Antonio Tarducci ricorda benissimo le mani di suo papà. Quasi tutti le ricordiamo in ogni dettaglio le mani di nostro padre, il ricordo di Antonio, però, è particolare. «Se ripenso alle mani di papà mentre aggiustava le biciclette mi sembra di rivederle. Non riparava biciclette di professionisti, erano normalissime biciclette della vita di ogni giorno». Quelle mani erano sporche di olio e segnate dalla fatica, come le sue, mentre ci parla. Ma, e Tarducci lo spiega bene, il senso del suo lavoro è proprio qui, nell’artigianalità. «Un grande costruttore qualche tempo fa me lo disse prendendomi da parte: “Antonio, ricordalo sempre, noi siamo dei biciclettai”. Ecco, essere biciclettaio, è questo che mi rende orgoglioso. Qualcuno che lavora plasticamente con le biciclette, che le plasma. La bicicletta è un mezzo che viene dalla povertà, un mezzo che ha visto la povertà, che l’ha affrontata e l’ha riscattata. Su quella sella puoi viaggiare, spostarti, vedere ogni angolo di mondo, anche quelli più nascosti, più intimi, senza spendere una lira. Fatico a vedere un difetto nelle biciclette. Guardiamole assieme: che difetto gli vedi?».

Il papà di Antonio, Ugo, ha iniziato questo mestiere nel 1960 a Viareggio e da quei giorni non ha mai smesso di ricordare al figlio la cosa che più conta in ogni mestiere: osservare. Così gli occhi di un padre e di un figlio sono cresciuti assieme: «Qui si impara sempre ed ogni giorno devi alzarti dal letto sapendo che imparerai, altrimenti parti col piede sbagliato. Bisogna porsi accanto a chi questo lavoro lo sa fare meglio di te e guardare. Se stai lì e guardi, cresci. L’ho sempre fatto: in un angolo, in silenzio, quasi timidamente per la paura di disturbare. Servono uomini esperti che non abbiano timore di condividere ciò che sanno, in particolare per quanto concerne i giorni di corsa, la loro organizzazione, e giovani curiosi che abbiamo fame di sguardi».

I due maestri di Tarducci sono indubbiamente stati Luciano Galleschi ed il mitico “Falcone”. «Avevo vent’anni e per fare il mio lavoro cercavo sempre un posto accanto a Falcone. C’era grande rispetto, divoravo tutto con gli occhi». L’indole di Antonio è quella sanguigna, tipicamente toscana; gli anni però, Tarducci ne ha cinquantacinque, hanno smorzato quell’anima da “toscanaccio” che oggi resta lì, sotto pelle. «Se ho un rammarico è quello di non aver visto crescere mio figlio che ora ha ventiquattro anni. Lui è cresciuto con mamma. Gli mancano due esami alla laurea e i suoi anni più belli me li sono persi. Ricordo come anni fa facevo queste code chilometriche alle cabine telefoniche di ogni città per riuscire a parlarci qualche minuto. La lontananza è una brutta bestia, non ti fa stare tranquillo, ti immalinconisce e così fatichi anche a lavorare. per lavorare bene devi essere sereno. La vita è così, non ci si può fare molto. Però col tempo ti fai un esame di coscienza e capisci che, alla fine, non sei così male. Ti senti soddisfatto di te e sei felice al solo pensiero della famigliola che hai a casa».

Avere a casa un figlio così giovane è anche la molla per capire tutti i “suoi” ragazzi, quelli che Antonio definisce “come figlioli”. «Essere meccanico significa essere a disposizione. Io sono un uomo a disposizione di altri uomini. Non c’è nulla di male, sai? Questa consapevolezza mi ha portato a superare tutte le difficoltà che normalmente si incontrano. Se tu sai che devi reagire per aiutare gli altri, lo fai. Il rapporto umano con questi ragazzi è fondamentali, per capirli, per aiutarli e soprattutto per rispettarli. Cerco sempre di sdrammatizzare. Il punto è che bisogna capire quando si può sdrammatizzare, quando serve e quando invece bisogna stare in silenzio e dare spazio allo sfogo o ai pensieri. Non si può sempre scherzare. C’è un’interiorità da rispettare». Così Tarducci ci racconta dei viaggi in auto in assoluto silenzio dopo una sconfitta o dopo una delusione. Così ci parla della responsabilità che avverte forte. «Non sono mai stato un campione ma ho corso anche io in bicicletta. La verità? Ho sempre avuto paura delle volate. Ne ho anche oggi per i ragazzi. Il nostro è un lavoro di responsabilità, basta un nostro piccolo errore e si può compromettere tutto. Tu devi fare il massimo, non devi poterti rimproverare nulla perché più di così non potevi fare. È l’unico modo per essere sereni. A questo penso spesso».

Dei vecchi tempi, quelli che ora il Covid fatica persino a permettere di immaginare, Antonio ricorda sale di alberghi piene di gente, le chiacchierate nei cortili e quei tavoli con una birra e qualche risata. «Quando arrivi alle partenze e vedi questi piazzali vuoti, ti prende un morso allo stomaco. Quanto è cambiato il nostro caro vecchio ciclismo in questi tempi?». La sua indole sanguigna torna quando parla della gara che ha organizzato per dieci anni, il Trofeo città di Viareggio. «In questo periodo non si sta facendo più nulla per i giovani, questo è un dramma. I ciclisti professionisti di domani sono i ragazzini di oggi. Vorrei tornare a organizzare qualcosa, spero di poterlo fare un domani. Con gli amici di sempre, con Emanuele, con Marietto, tutte persone che vogliono bene a quelle biciclette lì».

Anche Antonio Tarducci vuole bene alla bicicletta, a queste come a quelle che ha a casa, fra le biciclette d’epoca, la sua grande passione, ereditata da papà. La voglia di ritornare a Viareggio è una voglia particolare, qualcosa che riappacifica con sé stessi e con ciò che c’è attorno. «Basta poco, basta tornare a casa, alzarsi la mattina e camminare in Piazza Mazzini, fermarsi al caffè Margherita e dare una sbirciata al lungomare». Sì, perché, alla fine, anche qui a Benidorm c’è il mare ed è bellissimo ma ognuno ha il suo mare. E quello è inconfondibile.