Kuss Kuss
In principio era il selvaggio west: storie di personaggi ricercati e senza legge. Come non ne aveva Doc Holliday, uno dei più temuti e spietati pistoleri della seconda metà dell'ottocento che scappò da un ergastolo da scontare nella prigione di Denver per andare a seminare il terrore a Leadville, Colorado.
Leadville: una cittadina situata a tremila metri sul livello del mare, che da poco stava conoscendo il suo momento di massima espansione grazie alla scoperta di una filiera d'argento che portò all'apertura di una serie di miniere e di passaggi ferroviari.
Storie di sangue che non smette mai di scorrere, come racconta P.T. Anderson; sabbia nera che segna in maniera indelebile le mani, polveri che riducono in poltiglia i polmoni, ma che richiama centinaia di migliaia di persone dalla lontanissima Slovenia. Tra fine ottocento e primi novecento, infatti, si stima che circa trecentomila persone emigrarono da quel piccolo paese dell'est Europa fino in America.
Alcuni si fermarono a Cleveland; altri iniziarono a sentire l'odore delle miniere e finirono a Leadville rovinandosi l'esistenza per una paga misera - si parla di massimo due dollari e mezzo al giorno - scovando poche once di argento al soldo di Horace e "Baby Doe" Tabor. Frank Zaitz era uno di questi; sognava di diventare ricco, guardava di sbieco i suoi padroni, e l'intraprendenza che lo portò a scappare a diciassette anni da un minuscolo villaggio del distretto di Gorica, in Slovenia, gli fece abbandonare quel sudicio lavoro in miniera che affaticava lui e arricchiva altri, e a fondare, insieme ad altri connazionali, un prospero commercio di liquori e persino dei saloon dove smerciarli.
Leadville viveva in quegli anni un momento prolifico. Allontanandosi dalle claustrofobiche miniere tutto era come un feuilleton dai toni leggeri e scanzonati: da lì arrivava Molly Brown, attivista politica, e diventata celebre come "l'inaffondabile" per essere sopravvissuta al naufragio del Titanic. Mentre tra i figli degli sloveni fondatori del mercato di liquori c'era Dolph.
Dolph ama sciare e in pochi anni diventa una leggenda americana dello sci nordico. Da Leadville, ormai in disgrazia, si sposta a Durango, poche miglia più a sud, con il confine del Nuovo Messico ormai a tiro. Sono gli anni '50. Dopo un po' di tempo conosce Sabina e la sposa. Entrambi maestri di sci, estrosi, emancipati, amanti dell'avventura; Sabina è sorda da un orecchio e nonostante tutto suona l'ukulele, ha lo sci nordico nelle vene, e quando il figlio Sepp ha solo pochi mesi, se lo porta nello zaino in giro sulla neve.
Dolph, Sabina e Sepp si gettano tutti i fine settimana all'avventura; oltre allo sci praticano rafting e trekking, oppure si dilettano in lunghe e lente passeggiate in compagnia di tre asinelle, una delle quali, Hilda, si lascia agilmente cavalcare da Sepp, trattandolo come il suo cucciolo. «Se gli cadeva qualcosa dalle mani, Hilda, con fare materno, si fermava e aspettava che lo raccogliessimo. Sepp lo vedete calmo in bicicletta e penso che questo sia dovuto alla tranquillità delle nostre passeggiate in mezzo alla natura» racconta Sabina.
E per Sepp fare sport diventa un aspetto normale della sua esistenza. Si sveglia la mattina e vede le montagne rocciose che paiono sfidarlo; padre e madre sciano, e da quelle parti c'è l'ingombrante leggenda di un certo John Tomac a cui tutti i ragazzini si ispirano. Proprio a Durango, nel 1990 - Sepp non era ancora nato - si disputò il primo mondiale di mountain bike della storia e Tomac sarebbe stato tra i favoriti per vincere entrambe le gare in programma – non andò così ma si rifece l'anno dopo.
Sepp inizia a praticare qualsiasi sport: kayak, mtb, hockey e sci di fondo - suo padre è stato allenatore della nazionale americana olimpica di sci nordico e sua madre l'ha insegnato per quarant'anni e lo fa tutt'ora quando non segue il figlio alle corse. Sceglie l'Hockey «per non deludere i suoi compagni di squadra» ma presto lo abbandona perché troppo minuto. Inizia a pedalare; eredita dalla madre capacità aerobiche fuori dal comune. E dopo averla seguita dentro uno zaino sulle piste da sci, ora le va dietro durante interminabili escursioni in bicicletta.
Procede tutto casa-studio-sport e nel 2017 si laurea in marketing. Diventa forte nello sport della fatica. Eccome. Ruote grasse perché lo impone la tradizione di quelle zone oltre alla facilità di trovare percorsi adatti, e poi ruote strette e lisce che lo portano a scalare a tempo di record varie salite. Vince in America, e nel 2018 si fa notare dalla Jumbo-Visma e il suo spirito contagia Primož Roglič che esige di averlo con sé al Giro e alla Vuelta del 2019.
Leggero in bici, come nella testa, è così tranquillo e rilassato che i suoi amici a volte non capiscono se faccia sul serio: quando ritorna a Durango escono in mtb e lui si fa staccare in salita. E poi chiudono il tutto davanti a un buon numero di birre - perché anche questo fa parte della tradizione.
E quando qualcuno chiede a Sepp Kuss delle sue origini slovene dice di essere stato lì solo una volta - sul Triglav in escursione con i suoi genitori - e di conoscere solo la putizza, tipico dolce di quelle parti simile alla gubana friulana. Se lo guardi e vedi quegli occhi neri vispi e quei capelli come il carbone capisci da dove arriva e perché va così forte: americano, sloveno (in bici di questi tempi...), ci sono persino origini italiane in quella famiglia emigrata nel nuovo mondo a fine ottocento.
Appare sempre così tranquillo, ma mai avventato: nel 2019 conquista la sua prima corsa in Europa, dopo aver fatto incetta di traguardi al Tour of Utah 2018. È un traguardo in salita della Vuelta e lui ha il via libera, finalmente, dal proprio capitano. Dopo aver staccato i compagni di quella gita premio, resiste al ritorno di Geoghegan Hart e Guerreiro e assaporerà ogni momento battendo il cinque a tutti i tifosi trovati a bordo strada nelle ultime centinaia di metri di corsa. «Volevo ringraziare i tifosi» racconta con la sua disarmante semplicità a fine tappa. «Il ciclismo è l'unico sport dove viene tifato fino all'ultimo anche chi perde e sapete perché? Molti dei tifosi pedalano e sanno cosa vuol dire far fatica. Il mio è un gesto per omaggiare chi rende grande questo sport e ci aiuta a sopportare la sofferenza».
Foto: Bettini