«Mamma, ha vinto papà?»

Oscar, il figlio di Damiano Caruso, un giorno era davanti alla televisione durante una gara ciclistica: «Mamma ha vinto papà?». Quel giorno papà non aveva vinto e mamma dovette dirglielo: «Non è niente mamma. Facciamo finta che abbia vinto, così gli organizziamo una bella festa». Oscar ha sei anni ed è stata la prima persona a cui ha pensato papà Damiano quando, il due agosto, è tornato alla vittoria al Circuito di Getxo, dopo sette anni e mezzo. «Ho pensato a lui dopo il traguardo. Mi sono detto: adesso papà ti porta una coppa vera e organizza una vera festa». Così Damiano Caruso ha regalato quella coppa ad Oscar e per il piccolo di casa Caruso quello è il regalo più bello del mondo. È felice e papà vuole solo questo per lui: «Quando sei felice non ti arrabbi, non provi invidia, non discuti in continuazione. Io sono un uomo felice e la felicità degli altri mi piace».

«Ho passato tanto tempo a casa con la mia famiglia. Quando sono ripartito ho cercato di spiegare ad Oscar cosa sarebbe successo da quel momento in poi. In questi anni mi sono tolto tante soddisfazioni con i miei capitani e le mie squadre; volevo una vittoria non tanto per me. La volevo per la mia famiglia e per i miei amici più cari. La volevo per ricambiare. La volevo perché era giusto che loro potessero gioire vedendomi a braccia alzate». Damiano Caruso è un gregario, un gregario di quelli bravi, ed ha una devozione incondizionata verso il suo ruolo: «Essere gregari vuol dire non avere alcuna riserva sul tuo impegno. I miei capitani si fidano di me perché sanno che la mia parola vale. Perché so quanto è importante la parola data e non la tradirei mai». Quando gli chiediamo chi sono i gregari di questa società, in questo periodo, non ha dubbi: «Credo che siano tutte le persone che, nonostante i rischi, nonostante la paura, continuano a fare il loro lavoro. Dal fattorino che non si è mai fermato un giorno per portare il cibo a casa agli anziani, ai medici nelle corsie degli ospedali. Sono questi i gregari di lusso del mondo. Coloro che rispettano il loro dovere e vanno fino in fondo».

Poi c’è il caro vecchio ciclismo che nel tempo è cambiato, forse troppo: «Credo ci sia dell’esasperazione. Non solo nel ciclismo, sia chiaro. I giovani di oggi sono troppo succubi del risultato, troppo ansiosi. Facendo così, se non finiscono per odiare la bicicletta, finiscono per prendere qualche brutta strada. Bisogna spiegare che ogni storia vale. Ogni storia conta. Anche se non vinci, anche se arrivi ultimo. Bisogna spiegare che ogni storia merita di essere raccontata e rispettata. Siamo duecento corridori con duecento storie diverse. Proviamo a raccontarle tutte».

Proviamo. È una promessa.


Lo sguardo dei ciclisti

Le gocce d’acqua che, cadendo per terra, rimbalzano e rimbombano sulla salita del Montello, spostate dal vento, sono come spilli che trafiggono. Gli ombrelli che si trovano dal lato opposto della strada, quello esposto alle raffiche, incassano le frustate d’aria, si gonfiano da sotto e vengono divelti. È proprio una strana estate. La gente resta lì. Non sono poi così tante persone, è vero. La situazione attuale lo impedisce. Lo sanno. Un ragazzo dice alla sorella (crediamo): «Guarda che stavolta devi gridare anche tu al passaggio. Devono sentirci». Lei ammette di non conoscere nessuno. Probabilmente è lì solo perché lo voleva lui. Succede, no? La risposta è franca: «Tu grida! Fai rumore. Fatti sentire. È imbarazzante questo silenzio». E la ragazza lo ascolta. Appena vede i fuggitivi sbucare dalla semicurva si lancia in un “alé” che toglie un poco di fiato anche a noi. All’arrivo del gruppo batte le mani e incita. Perché, alla fine, quando qualcuno ha bisogno di aiuto, fosse anche solo di una parola, è importante fare qualcosa, senza stare a sofisticare troppo sul cosa. Quella ragazza lo ha capito.
Non è l’unica. Qualche proprietario delle case lungo la salita esce, sotto la stretta pensilina dell’abitazione, ad applaudire. Altri se la sono fatta a piedi e ora si chiedono come scenderanno con questa bufera. Un signore avanti con l’età ci confessa: «Andavo anche io in bicicletta. Mi piaceva. Eccome se mi piaceva. Poi ho avuto qualche problema di salute e sono stato in ospedale. Quando sono tornato a casa, mia moglie aveva regalato la bicicletta a mio figlio perché temeva potessi farmi male. Al compleanno successivo, quando mio figlio mi ha chiesto cosa volessi di regalo, glielo ho detto: “Regalami la mia bicicletta. Per favore». Ci ha fatto tenerezza, simpatia.

Ognuno racconta quel che può e poi prova ad incitare i ciclisti. La salita impone un’andatura lenta e gli atleti hanno modo di sentire le parole degli appassionati. Non solo. Ogni tanto li cercano con gli occhi. Sì, basta una frazione di secondo e guardano negli occhi chi li incita dicendo che ormai è quasi finita. Qualcuno ghigna. Come dicesse: «Ma se siamo solo al primo giro? Cosa vai raccontando?». Il lavoro del ciclista, come scriveva qualcuno, non consente menzogne. Lo sa, lo sa che gli stanno mentendo spudoratamente ma apprezza il tentativo. Sa che chi gli urla così ci crede davvero. Altrimenti non starebbe lì con delle maniche di camicia che a strizzarle sarebbero come appena uscite dalla lavatrice, senza centrifuga.
Sul nostro stesso treno una ragazza sfinita si accovaccia sul sedile, facendosi da cuscino con un sacco di zaini che teneva in spalla. Sul braccio ha diverse scritte. Non riusciamo a leggere bene. Sembra latino. Eccolo: amor vincit omnia. Chissà, forse era anche lei lì, sul Montello. Non la abbiamo vista ma per come è stanca e con i capelli fradici di pioggia potrebbe essere. Magari era davvero lì. E se non fosse così non importa. Perché avrebbe potuto esserci. Perché se per caso leggesse questo racconto, capirebbe al volo ciò che intendiamo. Questo è certo.

Foto: Claudio Bergamaschi