L'altra faccia della vittoria

Tour de France 2010.
Tappa 16: Bagnères-de-Luchon/Pau.
Durante la salita al Col du Tourmalet Mark Cavendish scivola fuori dal gruppetto, mentre il suo compagno di squadra, Bernhard Eisel, tenta inutilmente di spingerlo a resistere.
Cavendish sta male, ha la febbre, sa che superato il Tourmalet lo attende il Col d’Aubisque e, dopo, 60 km di pianura in direzione di Pau; una tappa gestibile solo in gruppo, impossibile da affrontare in due rimanendo nel tempo limite. In un tentativo disperato di alleggerirsi getta via tutto ciò che lo appesantisce: occhiali da sole, cibo, addirittura le borracce. Eisel non lo molla, è noto in gruppo per il suo incrollabile ottimismo, è determinato ad assolvere al suo compito: scortare Cavendish fino al traguardo.
Mancano 18 km alla cima del Tourmalet e stanno perdendo 10 secondi al km dal gruppetto; Cavendish però è convinto di poter ricucire durante la discesa. Ed effettivamente, passato il Tourmalet, finiscono a tre minuti dal gruppo, ma riescono a rientrare a metà discesa. «Sapevo che eravamo al limite» ricorderà Mark in seguito.
Il gruppetto supera anche il Col d’Aubisque, ma Cavendish è in difficoltà, cerca di mantenere l’equilibrio, mentre sente la bicicletta oscillare sotto di sé, e all’improvviso, come nella migliore sceneggiatura di thriller, fora. «Dove diavolo è finita la mia radio?» impreca, poi ricorda di averla passata a Tony (Martin, suo compagno di squadra) per eliminare più peso possibile.
Mancano 10 km al traguardo di Pau e Cavendish si ritrova solo e senza radio, i suoi compagni di squadra - Bernie, Tony e Bert (Grabsch) – sono in testa al gruppetto, stanno tirando a tutta per rimanere nel tempo limite. Cavendish alza la mano, ma nessuna ammiraglia sopraggiunge: Allan Peiper, suo direttore sportivo, si è fermato per un bisogno impellente – Mark lo scoprirà solo dopo – e nessuno sembra potergli dare una mano. Arriva infine l’ultima auto e quelli dell’Astana gli cambiano la gomma.
In Place de Verdun a Pau, il francese Pierrick Fédrigo vince la volata dei fuggitivi, che comprende anche Lance Armstrong, e si porta a casa la terza vittoria nella corsa di casa; dietro di lui, con un ritardo di circa sette minuti, sopraggiungono Alberto Contador e Andy Schleck, poi un’altra larga parte di corridori, che rimangono entro i 23 minuti di distacco. E infine, 11 minuti dopo, con un ritardo di 34 minuti e 48 secondi da Fédrigo, arriva il gruppetto: 83 corridori, fra cui Mark Cavendish.
Quella sera Bernie, suo compagno di camera, preoccupato per il protrarsi della doccia di Mark entrerà in bagno, trovandolo addormentato sotto l’acqua scrosciante.
Tre giorni dopo, con di mezzo un nuovo passaggio dal Col du Tourmalet, Cavendish, ancora influenzato, sul traguardo di Bordeaux porterà a casa la quattordicesima vittoria di tappa al Tour de France.
Questa storia abbiamo voluto raccontarvela, proprio oggi, perché spiega, secondo noi, molto bene perché Mark Cavendish ieri ha vinto la sua trentunesima tappa alla Grande Boucle.


Un racconto a pois

Il corridore andò in fuga. Mossa preventiva. Appiccicato alla pipa della sua bici la cartina della tappa del giorno, evidenziati i gran premi della montagna, ben impressa nella sua mente la classifica della maglia a pois. In mattinata il briefing con tecnici e squadra: attacca qui, marca là, questo è il leader, quel corridore ha tanti punti in classifica, quell'altro ne vuole racimolare ovunque, non farti fregare, e poi occhio che ti si incollerà a ruota non appena proverai a fare una mossa.

Il corridore prese così la fuga giusta. Tagliò per primo due dei tre traguardi del gran premio della montagna vestendosi a fine giornata con la maglia di miglior scalatore. Sul palco la gioia di vestire "la pois" il simbolo più brillante, divertente e identificativo della corsa francese.

Il giorno dopo vide tifosi e macchie policrome, ma c'era qualcosa di diverso che attirava la sua attenzione. In quell'orgasmo di colori spuntavano bandiere, cappellini, magliette, persino mascherine a coprire il volto di alcuni spettatori: era un turbinio di pallini rossi. Ma soprattutto le voci: per la prima volta in carriera il corridore sentiva urlare il suo nome dai tifosi a bordo strada, gente che probabilmente nemmeno sapeva della sua esistenza fino a poche ore prima.
È l'incanto di una maglia, quella a pois, un sortilegio che premia il miglior scalatore e che fa inscenare battaglie epiche oltralpe. La classifica dei Gran Premi della Montagna fu istituita per premiare Trueba, la pulce dei Pirenei, era il 1933, ma ce ne vollero altri 42 di anni perché nascesse lei, la più iconica di tutte: la maglia a pois. Il fascino col tempo aumenta diventando convenzionale come fosse la numero dieci indossata di un grande fantasista. Si raccontano leggende tanto che in Francia Pierre Carrey, giornalista, ha dovuto scrivere un libro per mette i puntini sulle i, per spiegare il perché di quei pallini rossi.

L'idea di vestirla è ispirazione che scatena le turbolenti gambe di Virenque, eroe in Francia più per le sue sette maglie a pois indossate sul palco con l'Arc de triomphe alle spalle che per vittorie di tappa o podi, lo sarebbe stato per Bahamontes, vincitore per sei volte del premio di miglior scalatore quando ancora questo simbolo non era stato concepito, oppure croce e delizia per Van Impe colui che per primo la portò a Parigi. «Ma questa maglia ha il morbillo!» disse il corridore prima di indossarla la prima volta. Parole che oggi profanerebbero un rito. Storia d'amore per chi è cresciuto con i Tour di Chiappucci che due volte ha vestito quella maglia illuminando le roventi estati dei primi anni '90, manco fossero il primo bacio.

L'ispirazione che arriva da un pistard, Henri Lemoine, chiamato "Petit Pois" corridore di un tempo ormai antico che correva con una divisa a pallini rossi ispirata a quella di alcuni fantini - e chiamata per l'appunto "Little Spots". Lemoine, "un ometto alto come tre mele", faccia da outsider come uscito da un racconto dell'America post Grande Depressione, fu campione del mondo in pista, fu ferito e imprigionato in guerra e gareggiò fino all'età di 48 anni.
Il primo a indossare la pois fu un olandese: Zoetemelk. Il primo a portarla a Parigi quel Van Impe, "de Kleine van Mere" considerato uno dei più forti grimpeur del gruppo.

L'ultimo, oggi, in ordine di tempo, a chiudere temporaneamente il cerchio, un altro olandese, Schelling, che non è forte in salita quanto gli altri, ma si ispira a quei fomentatori di corse, che a modo loro lasciano il segno. Si ispira a quella maglia per cercare la celebrità e sentire urlare il suo nome lungo le strade del Tour.

Ed ecco quel corridore che va di nuovo in fuga. Chi glielo fa fare? Le gambe sono dure, sono messe anche peggio del giorno prima. Cerca conforto nelle parole del suo direttore sportivo: "Vai, attacca per difendere la maglia".

Cerca conforto in un messaggio al telefono della sua ragazza, legge i commenti sui giornali e si gasa, altri messaggi arrivano da tifosi conquistati strada facendo, che magari il suo nome lo avevano scorso distrattamente nella lista di partenza. E poi spuntano, sempre per strada, striscioni dedicati a lui, che fino a ieri era uno dei tanti.

È la forza della maglia a pois che ti travolge come un insolito destino e ti fa conoscere in tutto il mondo.


Il primo passo per ripartire

Sonny Colbrelli, stamani, è andato subito a cercare Roglič. Voleva parlare con lo sloveno e provare a chiarire quel gesto di stizza di ieri pomeriggio, proprio nel giorno in cui il corridore Jumbo Visma, cadendo, si è ferito in ogni dove. «Ho fatto quel gesto perché non capivo dove volesse passare, ma me ne sono pentito subito quando l'ho visto cadere. Ho avuto paura, per questo mi sono innervosito». Non ha voluto nemmeno parlare dei dubbi sui percorsi o sulla frenesia di corsa, «sinceramente ora come ora non mi interessa, voglio solo capire come sta Roglič e scusarmi».

All'apparenza può voler dire poco, in realtà racconta perfettamente questo viaggio in Francia, anche quello di oggi, su un piattone tra Redon e Fougéres. Un viaggio che è soprattutto comprensione, perché i ciclisti si conoscono e sanno bene quali siano i sacrifici di chi corre al loro fianco. A questo ha pensato Colbrelli quando ha visto Roglič a terra e quando lo ha visto pieno di fasciature al villaggio di partenza: a tutto ciò che quella caduta poteva buttare alle ortiche. Si è scusato perché quel “va a quel paese” non l'avrebbe mai accennato con più calma, perché ieri, se fosse stato un metro più avanti, sarebbe franato addosso a Ewan e si sarebbe ritrovato nella stessa situazione. I corridori queste cose le sanno.

Kwiatkowski, ad esempio, ha fatto il buco ai propri compagni per permettere a Alaphilippe di agganciare la ruota del suo treno. Poteva non farlo e non sarebbe cambiato molto, lo ha fatto perché sapeva che lui, nella situazione del francese, avrebbe avuto necessità di prendere quella ruota a tutti i costi, oggi invece no, oggi quella ruota poteva lasciarla, poteva capire. Come le pacche sulla schiena che si danno in gruppo per segnalare a un corridore di spostarsi, lo sguardo di assenso dei corridori in fuga come il gruppo rinviene, la scia delle ammiraglie anche per gli avversari in difficoltà.

Perichòn e Van Moer hanno condiviso la fuga, ma con un passato diverso. Van Moer stamattina ha parlato con il suo capitano, con Caleb Ewan, che malconcio, ha voluto partecipare alla riunione di squadra. Lo ha sentito dire: «Sono orgoglioso di voi» e siamo certi che in fuga se lo sia ricordato, quando i suoi compagni rompevano i cambi dietro e persino quando ai trecento metri il gruppo lo ha inghiottito senza pietà.

Capire metro dopo metro. Quello che Mark Cavendish ha fatto in questo Tour e ben prima nella sua vita. Quando vinceva e sembrava quasi arrogante, troppo sicuro di se stesso, forse qualcosa ancora gli sfuggiva. Non sapeva cosa volesse dire non riuscire più a fare ciò che ti era naturale, perché un virus ti ha talmente debilitato da non sapere più chi sei, mentre la gente non lo capisce e chiede, pretende. Ha compreso cosa significhi sentirsi nessuno e non avere altro pensiero che quello di poter tornare a credere al fatto che la serenità esista. Piangeva quando ha lasciato, piangeva lacrime pesanti.

Cavendish che aveva già vinto trenta tappe al Tour ed ha gioito come fosse alla prima, Cavendish che, con altre tre vittorie, uguaglierà Eddy Merckx. Poi ci sono i suoi compagni, gli altri atleti del gruppo, che, in fondo, sono contenti per Cavendish, perché sanno, perché vivendo nel plotone hanno capito tanto la necessità di fermarsi, quanto quella di ripartire.

Hanno avuto le sue stesse paure, almeno qualche volta e oggi hanno un motivo più per credere. Sì, perché se lo hanno fissato bene mentre piangeva sull'asfalto, oggi, hanno capito qualcosa in più. Non bisogna aver paura di fermarsi: è il primo passo per ripartire.


Il drappo rosso del Diavolo

A ogni passaggio del gruppo sotto lo striscione dell'ultimo chilometro, appeso in alto, un triangolo rosso sventola, sbattuto dal vento. In Francia la chiamano “flamme rouge”, la fiamma rossa, qualcosa di vagamente infernale, in Germania, ad inizio anni novanta, un telecronista parlò di drappo rosso del diavolo.

Davanti alla televisione, quel giorno, c'era Dieter Senft: «L'idea di diventare il diavolo rosso, con corna e tridente, che insegue i corridori gridando, negli ultimi chilometri delle tappe alpine o pirenaiche, mi è venuta da lì» racconta in un'intervista. «Quel drappo rosso doveva venire dal vestito di un diavolo vero, appostato al bordo della strada».

Siamo nel 1993 e Didi si dota di un vestito di lycra rosso, delle corna, un tridente, si lascia crescere una folta e arruffata barba che sta ingrigendo e va al Tour de France, insieme alla moglie Margitta su un tandem di più di tre metri.

«Ho girato tutto il mondo al seguito del ciclismo, ma al Tour de France accade davvero qualcosa di particolare. Tu sei lì, sul ciglio della strada, arrostito dal sole di luglio, magari anche con poca acqua ed una sete incredibile, ed hai accanto norvegesi, australiani e canadesi. Non capisci quasi nulla di ciò che dicono e non riesci a comunicare a parole. Eppure, per qualche strana ragione, vi capite benissimo, condividete lo stesso entusiasmo».

Senft ha quasi settant'anni, non è più giovanissimo e di corse ne ha viste, eppure quando parla del ciclismo lo fa come fosse una scoperta di pochi giorni fa. Come i ragazzini che ogni giorno immaginano un futuro diverso con la stessa felicità.

La sveglia è sempre puntata all'alba. Vedete quelle scritte ritmate che si susseguono negli ultimi metri? Spesso è lui a disegnarle sull'asfalto. Qualche anno fa, in Svizzera, è stato anche multato, ma non ha cambiato idea: le scritte servono e lui continuerà a lasciarle. Un personaggio del folclore, ormai, non solo del ciclismo.

La sua casa è un museo perché Dieter è anche un inventore: «Ho ideato la bicicletta più grande del mondo, quella più lunga ed anche quella più alta. Sono tutte a casa e la mia casa è aperta a chiunque, tutti possono venire a visitarla, a vedere. Alcune di queste invenzioni sono entrate nel libro dei record. C'è la macchina a pedali più grande del mondo ed anche una “football bike”, quella con cui andai agli Europei di calcio nel 2008. In Austria ho aperto e registrato un bike garden».

Il Diavolo ha vissuto la rivalità Ullrich-Pantani e un dettaglio lo ha impressionato: «Essendo tedesco, Jan Ullrich è stato il mio corridore prediletto. Non sembra ma il contatto diretto a tutte le corse crea quasi una sorta di familiarità con gli atleti, la condivisione della stessa lingua fa il resto. Marco Pantani, però, era ipnotico: la gente impazziva appena presagiva il suo arrivo. I tornanti sembravano esplodere».

Negli anni tante difficoltà e nel 2014 anche l'idea di smettere, «ormai prendo delle mance e con soli cinquecento euro non posso permettermi di seguire le corse». Erano gli anni dell'operazione alla testa, subita nel 2012: «Per la prima volta fui costretto a vedere il Tour in televisione. Ero dispiaciuto, certamente, ma mi accorsi ancora meglio di molte cose che dalla strada non notavo. Al Tour corre tutto veloce e rischi di perderti qualcosa, fosse anche solo l'elicottero delle riprese televisive che sorvola il gruppo. È un peccato».

Qualche anno, l'operazione, la guarigione e il ritorno: «Conto di restare per molti anni. Cercatemi». Sarà perché, come ci disse un amico, alla fine, i ricordi ti portano sempre dove sei stato bene e dai ricordi non puoi fuggire, ma noi continuiamo a cercare Didi, a ogni tornante bruciato dal sole e punzecchiato dal suo forcone, giallo per l'occasione.


Il Tour in un attimo

Ogni giorno, a ogni tappa, c'è in moto la sofferenza. Ogni mattina ci si sveglia, un piede giù dal letto, poi un altro. C'è chi è ferito e va avanti, nonostante tutto; chi è motivato, chi sente qualche dolorino, chi sta bene, chi mente, chi guarda avanti e sa che ci sono ancora venti giorni in quel gran casino che è una corsa a tappe di tre settimane. Chi si guarda indietro è perduto.

Ogni giorno si pensa ai sacrifici che si fanno - ciclofachirismo - poi bum, basta un attimo. Si analizza e si racconta come per un ciclista il dolore provocato da una caduta non sia mai un'esperienza nuova, ma una riscoperta. Il prezzo da pagare per diventare corridori. E così che si cade e ci si rialza, tremenda quanto ingiusta metafora dell'esistenza. Tremendo quanto ingiusto meccanismo di uno sport che a volte appare maledetto.

Si cade e si sbatte sull'asfalto, c'è il casco sì, per fortuna, ma le ossa del corpo scricchiolano ugualmente, poi si rompono. La pelle si brucia. Bum, basta un attimo.
Così oggi Thomas: stamattina raccontava ai giornalisti di avere sempre con sé alcuni talismani, ma Geraint, andiamo, la prima regola della scaramanzia è che non si rivelano mai gli oggetti che ci proteggono dalla malasorte. Oggi appena c'è stata la prima caduta è andato giù. Ci ha messo un po' per rialzarsi, ha stretto i denti e poi il manubrio, poi è rientrato: chissà se ha pensato a quando ha rivelato ciò che lo protegge dalla cattiva sorte. O chissà, qualcuno dirà, forse è risalito in bici grazie proprio a quel rituale ormai non più segreto. Ci piace pensare come, dietro a un mondo ammalato di razionalismo, sia sempre viva l'influenza di qualcosa di magico che protegge, stimola, ti dà la giornata di grazia, ti fa alzare al mattino convinto, nonostante la sofferenza, nonostante se guardi davanti a te vedi ancora venti giorni di Tour. Quella magia che ti fa sognare, urlare, tifare, pedalare, rialzarti da ogni caduta.
Chissà a cosa si appiglia Gesink, pensando alla sua sofferenza, come quella di chiunque abbia perso qualcuno di caro, come chiunque abbia visto la sua carriera volare via da predestinato a incompiuto, a uno dei tanti. Oggi è caduto e si è ritirato mentre sognava di passare da casa sua (vive a El Tarter, Andorra, dove passerà il Tour più avanti) per salutare suo figlio. Era raggiante, magicamente illuso. E invece oggi è caduto, mentre domani si ralzerà come ha già fatto quando si ruppe le gambe. Quando subì un trauma cranico, e poi vinse quando nessuno se lo aspettava più.
E non c'è rito a cui attaccarsi per Roglič: è un attimo anche per lui quando si arrota con Colbrelli. In una frazione di decimi la sua corsa può essere svanita – un pugno assestato dispettoso, dove fa più male. Lo scorso anno c'è voluta una cronometro, oggi l'incontrollabile: le maledette cadute, di uno sport, che ti illude e poi manda tutto in frantumi.

E poi si cade ancora e ancora, vanno giù Haig e Démare, Pogacar resta in piedi per miracolo, e poi in volata – vince Merlier - un'altra caduta: Ewan stavolta, il suo Tour è finito.

C'è qualcosa di magico, di incontrollabile, di maledetto nel ciclismo. È un attimo: la sofferenza è in moto e non si ferma. Domani ci si rialzerà, feriti, ma guardando avanti. Nonostante tutto.


Di maglie gialle

Oggi si parte con questo ragazzo qui in foto, dal volto raggiante, in giallo. Dopo la dedica al traguardo, gli occhi rossi, la fronte imperlata di sudore, le urla disteso a terra, le lacrime che solcano il viso, la voce rotta per un pianto a dirotto. «Ci sono voluti cinque minuti buoni per capire che avevo preso anche la maglia gialla» dirà.

E la indosserà 37 anni dopo suo padre Adrie, che la prese il 2 luglio del 1984 e la vestì in corsa il 3 luglio, nella tappa che portava il gruppo da Béthune a Cergy-Pontoise. Come la prese la perse subito perché davanti andò via e poi arrivò la più classica delle fughe bidone: oltre 17' il vantaggio sul traguardo.

«Con mia moglie e la compagna di Mathieu eravamo a cinque chilometri dal traguardo quando un gruppo di tifosi ci ha fatto salire sul camper per vedere il finale di gara» ha raccontato ieri emozionato Adrie a un giornale francese. Orgoglio e felicità le parole che descrivono il suo stato animo. «Sì, abbiamo pianto, mi pare logico: questo era il miglior omaggio che poteva fare a suo nonno».

Il nonno di Mathieu van der Poel, Raymond Poulidor, lo abbiamo detto in tutte le salse, quella maglia non l'ha mai vestita e perciò un giorno disse: «La maglia gialla? Se l'avessi indossata non sarei Poulidor. Se avessi vinto un Tour sono sicuro che nessuno parlerebbe più di me». Oggi per la dinastia Poulidor-van der Poel sarà il giorno più speciale di tutti.


L'orto di Tadej

Chissà come avranno vissuto l'arrivo della tappa del Mûr de Bretagne a Komenda, il piccolo quartiere della cittadina di Klanec, in Slovenia, dove è cresciuto Tadej Pogačar. Ieri, il suo secondo posto ed il terzo di Roglic sono stati dei segnali molto chiari: i due sloveni vogliono contendersi anche le briciole di questo Tour de France.

Ora sono uno davanti all'altro in classifica, un solo secondo a dividerli: Pogačar a tredici secondi, Roglič a quattordici.
Noi vi riportiamo a Komenda perché lì è cresciuto Tadej e ogni anno, a maggio, se non è in corsa, vi ritorna per trascorrere del tempo con la famiglia. Sua madre, Marjeta, ha un orto fuori da casa. Forse nelle fasi iniziali della tappa sarà stata lì e qualcuno l'avrà chiamata all'avvicinarsi del Mûr. Lì coltiva verdure sin da quando Pogačar era bambino.

Per questo Tadej conosce perfettamente ogni ortaggio e ogni legume. La sua è stata un'infanzia come quella di molti altri ragazzi cresciuti in paesi rurali, un'infanzia che è ancora vicina sebbene siano cambiate tante cose e Pogačar sia per tutti il vincitore del Tour de France, perché il talento sloveno ha solo ventidue anni e quei momenti se li ricorda bene.

Accanto a lui il fratello, Tilen, di tre anni maggiore: "Vedete? Là in fondo c'è la fattoria di mio zio" racconta Tadej a L'Equipe. "Da bambini, io e Tilen andavamo tutti giorni laggiù a prendere il latte e lo mettevamo in un barattolo di ferro per portarlo a casa. Sapete quante volte ci è capitato di rovesciarlo?". Un villaggio e una famiglia poveri. I due fratelli per molti anni hanno un solo monociclo e lo condividono, per andare a scuola, dai familiari o dagli amici, perfino in chiesa. "Un giorno ci è stato rubato e non siamo più riusciti a ritrovarlo".

Qualche segnale di ciò che sarebbe stato, tuttavia, c'era e Pogačar ci scherza su: "Non è che avessi molte altre possibilità, sono cresciuto circondato dal giallo. Questa casa ha sia i muri esterni che quelli interni dipinti di giallo". In camera sua, poi, un disegno fatto a matita fuoriesce leggermente da un armadio ricolmo di trofei: si tratta di un ciclista che sta per iniziare a scalare una montagna.

La mente di Pogačar, in realtà, non è lì, ma già proiettata in avanti. Spiega che soffre solo a pensare a quando, un domani, non potrà più andare in bicicletta. Di più. Racconta proprio di non riuscire a immaginarsi quel giorno. Probabilmente perché, quando vieni dal niente, quel ricordo ti resta sempre dentro e sai meglio di chiunque altro che le cose possono, o forse devono, finire. Così ci pensi e provi paura anche se sei in Francia a giocarti il tuo secondo Tour de France a soli ventidue anni.

Foto: Bettini


Estate bretone

L'estate bretone porta con sé un velo di malinconia sulle strade di Perros-Guirec, che sembra il nome di uno champagne o di una marca di orologi francesi invece è una città della Costa di Granito Rosa. Di prima mattina, la pioggia cade su un asfalto già scivoloso, si rabbuia il cielo e le ferite fanno più male. Anche quelle cicatrizzate. Ci avrà pensato Chris Froome che ieri si è aggrappato alle braccia di un massaggiatore per rimettersi in piedi: lui sa che le cadute possono capitare, con questa pioggia a fitte ancor di più. Non devi pensarci, altrimenti in sella non torni. E invece devi tornarci il prima possibile perché la paura si infiltra nelle ossa come l'umidità nei fari all'orizzonte e poi è troppo tardi.

Ognuno di quei fari ha una storia, forse pura leggenda, ma qui tutti le raccontano quelle storie, così sembrano vere. Anche la storia di Mathieu van der Poel e di Raymond Poulidor è raccontata da tutti in questi giorni. Forse anche troppo e forse, come per i fari, nessuno sa cosa si dissero tanti anni fa. Nessuno tranne Mathieu che ieri all'arrivo era sofferente. Non per il dolore ai muscoli o per l’amarezza della sconfitta. Per le promesse che si fanno e non si riescono a mantenere. Tante ne chiedono i nonni ai nipoti: van der Poel aveva promesso che avrebbe conquistato quella maglia gialla che a Poulidor era sempre sfuggita. Ci pensava, probabilmente da stanotte, perché quando prometti a chi non c'è più non puoi scusarti per la promessa, non puoi spiegare, devi solo accettare e guardare avanti.

La sua mente è sempre stata lì. Sin da quando è partita la fuga con un destino già segnato, perché al Mûr de Bretagne si attendono i grandi. Ci pensava mentre in gruppo si limava per prendere le posizioni di testa ed oggi sembrava davvero ci fosse una lima od una lama a sfiorare i corridori perché il gruppo si rimescolava come un puzzle e sulle scarpe degli atleti qualche striata ci sarà di certo. Una prova del rischio che ci si prende tutti i giorni, qualcosa che non si può spiegare razionalmente, perché è istinto puro, mestiere come quello dei falegnami o dei panettieri e delle loro botteghe che si aprono quando solo il mare sibila sulle coste.

Un primo scatto e la testa a guardare indietro, a sperare che il gruppo non fosse più lì, che non dovesse avere paura di Alaphilippe o di Pogačar. Una prova generale e poi, forse, lo sconforto, misto a rabbia, perché le cose ancora una volta rischiavano di non andare come avrebbe voluto. Una rabbia cieca, lucida, col groppo in gola per scalare un muro ed i muri sono verticalità senza dubbi, l'opposto di una bicicletta, di una ruota che gira.

Mathieu van der Poel che segue Sonny Colbrelli sull'ultima ascesa al Mûr de Bretagne non è solo un ciclista in cerca di gloria. Ha qualcosa in più, lo si vede da come spinge sui pedali. Siamo convinti che non ricorderà quasi nulla di quegli ultimi metri, che non avrà sentito quasi nessuna delle voci di coloro che gridavano il suo nome. Sì, perché le promesse fatte a chi non c'è più sono particolari anche quando vengono mantenute. Ti riportano alla mente il passato e, per qualche attimo, vorresti tornare nel passato, per tranquillizzare nonno, per chiedere scusa per ieri e per essere certo di aver fatto bene. Vorresti sentire solo quella voce. Per questo Mathieu van der Poel ha detto solo: "Ho pensato a nonno" e poi è scoppiato a piangere. Perché le mancanze opprimono il petto anche a promesse mantenute. Sì, quando sei felice, ma ti manca l’unica persona con cui vorresti esserlo.

Foto: bettini


Spingersi più in là

Il punto del discorso potrebbe essere quello di spingersi sempre più in là: come vorrebbe fare Alaphilippe. Ieri giornata complicata al Tour, un po' per tutti, non per lui. Con quell'azione che ogni tanto ci ritorna in mente, impressa per bene nella sua memoria muscolare. Come quando vuole prendere e andare mostrandosi insaziabile, famelico. «Ho corso come se non ci fosse un domani» ha detto, più o meno banalmente, ma sincero. Se lo definiamo con la faccia da insolente è perché esprime i tratti del campione.

Alaphilippe vuole spingersi più in là, sì, ma dove potrebbe arrivare? Presto, prestissimo per dirlo. Prematuro, forse retorico e sin troppo raffazzonato. Prendere la maglia il primo giorno si può rivelare uno stress indicibile, ma il disegno di questo Tour non è che sia proprio di quelli che mettono una paura da nascondersi sotto il letto o tenere la luce sul comodino accesa tutta la notte.

Le Alpi sono solo un assaggino quest'anno, le crono potrebbero persino sorridergli. La chiave sarà il Ventoux e lo stress di portare ogni giorno quella maglia, che magari, però, come nel 2019, invece che spremerlo, gli darà carburante in più. Poi c'è la terza settimana dove i Pirenei fanno giusto un po' più di paura. E stare in piedi che vale per tutti, sarà un'altra base su cui fondare un'idea bizzarra, un po' pazza che non diciamo e di cui lui non ne vuol sapere. Stare in piedi: perché dopo cinque ore di corsa si contano già ritardi, guai e feriti.

Spingersi più in là. Perché è vero che ieri la prima grossa carambola è stata provocata da uno spettatore cretino e sul quale non ritorniamo, ma il secondo incidente, brutto, altrettanto pericoloso e drammatico, è stato provocato dai nervi, dal cercare di rischiare tutto per infilarsi in uno spazio, per prendere la posizione e affrontare lo strappo davanti.

Madouas ha raccontato di aver avvertito i suoi compagni di squadra sulla pericolosità del finale di corsa con quelle sue stradine che lui conosce a memoria e che per esempio un brillante Gaudu ha evitato. Mentre Guillaume Martin ha sentenziato, con la sua ormai proverbiale sagacia, «Forse qualcuno dovrebbe essere un po' più distaccato e dire a se stesso che questo è solo uno sport: non possiamo giocare con la nostra vita sfiorandoci a ottanta chilometri orari».
Ed è così che oltre ai diversi ritiri già avvenuti, stamattina non partirà Soler che è arrivato al traguardo ultimo e con entrambe le braccia fratturate, mentre Hirschi e Froome, non due qualunque, partiranno, ma potrebbero non arrivare. Lemoine ha fatto paura per le condizioni in cui è arrivato all'ospedale, in giro per il gruppo è pieno di gomiti e di ginocchia sbucciate. Contusioni di ogni genere. È vero che è il ciclismo, mica roba banale, ma oggi è un altro round da sospiri e speriamo niente conta dei feriti. Il cuore in gola e l'affanno ce li teniamo per i finali di tappa e le azioni à la Alaphilippe.

Foto: ©Christof Kreutzer


L'idea di Schelling

Quando, a ottanta chilometri da Landerneau, col gruppo a poco più di due minuti, Ide Schelling, BORA-Hansgrohe, ha staccato i suoi compagni di fuga, in molti gli avranno dato del folle. Se già c'erano poche possibilità di arrivare al traguardo in sei, figuriamoci da soli. Infatti Schelling al traguardo non è arrivato, non davanti almeno, ma di lui bisogna parlare per un altro motivo.

Sbarbato, soli ventitré anni, ma ne dimostra anche meno, il ragazzo de L'Aia ha un cognome da filosofo, l'eco di Friedrich Schelling si fa sentire, e una parlata veloce. Dice di essere il classico ragazzo della porta accanto, uno di quelli a cui piace ridere e scherzare e non prendersi troppo sul serio. In bicicletta lo dimostra facendo una volata solitaria al traguardo volante di Brasparts solo per vedere il pubblico esaltarsi e battere le mani contro le transenne. Forse ha pensato che al traguardo finale non sarebbe mai arrivato, così ha voluto sentire la sensazione che si prova quando tutti sono lì per te. Oppure, semplicemente, gli è passato quello per la testa e lo ha fatto, come i ragazzi semplici, un poco “matti”.

Quando gli chiedono cosa vorrebbe in bicicletta risponde la cosa più scontata, banale, ma forse anche la più vera, perché, alla fine, senza ipocrisie, tutti corrono per vincere e lui lo dice senza tentennare: «Vorrei provare a vincere una corsa. Credo sia una sensazione unica che non si può spiegare». Ma non si ferma lì. «Mi piace andare in bicicletta perché mi piace soffrire. So di essere sulla buona strada, sto lavorando molto per crescere e per essere una versione migliore di me stesso. Sto lavorando per essere più preciso, più attento e ci riuscirò».

Ed è questo che ci piace raccontare di Schelling: un ragazzo che lavora sodo per essere la versione migliore di se stesso, che non parla di campioni a cui assomigliare o di idoli, ma dei piccoli passi che lo porteranno a essere più attento o più preciso. Che va ad allenarsi sulle pietre o sul pavé anche se «sono la cosa più simile al dolore». Che in fuga si sente a casa propria e che, fra dieci anni, non vorrebbe altro che essere dov'è adesso perché è felice.

Soprattutto Schelling ci piace perché ha fatto qualcosa di apparentemente senza senso che in realtà il senso l'aveva eccome. Perché, se pesassimo sempre tutta la vita sulla bilancia della razionalità, avremmo una mera serie di calcoli matematici, così invece possiamo crederci, sognare e illuderci perché anche l'illusione serve, ogni tanto. Non solo. Ci piace perché la storia di Schelling è la storia di chi ha tenuto fede a quello che era il suo dovere fin dal mattino presto: andare in fuga. E lo ha fatto senza esitare, anche quando sembrava un pazzo. Appassionatamente, dignitosamente, senza prendersi troppo sul serio, ma prendendo con estrema serietà ogni metro di strada.

Foto: Ralph Scherzer