori dalla Germania e vince al Tour, e vedere rimbombare il suo sorriso sul traguardo, ci ha scaldato. «Il ciclismo non è solo il mio mestiere, è anche la mia passione. Passiamo così tanto tempo lontani da casa che oggi è tutto per la mia famiglia». Che uno così avrebbe vinto prima o poi non ci pare solo una coincidenza.

Nessuno è come Wout van Aert

Torniamo un attimo a celebrare Wout van Aert. Serve anche qualche numero, poca poesia oggi, per attirare l'attenzione e dare ancora più forma alla statura di un corridore che si fa fatica a misurare.

13 le vittorie nel World Tour (su 23 totali) e indovinate un po'? Lo stesso numero realizzato dal suo rivale, Mathieu van der Poel. Destino pazzesco: il marcamento continua.

Quello che i numeri spiegano sono anche, o soprattutto, le caratteristiche di corridore a tutto tondo. Un'ampiezza di possibilità di marcare il territorio come, chi scrive, fatica a ricordare.

Al Tour ha vinto in volata tre volte (battendo Viviani, Ewan, Bennett, Sagan) e la quarta vince sul Ventoux staccando scalatori e campioni del mondo in carica. Lui che scalatore non è, col tricolore forse più significativo del gruppo: quello belga. Tricolore che svetta in salita per la prima volta da Merckx nel 1970: era stato infatti il Cannibale, prima di lui, l'ultimo a vincere una tappa di montagna al Tour in maglia di campione nazionale (fonte: GCN).

Il Belgio che, da secoli verrebbe da dire, cerca disperato uno scalatore, si ritrova a vincere la tappa più significativa del Tour con uno che scalatore non è. Che il giorno prima del Ventoux si piazzava in volata battuto al fotofinish da Cavendish.

Ma che corridore è, quindi, van Aert? Vince volate, vince al Nord (Gand-Wevelgem), sullo sterrato (Strade Bianche), vince classiche imprevedibili (Milano-Sanremo, Amstel). Ha vinto campionati nazionali, in linea e a cronometro, e sempre contro il tempo ha vinto prove di ogni genere. Fra qualche settimana punta pure all'oro olimpico. Quest'anno, se togliamo l'86° posto nella tappa di Tignes dell'altro giorno, il peggior risultato è un 25° posto.

Nel pomeriggio di ieri, chiacchierando con amici e colleghi, cercavamo un paragone. Un corridore che, negli ultimi trent'anni, ovvero da quando seguo e ho memoria del ciclismo, gli assomigliasse. Trovavo solo risposte vaghe, mozzicate, dubbi e perplessità. Il motivo è semplice: non c'è nessun corridore come lui. Nessuno assomiglia a van Aert, van Aert non assomiglia a nessuno. Ennesima rottura col recente passato di un ciclismo specializzato a priori. Ennesimo esempio da seguire. Ennesimo vantaggio per chi segue il ciclismo in questa età dell'oro.

Ah, avremmo potuto parlare del palmarès nel ciclocross o della sua caratteristica principale: la tenacia. Ma lo abbiamo dato per scontato.


Salvarsi dal Ventoux

Quando gli ultimi corridori iniziano ad arrivare sul Ventoux, le urla si trasformano in applausi, nel silenzio della terra che, spostata dall'elicottero delle riprese, si infila anche sotto il casco dei motociclisti. «I primi vanno incitati - ci spiega un signore - mentre gli ultimi vanno incoraggiati».

Resta la strada che quassù è matrigna: ti inganna con la bellezza del paesaggio e poi ti prende a schiaffi. Il traguardo fa lo stesso: lo vedi, è lì, ma non lo superi mai, sembra un miraggio. Raphaël Geminiani lo disse a Ferdi Kübler quando lo vide partire, quasi in preda a un'ossessione, sotto il caldo di quel pomeriggio di luglio del 1950. «Attenzione Ferdi, il Ventoux non è una montagna come le altre». E quello, assetato di successo: «Nemmeno Ferdi Kübler è come gli altri».

Venti chilometri dopo, lo trovarono agonizzante a bordo strada, il sudore ovunque, il respiro finito. Qualche anno più tardi, nel giorno del suo ritiro, disse: «Ferdi è vecchio, è stanco, ha male. Ferdi si è ucciso tanti anni fa. Il Ventoux lo ha ucciso». Non c'è pietà qui, la strada non ha pietà. Al massimo qualche ricordo, per Tommy Simpson, ad esempio. La figlia, Joanne Simpson, proprio ieri ha raccontato a “L'Equipe” che solo un ricordo si salva da questo dolore. «Quando tornava a casa dagli allenamenti, apriva il frigorifero, prendeva il latte e lo beveva dalla bottiglia. Tutte le volte che vedo una bottiglia di latte mi viene in mente».

Tutto quello che puoi sperare, puoi sperarlo dalla gente, dai tifosi forse. Che hanno portato decine di biciclette vicino all'osservatorio e si siedono accanto ai sacchi a pelo. «Tu es le même que toujours» grida una tifosa a Geraint Thomas che passa attardato e scuote la testa. «Sei lo stesso di sempre» che non è vero, non può essere vero, se uno come Thomas arriva con minuti di ritardo al primo passaggio sul monte calvo. Ma Virenque ha raccontato che, quando sentiva i tifosi urlare il suo nome in salita, aumentava di due denti il rapporto rispetto agli avversari, perché “è doveroso“. Magari Thomas ha fatto lo stesso o quanto meno l'intenzione della tifosa era quella e va bene così. A prescindere da verità o bugie.

Soprattutto, però, sul Ventoux ti salvi da solo, come su qualunque altra strada della vita. Wout van Aert ci è riuscito ieri e quando ha dovuto spiegarlo ai giornalisti è stato molto chiaro. «Se ci provi e ci riprovi, è sicuro che prima o poi ci riesci. Se, al primo ostacolo, ti fermi, è altrettanto certo che non ce la farai mai». Non perché tu non ne sia capace, ma perché non ci stai più provando.


Seduti a teatro

Se il ciclismo fosse teatro, il Mont Ventoux sarebbe un palcoscenico da sogno. Con quella specie di pennacchio messo in alto a incorniciare la scenografia, la stele, la ghiaia, la vegetazione che via via scompare ad atterrire pubblico e interpreti. Una Broadway francese d'alta montagna, per chi passa tutta la vita a immaginarsi di interpretare un musical, anche se oggi la musica al massimo i corridori la sentiranno per rilassarsi un po' nel fresco (si spera) delle loro camere da letto.

Se Il ciclismo fosse teatro, Alaphilippe sarebbe il più geniale degli improvvisatori. Il ruolo dell'istrione sarebbe perfettamente ritagliato su quella faccia che, non le abbiamo contate a dir la verità, mentre era in fuga avrà assunto almeno un centinaio di migliaia di espressioni differenti. Nei giorni scorsi raccontava di non conoscere bene il Ventoux, di come non abbia potuto fare la ricognizione perché stava per nascere il figlio proprio in quei giorni, ma oggi si è fatto guidare dall'intuizione, tipica degli artisti. Ha interagito con il pubblico: tipico elemento della Commedia dell'Arte. Peccato abbia ceduto, ma il terzo atto prevedeva altri protagonisti.

Wout van Aert, invece, sarebbe quell'attore che interpreta decine di ruoli diversi: l'antagonista se c'è di mezzo van der Poel, col quale lotta e poi rilancia, l'aiutante di Roglič, il trattore su ogni terreno, il ciclocrossista, il velocista, il cronoman, l'uomo di classifica, quello del Nord, lo scalatore, il protagonista: dategli una mansione da svolgere e lui vi farà vedere come si fa. Alla perfezione. Oggi ha persino asfaltato e spianato, ha mostrato a tutti che cos'è l'indole del campione. Abbiamo pensato fosse pazzo, lo abbiamo fatto in maniera sincera, ma lui, forte e genuino, è stato semplicemente geniale. Voleva dimostrare e ha dimostrato.

Se il ciclismo fosse teatro, noi saremmo spettatori privilegiati di quest'epoca. Non resta che alzarci dal nostro posto e applaudire allo spettacolo.


Non abbiamo bisogno di eroi

«Alcune sere ti chiedi: ma come devo fare a ripartire domani mattina? Non è possibile». L'ha ammesso Benoît Cosnefroy in un'intervista qualche giorno fa. Al francese dell'Ag2R Citroën facevano male la gambe lunedì. Peggio: gli facevano talmente male che già sapeva che anche il giorno dopo sarebbe stato lo stesso, forse anche peggio. «Sai che passerà questa settimana, ne verrà un'altra e poi un'altra ancora. Sai che andrai comunque all'arrivo e, un giorno dopo l'altro, arriverà anche Parigi. Forse va tutto talmente veloce che finisci per abituarti a questa fatica cronica». Cosnefroy è ripartito anche ieri mattina e ben pochi, forse nessuno, ha immaginato tutto ciò che gli è passato per la testa in tanti di questi giorni.

Sono dubbi che spesso non escono da una camera d'albergo, ma sono ben presenti in molti. Dubbi che spesso non si raccontano nemmeno perché da un ciclista tutti si aspettano che sia addestrato alla fatica e che la affronti con disprezzo. «La stessa cosa vale per i medici e il dolore» ci dice Marie, dottoressa presente a Valence con cui iniziamo a parlare per puro caso e apparentemente di altro.

«Quei dubbi li capisco bene. Durante la pandemia non ho contato le sere in cui sono tornata a casa e chiamando mia madre ho detto: “Mi spiace per il denaro che tu e papà avete speso per l'università, ma voglio lasciare tutto. Cerco un altro lavoro, questo non fa per me”. Dopo ogni telefonata la promessa: “se domani sera sto ancora così male, lascio”. Dall'altra parte sua madre ad ascoltare, senza dire una parola. E poi c'erano quelle voci, quelle che le dicevano che i medici, quelli “veri”, sanno reagire e ogni mattina si alzano dal letto e vanno in ospedale orgogliosi di provare a salvare vite. Lei, forse, le dicevano, era troppo fragile per essere dottoressa.

«Questi dubbi li hanno tutti, i medici come i ciclisti, perché non ci sono superuomini e, un giorno o l'altro, capita di non sentirsi all'altezza. Il fatto è che è normale, bisogna saperlo. Quando lo capisci, vai a letto presto una sera, spegni tutto e aspetti arrivi mattina perché sai che è un momento. Ti assicuro che i medici veri fanno così. Forse anche i ciclisti». Certo e bisogna anche dirlo che è normale perché solo sapere che ciò che ti sta accadendo è nella normalità delle cose ti può dare la forza per affrontarlo. Che sia un Tour de France, come per Cosnefroy, o una vita in ospedale, come per Marie. Perché degli eroi si può anche fare a meno, se ci sono gli esseri umani.


Metempsicosi

In quella che appariva un'azione fine a se stessa, e poi lo era. In quella che sembrava essere la classica fuga già segnata, e poi lo è stata. In questo e in altro, nell'apparente inutilità della fatica, nel timore di rendersi quasi ridicoli agli occhi del mondo, oggi Houle e Van Der Sande hanno voluto dimostrare come nel ciclismo non conta solo vincere.

Perché attacchi per attaccare, per essere il primo a prenderti gli applausi del pubblico, perché c'è sempre qualcosa da trovare: d'altra parte andare in bici che cos'è se non ogni giorno una meravigliosa scoperta? Sarà capitato anche a voi di correre vicino casa e di vedere svelati ogni volta nuovi dettagli. Ed è così oggi per Houle che è canadese, ma queste parti le conosce molto bene. E a Valence, dove si arrivava, è praticamente di casa.

Pare fosse, non che c'interessi troppo per la verità, ma tant'è, la giornata mondiale del bacio, e se davvero vuol dire qualcosa, allora assume un significato per Hugo Houle. Ogni giorno pensa a suo fratello, a Pierrik, con il quale da bambini passavano il tempo guardando il Tour, perché nel paesino da dove viene non c'era altro da fare; Pierrik, nove anni fa mentre si allenava, fu investito e ucciso da un ubriaco, e proprio Hugo lo trovò sul ciglio della strada agonizzante. Corre per lui, ogni giorno, come se sentisse il suo fuoco dentro, perché «quello che gli è successo mi ha distrutto ancora prima di aiutarmi, ma oggi mi spinge: voglio provare a vincere una tappa al Tour per lui».

Oggi, Hugo Houle è uno dei pochi canadesi del gruppo e lo trovi spesso all'attacco. Tosh Van Der Sande, invece, è uno dei tanti belgi ed era venuto qui al Tour per aiutare Ewan. A Tignes, due giorni fa, è stato fotografato mentre cercava di mangiare qualcosa, ma appariva totalmente stravolto dalla fatica da non riuscire nemmeno a mandare giù il boccone. Nemmeno 48 ore dopo ed eccolo lì, all'attacco, per una sorte già segnata, per scoprire, farsi vedere, fare fatica.

In quella che appariva un'azione fine a se stessa e poi lo è stata, Houle ha voluto regalare un bacio a suo fratello, perché da quel 2012 non può più. E anche se non è arrivata la vittoria non importa, ci riproverà, glielo ha promesso. Van Der Sande, invece, ha voluto scrollarsi di dosso la fatica, facendone altra. Anche lui ci riproverà: è il destino di ognuno.

E in una giornata così chissà se si aspettava un bacio quella ragazza con le treccine che reggeva un cartello con su scritto "Sagan: I Love You". Mentre dopo il traguardo Cavendish dedica effusioni alla sua squadra che lo ha consegnato alla terza vittoria in questo Tour, a un passo da Merckx che fa quasi ridere a dirlo. Un Cavendish reincarnato in qualcosa di completamente diverso rispetto a pochi mesi fa. Un tipo davvero tosto, il Cav.


À la bonne franquette

Ad Albertville, sui tavolini dei bar all'aperto, ieri pomeriggio, si sfogliava L'Equipe. In realtà, L'Equipe, durante il Tour de France, la si trova ovunque, persino nei cestini di qualche bicicletta da passeggio, aperta sull'altimetria di tappa. Due imbianchini, intenti a riverniciare un pub, a pochi passi da noi, ci hanno fatto il cappello, arte umile e antica. Quel locale, in piena ristrutturazione, è addobbato con ghirlande gialle, verdi e a pois del Tour e loro, pur di non toglierle, fanno acrobazie per spostare la scala. «À la bonne franquette», ci dicono.

Sì, poche parole e molti significati. Perché «à la bonne franquette» per un francese significa semplice, umile, franco, ma non solo. «Noi siamo à la bonne franquette perché domani intravederemo il passaggio della corsa con il secchio di vernice in mano e, al massimo, una birra appoggiata sull'ultimo gradino della scala». In realtà, spiegano, per un francese dal Tour si va proprio così, “à la bonne franquette” perché «il ciclismo stesso insegna a metterti sulla strada come e quando capita, senza troppe complicazioni».

À la bonne franquette, allora, è quel ragazzo che a Tignes, per proteggersi dalla pioggia, ha messo una sedia di tela sotto una galleria e invece di sedersi vi ha lasciato qualche souvernir raccolto dalla carovana. Oppure quella signora che, sotto il diluvio, ha costruito un'improbabile tenda con una giacca appesa fra due rami di un albero. Quei ragazzi che, pur di farsi sentire, agitavano il campanaccio di una mucca e quello che ha tirato fuori dallo zaino un panino zuppo d'acqua e lo ha mangiato lo stesso perché «sennò perdo il passaggio». Allo stesso modo sono coloro che da oggi sono accampati sul Ventoux fra carne grigliata e pranzi condivisi perché «qualcuno ha lasciato a casa il sale, qualcuno l'aceto e qualcuno l'olio» e allora si chiede al vicino di camper o di tenda. Ma anche chi improvvisa il dialetto, non parlando francese, e riesce a farsi capire. À la bonne franquette è pure chi sulla strada proprio non ci sarà, quel meccanico italiano che ha chiesto al principale della sua ditta di poter tenere accesa la radio e ha portato la vecchia radio di suo padre che era stato partigiano e tifava per Bartali.

À la bonne franquette come si va alle corse e al Tour de France. «Perché, con tutte le comodità a cui siamo abituati, potremmo sembrare pazzi a rinunciare a tutto e a fare quella fatica per vedere una corsa e a farlo ogni anno, a costo di spostarsi chilometri e chilometri. Eppure, quando provi, scopri che vivere “à la bonne franquette” non è così male». Perché le cose di cui hai veramente bisogno sono davvero poche. Forse tutte quelle che contiene uno zaino e una tenda arrabattata sulle Alpi o sui Pirenei. O nella sala di casa, quando da bambino, pur avendo tutto lo spazio, portavi i tuoi giocattoli preferiti in quell'angolo e non ti mancava nulla.


Vietato non sognare

Si è parlato poco di Italia nel ciclismo in questi giorni (l'attenzione è tutta su altri sport), ma un po' di complimenti i due ragazzi qui in foto se li meritano. Colbrelli ieri ha corso una tappa fuori dall'ordinario. I telecronisti di Eurosport UK, ogni volta che veniva inquadrato in salita, nel gruppetto inseguitore, si lanciavano in esternazioni tra l'esaltato e lo stupito («Oh my gosh! An amazing Colbrelli!»), e infiammati lo eravamo pure noi a vedere il tricolore - per la verità coperto a lungo da una mantellina - e quella pedalata massiccia e inconfondibile.

Sì, un po' di stupore: ma non dimentichiamo come Colbrelli, oltre ad avere in questo periodo la proverbiale "forma della vita", quando sta bene (in bici) è un cagnaccio di quelli veri, che quando piove e fa freddo come ieri si trasforma e che in carriera è riuscito ad arrivare anche un'altra volta nei primi dieci di una tappa di montagna in un Grande Giro. Era il 2013, Giro d'Italia, e chiuse nono sullo Jafferau. Anche quel giorno fuga da lontano e freddo insopportabile con il finale corso sotto la neve.

E questo Sonny ci esalta. Ieri ha messo vicino un bel gruzzoletto per il sogno maglia verde arrivando terzo a Tignes. Una giornata che difficilmente dimenticheremo.
E due parole le merita Mattia Cattaneo. Se c'è una carriera particolare quella è la sua. Ultimo italiano ad aver vinto il Giro Under 23, passò come talento dal sicuro avvenire, ebbe guai fisici, deluse prima di tutto se stesso e le sue aspettative.
Ricominciò dal basso, con Savio, in maglia Androni, e si è ricostruito. Lo scorso anno il rientro nel World Tour in una squadra che mette i brividi solo a pensarla, la Quick Step.

Cattaneo è cresciuto ritornando a esprimere il suo ciclismo, forte in salita come a cronometro e, dopo il secondo posto di ieri, primo degli altri dietro un inarrivabile O'Connor, e festeggiato come una vittoria («Il secondo posto viene spesso visto come il primo posto dei perdenti, ma per me questo piazzamento vale tanto: secondo al Tour de France, mica in un posto qualunque») sale 12° in classifica. Magari, ragazzi, portiamo a Parigi 'sta forma che sarebbe una favola. Oppure un sogno, solo a pensarlo.


Diventare uomini

Quando Nicholas Dlamini ha tagliato il traguardo di Tignes, il tempo massimo era già scaduto da un pezzo e questo significa solo una cosa: si va a casa. Pensare che qualche giorno fa era felice, perché era stato selezionato per le Olimpiadi di Tokyo e aveva saputo di essere stato convocato per il Tour de France; il primo sudafricano di colore a parteciparvi. «Nella mia città, a Capetown, saresti famoso allo stesso modo se avessi in tasca una pistola. Saresti più rispettato per possedere una pistola o sparare a qualcuno, purtroppo è un posto in cui fare le cose sbagliate ti porta a essere apprezzato. I giovani vogliono diventare gangster perché tutti guardano ai gangster».

Dlamini, in sella, vuole raccontare che c'è modo e modo per farsi conoscere e per farsi apprezzare e ci riuscirà lo stesso, anche se questo Tour farà a meno di lui.

Al traguardo, ieri, Nicholas Dlamini è arrivato troppo tardi. Così tardi che, tra il freddo e la pioggia, a quasi duemila metri, il pubblico proprio non te lo saresti aspettato. Invece, anche più di mezz'ora dopo la vittoria di Ben O' Connor la gente applaudiva e gridava allo stesso modo. “Bravo” ha detto una signora. Anzi, per la precisione Geraldine, questo il nome della signora, ha detto “Bravò”, perché siamo in terra francese, non dimentichiamolo. Ma sono dettagli.

Non è un dettaglio, invece, la sua risposta quando le abbiamo chiesto cosa l'avesse colpita di questo ragazzo. «Che è arrivato, che ha finito qualcosa che aveva iniziato. Tifare per i primi è facile e per i primi è anche più facile arrivare. Chi glielo ha fatto fare di arrivare? Eppure è arrivato». Quel giorno, Nicholas aveva spiegato che, ora che era stato convocato al Tour e alle Olimpiadi, quei ragazzi avevano visto che tutto è possibile. Oggi lo hanno visto ancora meglio.

Soprattutto hanno visto, e se non lo hanno visto glielo raccontiamo noi, che, nella vita, non serve essere il più forte a tutti i costi per avere qualcuno che ti stimi o ti rispetti. Che si tratti di gangster o di ciclismo, per quanto le due cose siano diverse. Non serve neppure essere il più bravo o il fenomeno di turno. Basta fare onestamente quello che si può e si sa fare, niente di più e niente di meno. E qualcuno che lo vede e si mette dalla tua parte lo trovi. Anche a costo di aspettarti, quando sei fuori tempo massimo. Nella vita o nel ciclismo.


Equilibri instabili

Per Ben O'Connor la ricerca dell'equilibrio è una delle chiavi che aprono le porte della conoscenza. Quell'equilibrio lo cerca, coerenza costante, come quando si ammalava così spesso da perdere tutto il tempo che spendeva per la sua carriera. Quando cadeva e si faceva male, persino quando un anno fa esatto gli hanno detto che soffriva di ipotiroidismo, di certo non una passeggiata per un uomo normale, figuriamoci nella vita di un corridore, che di normale non ha proprio nulla.

Il ragazzo di Perth, con origini scouser e che vive ad Andorra, che del Tour da bambino ricorda più i castelli e la gente a bordo strada che i vincitori, ha avuto difficoltà all'inizio nell'esprimersi in francese con la sua nuova squadra, ma racconta come nei primi incontri con i suoi compagni gli bastava capirne sensazioni ed emozioni per comunicare con loro. Quando è arrivato a Brest alla partenza del Tour si è ritrovato in auto con la sua ragazza e Jack Haig fermi dietro un gruppo di cicloamatori: «Da domani le persone si ritroveranno la strada bloccata da noi: è una questione di karma» ha detto.

Volergli male sarebbe un peccato: occhi che non riescono a esprimere rabbia, né cattiveria, ma solo diverse tonalità dell'esistenza, e una pedalata sciolta che si trasforma nell'ambizione di fare tappa e maglia, in una tappa di montagna: roba da spezzare gli eroi, ma non il suo equilibrio. «Mi sono semplicemente gustato ogni singolo momento» ha raccontato a fine tappa.

Oggi il ciclismo ha rimesso, così, tutte le cose a posto: è andato in montagna mostrando il fascino del suo profilo migliore. Salita, battaglia, Alpi, pioggia, nebbia, freddo. Discese bagnate e cadute, tanta gente, ma anche diversi corridori in crisi di freddo. Ritiri e fuori tempo massimo. Un male necessario come necessario era il continuo scrollare le mani per scacciare via il gelo.

Si staccava, O'Connor, a ogni discesa, andava regolare senza rischi, mentre davanti Quintana e Higuita - illusione e delusione – scrivevano il più classico manifesto del modo colombiano di interpretare il ciclismo: facevano le bizze, a tratti dominavano, scappavano, venivano ripresi e poi staccati da O'Connor verso Tignes. «Amo i giorni frenetici come quelli di oggi – dirà, commosso - ma conosco anche la chiave del successo: niente panico. Perché se inizi a pensare che stai per vincere una tappa al Tour, ti verranno in testa troppe cose».