Masciarelli Sport Cycling Center, San Giovanni Teatino

«Tutto quello che vedi, tutto quello che ho e, vorrei dire, quel che sono, lo devo alla fatica e allo spirito di sacrificio di due persone umili: mio padre e mia madre»: sono parole di una gratitudine genuina di un figlio verso i propri genitori che, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, nei locali di "Masciarelli Sport Cycling Center", si sentono pronunciare spesso. A noi le dice Simone Masciarelli, figlio di Palmiro, fratello di Francesco e Andrea, classe 1980, ciclista professionista dal 2000 al 2013. Poi si concede un viaggio indietro nel tempo, mentre indica il padre, settantuno anni, ancora in officina, dal mattino alla sera, a fare il suo "mestiere": «Quell'uomo è vissuto e vive rendendo tangibile quotidianamente il significato dell'applicazione del sacrificio e della dedizione: ciclista o meno, è una sua componente. Sto pensando, ad esempio, al Fiandre del 1984, quando papà era in fuga e sul Grammont, al rifornimento, il direttore sportivo gli disse: "Vai, giocatela, Moser non ne ha oggi. Non aspettarlo". Non capì, si fece riprendere, poi, sul Bosberg, a quindici, forse venti chilometri dal traguardo, quando comprese che Francesco non avrebbe potuto fare risultato, ripartì: concluse al sesto posto. Un Fiandre può cambiare la carriera di un ciclista, avesse proseguito con la fuga, chissà. Ma non era da lui, il suo sentire era quello di mettersi a disposizione, di lavorare duro. Negli anni ottanta, ha pensato a questa attività mentre ancora correva: veniva qui alla fine degli allenamenti, quando era a casa dalle gare e si metteva a lavorare. Queste mura sono venute su grazie a lui e a mia madre che, con tre bambini ancora piccoli, si dava da fare perché potesse esistere».

A Simone, Francesco e Andrea, il padre non ha mai detto molto del ciclismo e, sebbene tutti e tre siano diventati ciclisti, non è stato lui a incoraggiarli a seguire questa via, forse perché l'aveva percorsa in tempi non sospetti. Le persone, però, parlavano, parlavano e parlavano continuamente, come fanno sempre, come fanno ancora oggi a proposito dei figli di Simone, altri due ciclisti in divenire che sentono, spesso, le medesime parole: «Non volevo questo per loro, ho provato a fargli scoprire altri sport, altre possibilità, ma pare quasi una questione genetica, una calamita. Non volevo perché so quel che si dice quando si ha un certo cognome, quasi bastasse quello per fare strada e so anche quanto si soffra. Io ed i miei fratelli facevamo il doppio della fatica, perché non solo dovevamo conseguire un risultato sportivo, ma volevamo fare anche in modo che fosse talmente forte, talmente evidente, da non lasciare spazio a dubbi, a chiacchiere. Perché non è più facile, non lo è mai stato, anzi, può essere più difficile. Erano i tempi in cui, anche dopo una vittoria, arrivavano i rimproveri, perché non era solo importante vincere, era importante come si arrivava al risultato». Palmiro ha proseguito la sua strada in silenzio e, silenziosamente ha invitato anche i suoi figli a fare lo stesso, sarà per questo che «per molti anni ha fatto fatica "a mollare la presa", a lasciarsi andare, a fidarsi completamente ed a lasciarci libertà ed iniziativa fra queste pareti. Credo sia normale, è la sua creatura. Ora lo fa ed io mi sento sempre più responsabile ogni volta in cui vedo la cura che mette su quelle biciclette, nonostante siano passati decenni e tutto sia cambiato. Papà studia, conosce e molti problemi complessi è ancora lui a risolverli».


Masciarelli Sport Cycling Center si estende su una superficie di circa mille metri quadrati ed il progetto è stato, sin dagli inizi, quello di creare uno spazio in cui un pedalatore potesse avere a disposizione tutto quel che è necessario per approcciarsi alla bicicletta. Un luogo, insomma, da cui iniziare a porre le basi per costruire un rapporto, perché quello con la bicicletta è un rapporto a tutti gli effetti, una conoscenza che si amplia con il trascorrere dei chilometri: «In quest'ottica, ritengo che le persone spesso trascurino l'aspetto biomeccanico, della posizione in sella ed è un errore. Anzi, talvolta è la radice del motivo per cui si smette di pedalare. Il ciclismo è vita lenta, in sella si passano ore ed ore e, per fare questa scelta, la bicicletta deve essere un posto "comodo", la fatica, semmai verrà dai percorsi. Laddove non si fa questo passo, diventa sofferenza solo il posizionamento. Il discorso è universale, cambiano le sfumature, dal corridore del Tour de France, alla signora che pedala nel centro cittadino. Il sentirsi a proprio agio deve essere il comune traguardo ed il nostro tempo, a mio avviso, dobbiamo investirlo proprio lì».
All'ingresso, si scorge subito tutto lo spazio espositivo dedicato alle biciclette, nel retro la sala biomeccanica dove lavora Andrea e la palestra di Francesco, sul lato sinistro, invece, tutto quel che concerne le attività, i servizi, l'officina, l'accettazione, l'abbigliamento ed i materiali, mentre la parte commerciale è sul lato destro. «Il nostro è un negozio di storia e di storie, questa è la definizione che preferisco, perché c'è la storia del ciclismo, quella di cui abbiamo fatto parte, come qualunque ciclista, e ci sono le nostre piccole storie, che, talvolta, così piccole non sono, per l'importanza e l'impatto che hanno avuto su di noi, sulla nostra carriera o sulle nostre giornate».

Allora è bello ripetere quella frase che Palmiro dice spesso ed è come un "grazie" al capitano di una vita: «Forse Moser avrà vinto molto anche grazie a me, ma, di certo, io ho vinto tutto quello che ho vinto grazie a lui, perché era un capitano che sapeva ricompensare del lavoro svolto, dell'impegno profuso». Ora, dice Simone, forse c'è più individualismo, minore disponibilità a mettersi in gioco per qualcosa che, alla fine, non comporti un risultato personale, eppure la storia di squadre come UAE Team Emirates e Visma Lease a Bike, prosegue, contiene il medesimo nocciolo duro: atleti che potrebbero essere capitani in qualunque altra squadra che, tuttavia, decidono di mettersi al servizio, di lavorare per una causa, "anima e corpo". Palmiro Masciarelli avrebbe potuto essere uno di loro e alcuni luoghi sono testimoni di questa opportunità, la Spagna, ad esempio, e Barcellona in particolare, con quel Campionato del Mondo concluso al settimo posto, in un finale da solo, senza i suoi capitani, Moser, Saronni, Argentin che, piano piano, avevano ceduto il passo. «Sono gare che cambiano la vita di un atleta, non so cosa sarebbe successo se avesse vinto il Mondiale oppure il Fiandre. Non so nemmeno se sarebbe successo qualcosa di diverso, perché mio padre è così, in fondo». In questo modo ha insegnato l'onestà ai propri figli. Sono tornati tutti e tre in quel negozio: in particolare, Simone, che ha smesso di correre a causa di un problema all'arteria iliaca, si è inserito in quella dimensione quando vi lavoravano più di dieci persone ed è dovuto partire da zero, perché il cambiamento era importante e di commercio lui non sapeva praticamente nulla. Ci è riuscito, se è vero che, attualmente, fa ciò che prima faceva il padre e, come lui, cerca di accontentare tutti. Non ci pensava, non poteva pensarci, non poteva crederci. Andrea ha studiato molto, si è specializzato in biomeccanica, Francesco è volato in California per curare un problema di salute, poi è tornato in Italia ed anche lui si è messo a studiare, per diventare un preparatore. Ma di studiare non si finisce mai.
Simone Masciarelli, intanto, sta provando a riprendersi tante cose di cui l'aveva privato la vita da atleta, in primo luogo i viaggi consapevoli, quelli in cui si sa che si sta viaggiando e si riesce a guardarsi attorno, a memorizzare paesaggi ed a scattare fotografie. Talvolta anche a prendersi il tempo per consigliare un posto da visitare: «In Abruzzo siamo fortunati, tra mare e montagne con varie sfumature nel mezzo. Forse, il preferito è la Costa dei Trabocchi, ma c'è tanto altro e ci sono le strutture per godere di quel che c'è». Ogni mattina, spiega Simone, ci si sveglia con l'entusiasmo di andare a fare il proprio dovere, anche nelle difficoltà, come succedeva quando erano tutti ciclisti, e questo è uno degli aspetti che preferisce, vista la passione che implica e visto che non tutti possono avere questa fortuna, possono plasmarla, crearla. La storia alle loro spalle li rende, spesso, dei punti di riferimento per chi sceglie la bicicletta e, in fondo, se dovessero avere un desiderio non cambierebbero molto, non cambierebbero nulla, anzi. Vorrebbero che, nei prossimi anni, potesse restare così, perché avere un'attività non è mai semplice e, in questi anni, anzi, è molto difficile e confermarsi è già una buona speranza.
Allora torneremo qui, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, e cercheremo Palmiro che gira inquieto, tenendo tutto sott'occhio, Simone, con il suo senso di responsabilità, Andrea e Francesco, ognuno attento al proprio ruolo, in ogni dettaglio. Torneremo, vedremo tutto questo e sapremo che non è cambiato nulla. Come dice e sogna Simone Masciarelli.


Il coraggio e il lavoro: intervista a Martina Berta

Martina Berta ha ripreso a "costruire" al ritorno dall'Olimpiade di Parigi, dove, ad agosto, aveva concluso in quattordicesima posizione la prova di cross-country, nonostante, nei giorni dopo Parigi, ci fosse solamente grande stanchezza, perché l'anno delle Olimpiadi è così: dapprima le qualificazioni, successivamente si mette la testa sull'appuntamento a cinque cerchi e si sacrifica tutto il resto, dentro e fuori dal ciclismo, ma le gare di una giornata hanno una storia a parte e la prova olimpica è una prova di un solo giorno con caratteristiche ancor più particolari. Sostiene Berta che per fare bene all'Olimpiade serva almeno una pregressa esperienza, lei sperava di più, era in forma, non se lo nasconde, ma mettere tutto assieme è difficile e non c'è molto da fare, è un dato di fatto. «Ero stanca, ma sapevo una cosa: all'Olimpiade tutti scoprono le proprie carte, ciò vuol dire avere un osservatorio privilegiato sulla reale condizione delle tue rivali. Era stanco anche il mio staff, ci siamo solo detti cosa potevamo fare per migliorare e abbiamo tirato dritto verso il Mondiale. Nel frattempo, ogni tanto, sentivo qualcuno che diceva: "Guarda che andavi più forte prima. Non ci credevo, ma le orecchie non si possono chiudere e si sentono le voci delle persone attorno». In pochi, infatti, sanno che, quest'anno, Martina Berta ha cambiato allenatore, convinta che per raggiungere quel qualcosa in più che desiderava, fosse questa la scelta giusta da fare, ma, come tutti i cambiamenti, serve tempo perché i risultati arrivino e, nel frattempo, ognuno dice la sua: «La verità è che fino a quando vai forte e vinci hai un sacco di persone attorno, a sostenerti, a incoraggiarti. Come qualcosa inizia a non funzionare, si riducono sempre più e restano in pochi, pochissimi. Ecco, solo quei pochi, poi, capiscono il vero significato dei risultati che ottieni. Gli altri, magari, torneranno, ma non sapranno mai davvero cosa c'è dietro, perché se ne sono andati nel momento difficile. La realtà è che le scelte complesse le affronti sempre da sola, con la fiducia di un ristretto gruppo di persone».

Fra le motivazioni del cambio, soprattutto, forse, la volontà di lavorare sulla base aerobica: nelle partenze, Berta se l'è sempre cavata bene, pagava però negli sforzi ripetuti e nel finale di corsa e, come sintetizza lei, sorridendo, le corse si decidono nel tratto conclusivo, quindi bisogna essere pronti. Probabilmente anche le sue persistenti difficoltà nella short race, in sostanza le qualifiche che stabiliscono le posizioni di partenza della gara della domenica, nel cross country: partire dalla quarta o quinta fila vuol dire, in ogni caso, essere maggiormente esposte a cadute o incidenti, perché «una gara ad inseguire è una gara diversa, comunque vada a finire». Più di uno sguardo è stranito da questa scelta, lei lavora bene, ma, in gara, non riesce ancora ad esprimersi al massimo: il Mondiale di Andorra arriverà con questa situazione e, domenica 1 settembre 2024, Berta conquisterà il bronzo in quella stessa competizione iridata, dietro a Puck Pieterse e Anne Terpstra. Di più: l'ultimo giro sarà, per lei, il giro più veloce. Dopo qualche giorno, di nuovo a casa, la prima considerazione che fa è proprio sul lavoro che paga, sull'aspetto mentale che deve essere strettamente legato a quello tecnico e tattico, soprattutto in un Mondiale, gara di un giorno, differentemente dalla Coppa del Mondo, ma non si ferma qui. «Penso a tanti giovani che soffrono perché intrappolati in situazioni che sentono non corrispondergli: vorrei invitarli a scegliere, a cambiare, a non restare in mezzo al guado, seduti ad aspettare che le cose cambieranno, perché non cambieranno se non le cambierete voi. Provare è la soluzione. Io credo alle decisioni di petto, credo alla scelta, pur se sbagliata. Meglio sbagliare che non decidere, nello stallo si butta via tempo che poi si rimpiangerà. Fare quel che facciamo noi atleti è un sogno per molti, è una soddisfazione enorme, pur se non si vince: ecco, i risultati arrivano anche scegliendo, la strada si fa scegliendo».

Classe 1998, Berta ha ventisei anni e fatica a realizzare quel che è accaduto, di fatto la concretizzazione di un pensiero che aveva dalle prime volte in sella o, per meglio dire, da quel giorno del 2015 in cui ha vinto il Mondiale Juniores: sostiene che la sua carriera sportiva sia nata in quel momento. L'occasione è arrivata e questa volta più di altre è stata una conferma, oltre la stanchezza e oltre tutte le domande. Diverso eppure simile ai risultati conquistati in Coppa del Mondo due anni fa, dopo un'annata viziata da una caduta con la frattura di alcune vertebre. Quando ha visto la prova di Pauline Ferrand-Prevot all'Olimpiade si è "gasata": «Sono convinta sia bello sapere che una prestazione del genere è possibile. Certo, in corsa si soffre, ma, appena tagliata la linea del traguardo, si pensa solo a come fare per avvicinarsi a quel risultato. Ho chiesto come fare al mio allenatore. Vuol dire che continuiamo a crescere, a migliorare. Racconta un progresso e la bicicletta è questa cosa qui». La bicicletta è per Martina Berta un sinonimo del verbo "provare": «Il passaggio nelle categorie junior e under non è stato facile, tuttavia potevo solo provare. Mi dicevo: "Provo, al massimo non funziona". Ci sono esperienze che puoi vivere solo a determinate età e lo sport ad alti livelli fa parte di queste. Non è un dramma, se non va, a patto di non aver rinunciato a priori. Forse qualche volta ho anche pensato di smettere: non l'ho fatto perché continuo a imparare, a migliorare ogni giorno. Io mi sento ancora alle prime armi. Smetterò il giorno in cui, in un momento difficile, sentirò di non aver più nulla da dare». Dal 2022 ad oggi, per esempio, ha lavorato molto in palestra, ha corretto squilibri nel bilanciamento posturale e ne ha tratto vantaggio, indubbiamente, così è accaduto per l'aspetto aerobico nel 2024. Impara il singolo ed impara e cresce il mondo in cui è calato: si può citare il lavoro sull'aerodinamica che tanti atleti stanno sviluppando anche nella MTB, l'alimentazione che è centrale su strada, meno in MTB, tuttavia atlete come Ferrand-Prevot e atleti come Pidcock alzano il livello anche da questo punto di vista, le preparazioni ed i materiali in cui un settore relativamente giovane come la MTB ha fornito spunti anche per le corse su strada.

Martina Berta resta la ragazza che è sempre stata: riservata, di quelle che non amano essere al centro dell'attenzione, è appassionata di sci e arrampicata. In sella va lontano ed ha scelto la bicicletta per poterlo fare, per scoprire una velocità giusta ed esplorare tutti quanti i luoghi che nessuno sport le avrebbe permesso di scoprire, chiusa in un palazzetto. Seria, professionale, eppure desiderosa, quando non corre in bicicletta, di staccare completamente la spina e liberarsi: «Il nostro è un mondo di orari e tabelle prefissate, troppo schematico per rappresentare la vita reale: è un lavoro e come tale va vissuto. Mi piacerebbe comunicare questo ai più giovani, raccomandando loro di avere sempre altro su cui contare fuori dal ciclismo, perché, in certi giorni, è tutto quello che serve per andare avanti. La serietà non è nemica della leggerezza, è possibile impegnarsi molto e allo stesso tempo sapere che sarà un picnic in mezzo al bosco a permetterti di proseguire, dopo aver ripreso fiato».

Foto: Sprint Cycling Agency


Casa Conte Rosso, Avigliana

Lassù, sbattuto contro il cielo sopra Avigliana ed il suo centro medievale, sono ancora ben visibili i resti del Castello dei Savoia: la piazza, lì sotto, è denominata Conte Rosso, nel ricordo della storia di Amedeo VII di Savoia, soprannominato, per l'appunto, Conte Rosso. Questo dettaglio è avvolto tra storia e leggenda: qualcuno parla della sua folta barba rossa, altri dei suoi capelli rossi, qualcuno menziona gli abiti rossi vestiti per la nascita del primogenito, altri ricordano invece la sua ferocia, senza pietà alcuna, in battaglia. Pare, infatti, fosse uno spavaldo, il Conte Rosso. Qualunque sia la realtà di questa storia di un passato lontano, quando Alfredo Di Giovanni e Maria Teresa Vecchiattini ci accolgono in Casa Conte Rosso, nell'omonima piazza, al numero 20, quel nome ci colpisce ed il racconto della sua leggenda avvolge il pomeriggio di un qualcosa di misterioso.

«Non abbiamo voluto cambiare il nome perché è parte di questi luoghi, è identità, ma, allo stesso tempo, abbiamo scelto di aggiungere la parola casa per raccontare una ricerca costante, quella che tende sempre più alle esigenze di chi varca quella porta, che si tratti di un singolo o un gruppo. In ogni caso, si tratta di un ospite e l'ospite è al centro di questa casa».

L'ospite è, tendenzialmente, un viaggiatore e l'idea, nata prima della pandemia, era proprio quella di dar forma a una "casa del viaggiatore", qualcosa di solido e stabile in mezzo alle tante incertezze e alle tante sorprese di ogni viaggio. Qui, ogni persona può parlare di viaggi, lasciar libera la fantasia, sfogliare libri e guide di paesi lontani, magari incrociarsi per le scale con chi vende viaggi per il tour operator "Viaggi solidali", conversare, entrare in comunione con le possibilità e la conoscenza che offre agli umani la vastità del mondo, ma, allo stesso tempo, può distendersi su un letto, ascoltare il silenzio, guardare fuori dalla finestra, cenare al ristorante della Ciclocucina, con i piatti di Fabrizio Platzer e la caratterizzazione riguardante il mondo della bici delle pareti. Nel dehor sulla piazza, ai tavolini, basta una birra fresca, dal Nord del Belgio, nelle Fiandre, una sorta di "madeleine" di Proust per ogni straniero ad Avigliana, un panino con le acciughe, un piatto di spaghetti alle vongole, una cucina casalinga, familiare, dalla carne alla cucina vegetariana, per aver voglia di fermarsi e farsi raccontare tutto quel che si cela dietro la storia del Conte Rosso: il suo mistero e la sua bellezza.

Alfredo sostiene che qui si sia chiuso un cerchio, iniziato in Viaggi Solidali, a Torino, a Porta Palazzo, nel cuore multietnico della città: «Non è stato facile abbandonare il posto in cui siamo cresciuti, ma, un bando ci offriva questa possibilità e sebbene talvolta ci chiediamo chi ce lo faccia fare, poco dopo, torniamo a metterci tutta la cura di cui siamo capaci, perché vogliamo bene a questa idea. In fondo, Torino è solo a mezz'ora di treno, Avigliana è il punto di partenza ideale per andare sui monti, in Val di Susa, in bicicletta o a piedi, e qui il progetto si completa, sulle orme di qualcosa già avvenuto in Francia: la cucina e l'ospitalità assieme. L'ospite e l'oste non sono estranei che si incrociano per caso. All'inizio può essere così, tuttavia noi crediamo in un reciproco interesse umano, nelle domande e nelle risposte, nel lasciarsi qualcosa. Noi crediamo alle porte aperte». In effetti, a ben guardare, la reception dell'ostello è all'interno del ristorante e Fabrizio lavora così, affacciato sulla sala: un'accoglienza differente, in paesi di grande impegno e poche parole. La porta scorrevole tra i due ambienti riporta una gigantografia di Nelson Mandela, attorno scorgiamo stampe originali della Domenica del Corriere di Torino, dedicate alla pista, a Maspes, a Bartali, a Coppi, al Giro d'Italia, alle biciclette e a chi dura fatica in sella, in generale.

Siamo ad agosto, il periodo delle Olimpiadi di Parigi, Fabrizio esce dalla cucina, ha qualche minuto di pausa, poi accenderà il televisore e seguirà le gare di ciclismo su pista: «Volevamo rendere vivo questo posto. Qualcuno si chiude nella propria realtà, noi vogliamo uscire, in semplicità, come siamo, con la musica che ci piace e le voci e le gesta dello sport in televisione, senza la classica tenuta, legati al territorio. Qualcuno ci resta male, perché si aspetta altro, un'altra cucina, un'altra bottiglia di vino. Noi siamo questi ed in questa piazza abbiamo provato a portare quel che non c'era». Il legame con il territorio vive in ogni dettaglio dell'ostello, come narra Alfredo: «I letti sono fatti da un fabbro di Almese, le tende da un'azienda di Avigliana, c'è un tocco industriale, il respiro della storia trascorsa e camere accoglienti per ogni tipologia di visitatore. Spesso ci dicono che non sembriamo un ostello, ma più una sala relax». Alfredo prende il cellulare, cerca un messaggio in una vecchia chat, sono parole di una psicologa della Fondazione Elice di Milano che è stata qui con diversi ragazzi. Rilegge a voce alta una frase: «Non siamo stati ospitati solo da un ostello, ma da una comunità di persone che si sostengono e supportano vicendevolmente e offrono supporto e aiuto ai loro ospiti». Fa una pausa: «Vedi? Qui c'è tutto». Ed è vero, c'è tutto, come c'è tutto in quei ragazzi che, alle loro famiglie, hanno parlato di quei giorni.

In fondo, si sono incontrate due storie simili, perché anche la Ciclocucina di Fabrizio non è nata qui, bensì proprio a Torino, la città in cui nacque la Lancia ed in cui, da giovane, per ben vent'anni, Platzer operava come termoidraulico. In seguito, il licenziamento e, dodici anni fa, un piccolo angolo, circa trenta posti, in zona San Paolo e una trattoria a tema per unire, come si fa con i puntini, due passioni: l'arte della cucina e la libertà della bicicletta nel vento. Undici anni ed il trasferimento ad Avigliana, in Casa Conte Rosso, con gli stessi ideali, perché, l'abbiamo detto, cucina e accoglienza sono in perfetta armonia: la pedalata resistente, dalla zona San Paolo verso il Col del Lys, i libri da presentare e quelli già presentati, le serate musicali, campioni del ciclismo e giornalisti, ma anche gruppi parrocchiali, le nazionali giovanili del baseball, i primatisti del mondo, il triathlon, il pentathlon, le ciclopedalate degli studenti. Nella Ciclocucina dei primi anni, il bancone, le sedie ed i tavoli erano stati lavorati da gruppi di amici: ognuno aveva messo la propria opera in qualcosa, in una sorta di opera collettiva. Successivamente il progetto è stato affidato a professionisti, ma la linea guida è rimasta la medesima: stessi colori, tra il grigio, il giallo ed il nero, una lavagna scolastica appesa al muro, i vecchi tavoli, le strutture in ferro ideate da un fabbro, molti oggetti costruiti recuperando parti di vecchie bici, ma anche portachiavi, magliette e un pensiero costante alla beneficienza, a progetti solidali. E, ogni volta che Fabrizio la raccolta a qualcuno, termina sempre con un invito: «Dovresti venire a vederla». La chiave dell'ospitalità. Un'altra chiave sono le parole e la parola più importante, tra queste mura, è responsabilità, in primis sotto forma di turismo responsabile: «Siamo in territori poco battuti, è necessario dare a chi viene da queste parti la possibilità di conoscerli, attraverso l'interazione e la collaborazione con altre realtà della ristorazione, ma anche con chi si occupa di arte, di laboratori. Siamo una piccola realtà ma, compatibilmente con il nostro mestiere, giriamo molto il territorio e si tratta di un territorio pieno di itinerari: la ciclovia francigena, il Colle Braida, la Sacra di San Michele, la Val di Susa, la collina morenica, poco più in là Bardonecchia e altre infinite possibilità, tra mountain bike e strada».

L'edificio, come detto, è suddiviso in due: ostello e ristorante, sotto, nel salone interrato, un deposito in cui lasciare le biciclette e diverse attrezzature per le riparazioni più piccole, perché davvero tante persone giungono qui in bicicletta. Sono presenti 42 posti letto e ben 52 biciclette possono essere ospitate, qui, sotto le camere, inoltre è in lavorazione una bike room maggiormente funzionale per il futuro, per rendere ancor più completo il progetto e porre ancor più al centro bici e ospitalità, anche quando da questi parti transitano eventi di ciclismo. Alfredo, in realtà, non era un appassionato di ciclismo, però la vicinanza di Fabrizio lo sta coinvolgendo e anche lui si trova a fantasticare sulle imprese di grandi ciclisti: in questo c'è il racconto di quando Platzer andò a vedere Vincenzo Nibali alle Tre Cime di Lavaredo nel 2013, ma anche quello del suo ultratrail delle Dolomiti e la sensazione di fatica senza parole, mista a meraviglia, quando, all'arrivo, ci si guarda attorno. C'è il vento in faccia dei viaggi in Corsica e molto altro. Allora Alfredo immagina uno scambio sempre maggiore tra esperienze e racconti della Namibia, del Perù e di altri paesi dall'altra parte del mondo e storie vicine, delle valli e dei borghi.

Questa, dice lui, è la più grande possibilità che offre la bicicletta e, in Casa Conte Rosso, sta già accadendo. Basta sentire tutte le persone che arrivano qui dall'estero e conoscono il progetto, conoscono la realtà di questa casa del viaggiatore: «Vorremmo svilupparla maggiormente anche all'esterno questa struttura, ma non è facile, perché ci troviamo in un centro storico e siamo sottoposti ai vincoli della sovrintendenza. Noi, tra l'altro, siamo una realtà complessa, perché uniamo più aspetti. Non c'è solo l'ostello, non solo l'agenzia di viaggi e nemmeno solo la cucina: siamo un insieme di cose e abbiamo il dovere di raccontarlo e più riusciremo a raccontarlo più funzionerà. Sogno una navetta che, partendo da Avigliana, possa girare in queste zone e arrivare fino a qui, facendo visitare il borgo medievale, aprendo ulteriormente alla conoscenza di questi posti e, quindi, a nuove possibilità». Il futuro è, per Alfredo, Maria Teresa e Fabrizio, ancora una volta nella parola responsabilità, connessa ad un ostello responsabile: «Responsabilità implica confronto con la realtà in cui si è ed il tentativo e la voglia di intervenire, per consolidarla o cambiarla. Un ostello responsabile è un ostello che si confronta con le difficoltà, che, ad esempio, sostiene chi ha più bisogno, aiuta nella ricerca del lavoro. Difficile, certo, ma essere casa significa anche accettare questa sfida e continuare il proprio cammino».


La dolce vita, Narvik, Norvegia

All'aeroporto di Narvik, era atterrato da poco l'aereo da cui sarebbe scesa Nadia Vaudagna. In auto, in un parcheggio, la aspetta Bruno: è sera inoltrata, ma la luce non abbandona la terra di Norvegia, è luglio, è l'estate del 2023. In città, si dice che Bruno sia l'italiano che vive qui da più tempo, dal 1965, per la precisione, quando vi arrivò, ancora ragazzo, dal Friuli Venezia Giulia, giovane musicista, all'avventura. Nadia è partita da Cavaglià, nella zona di Biella, con lei due ragazzini, i suoi figli, la loro vecchia casa ormai è lontana e non vi farà più ritorno. Fra qualche giorno, a Narvik, anzi, arriverà un vero e proprio bilico con all'interno «tutta la nostra vita precedente». Riccardo Perazzolo, il padre di quei giovani, ha un biglietto aereo prenotato e ben presto seguirà lo stesso volo verso il paese dei fiordi: un volo reale, nel cielo, come quello di un aeroplano, un volo di fantasia come quello delle persone che vanno via e ricominciano da zero, con solo il coraggio. "La dolce vita" è il titolo, una reminiscenza di Fellini, di questa storia ed è il nome di un locale, un bar, caffetteria, gelateria, con le sedie colorate, i dehors più chiari, gli ombrelloni bianchi e i fiori tutto intorno.

Un luogo dove si viene accolti da un bancone con linee che ricalcano un container, su cui sono incisi dei numeri: la latitudine di Narvik, quella di Cavaglià e la distanza dall'Italia alla Norvegia, quasi fosse realmente un container, in viaggio da un porto A ad un porto B: un omaggio al porto di Narvik, affacciato sulle montagne. Chissà, forse, un domani, da queste parti, esisterà anche una rainbow street, una strada colorata dai colori dell'arcobaleno, così sognano Nadia e Riccardo. In città è tutto sfumato tra il grigio ed il nero, questione di storia: della miniera di Kiruna, del ferro che vi si ricavava, della guerra, dei tedeschi, degli inglesi e del centro città raso al suolo. Allora, per "La dolce vita" si cerca il colore, lo si porta. Ma la storia è anche la loro storia, quella di una famiglia nata e cresciuta in Italia che, un pomeriggio, ha chiesto ai propri figli: «Noi vorremmo fare questa scelta, voi sareste d'accordo? Basta un vostro no per bloccare tutto e restare qui, basta un vostro sì per iniziare a muovere passi più decisi». Quei bambini hanno risposto sì e, a distanza di otto anni da una vacanza in Norvegia, sui fiordi, nell'aria leggera e nella natura incontaminata, di un verde intenso, dopo tanti pensieri, altrettanti progetti e molti cambiamenti, un altro volo si è alzato sopra le nuvole.

«La dolce vita non è la nostra. A sera siamo stanchi: la luce continua, in questa stagione, non permette di riposare bene, si perde il senso del tempo. Alle ventuno siamo ancora nel locale e, talvolta, alle due di notte, ci sorprendiamo ancora intenti a fare qualcosa. Non è facile. Forse immaginavamo una vita più semplice, meno impegnativa: non è così. Il tempo non c'è mai, le giornate non bastano. La dolce vita è quella che si nasconde tra le piccole cose d'Italia, che tutti conosciamo perché siamo diventati grandi respirando queste atmosfere: i pranzi e le cene come una festa, a tavola assieme, il caffè ad un tavolino, la possibilità di tirare il fiato e guardarsi attorno, pur con mille problemi. L'Italia è anche questo. Noi vorremmo raccontarlo, a chi a Narvik abita, ma anche a chi vi transita per lavoro o per un viaggio, perché, è vero, la dolce vita non è la nostra eppure non ci manca niente, siamo felici e, soprattutto, guardando avanti, negli anni, non vediamo una nebulosa indefinita, ma una strada, un posto o un tempo verso cui camminare». Nadia, la sera, frequenta i corsi di norvegese organizzati dai volontari della Croce Rossa, e, piano piano, sta imparando la lingua. Riccardo, ormai, conosce le persone che abitualmente varcano la soglia di ingresso del locale e non ha più quel timore che aveva all'inizio, quando le vedeva austere, inespressive, quasi fossero arrabbiate o deluse dal gelato o da quell'affettato. Non lo ha più perché questa è la loro essenza, ma, sulla porta, si voltano sempre e dicono qualcosa di bello sulla loro esperienza. Non a caso, Bruno cita spesso un vecchio detto norvegese: «Meglio farsi perdonare, che chiedere». La musica è in sottofondo e copre i silenzi, la voce bassa di chi conversa nel locale. A Capodanno, invece, i fuochi d'artificio illuminano il cielo e anche nelle case si fatica a sentirsi parlare. Dicono sia un classico, una sorta di tregua dal silenzio.
All'interno di questo locale, l'origano di Pantelleria, i vini della zona di Asti e di Cuneo, l'olio che proviene dall'Umbria, la pasta, molti gusti di gelato, con la frutta ed il latte fresco, al modo in cui Nadia ha imparato l'arte del gelato da sua cognata e come, successivamente, ha studiato, il caffè, quello italiano, per cui non serve il "siru", le essenze di vaniglia e caramello, che vengono miscelate al caffè norvegese, così tostato, così dorato, da essere troppo forte, con un sapore che si cerca di coprire e così via, tutto di origine italiana, fino al pesto ligure con cui vengono condite le bruschette. Qualche tempo fa, il pesto era finito e, per qualche giorno, non sono state servite più nemmeno le bruschette, per quel principio per cui tutto è, per scelta, italiano. «La nostra missione- raccontano Nadia e Riccardo- è quella di portare qui odori e sapori della tradizione mediterranea e provare a diffondere una cultura differente riguardo al cibo. Spiegando, raccontando e ascoltando». Una missione per cui sono necessari tempo e progetti da sviluppare: «L'Italia, purtroppo, a nostro avviso ha smesso di investire sui giovani, sull'istruzione, sulla sanità, e, quando manca questa visione, automaticamente viene a mancare la possibilità di progettare un futuro, allora si va altrove. Oltre che di sci, sono un appassionato di calcio: è già la seconda volta che non riusciamo a qualificarci al Mondiale. Cosa stiamo facendo per modificare questa realtà? Qui ci sono campi a disposizione dei bambini gratuitamente. Lo stesso vale per la scuola. Non una questione economica, ma di immagine e di visione ampia sulla realtà, di sicurezza. L'esempio è pratico: le porte che ci sono qui, basterebbe una spallata per abbatterle, eppure tutti hanno la certezza che non accadrà. Tutto è connesso, si tiene per mano». Già, le connessioni, spesso casuali, tuttavia capaci di legare storie apparentemente distanti.

Allora, Narvik, la città con la stazione ferroviaria più a nord del mondo, con un porto libero dai ghiacci e l'aeroporto, è stata scelta quasi per caso, prima che succedessero tante altre cose: il comune stava rinnovando dei locali che voleva adibire a caffetteria. Nadia e Riccardo conoscono un signore, il cui nonno, nel 1950, in veste di esploratore, arrivò da Bormio, a caccia di pellicce di foca: quell'anziano signore divenne anche console. Il nipote, invece, aiuta la coppia in questo trasferimento, ma non è l'unico. Un'impiegata del comune li sostiene con la ricerca della casa, una delle poche colorate, rossa, in cui ora vivono, e con l'inserimento a scuola dei figli. Si sentono cercati, voluti, a tratti attesi, nonostante il comune abbia altre proposte. Qualcuno ha dato una mano con il trasloco, oppure nel trasporto di un divano. Prezioso, in ogni caso. Fino al momento in cui, come dei paracadutisti esperti, bisogna lasciarsi andare e avere il coraggio di volare: «Non sappiamo come vivranno questa situazione i nostri figli, con il passare degli anni: noi siamo convinti che possa essere una grossa opportunità anche per loro, pur con le difficoltà che sono naturali». Fuori scorrono le ruote delle biciclette che, nonostante le temperature, a volte molto rigide, girano praticamente ogni giorno in gran numero: c'è sempre uno spazio per i bambini e una strada che porta alle Lofoten, dove si tiene la Cicloturistica. Sulle montagne, anche nei mesi di crepuscolo, la neve è sempre pronta ad accogliere gli sciatori, magari con una luce ad illuminare il percorso. Le piste da sci arrivano quasi fino alla città e Riccardo è uno sciatore provetto: quando si scende, pare quasi di sciare sul mare, è suggestivo. Altre volte, sono lunghe camminate ad allietare le giornate, verso i laghi.

"La dolce vita" resta lì, a Narvik, in quel punto esatto, che sembrava casuale, invece non lo è, è perfetto, perché, anche solo cento metri più in là non avrebbe funzionato come, invece, accade, e ogni giorno continua a raccontare: «Ci piacerebbe che questo fosse un angolo in cui mettere da parte gli orologi, le loro lancette ed il ticchettio che pare ci insegua sempre. Perché il tempo che si dedica al cibo, al buon cibo, non è tempo buttato via, non è tempo perso per cui bisogna mangiare di fretta, senza quasi sapere cosa si stia mangiando, senza gustarsi le vivande, senza assaporare il momento. Al contrario, si tratta di un tempo prezioso, però servono anni per impararlo. Dobbiamo dire che qualche segnale c'è e qualcuno, dopo aver sperimentato questa dimensione, la sceglie». Le missioni, si sa, sono affari un poco speciali, per cui serve dedizione e pazienza: un pezzetto di Italia nell'Artico sta provando ad avverare la propria e sembra ci stia riuscendo.


Gioia e la bicicletta

In quel momento, Gioia Fusci desiderava solo una cosa: cambiare. Un verbo particolarmente difficile da declinare quando si è molto giovani, praticamente impossibile durante l'adolescenza, non perché non lo si voglia, bensì perché, in quegli anni, il cambiamento sembra una cosa impossibile: «Da ragazzi pare tutto assoluto, immobile, decisivo, soprattutto le cose negative, quelle che ci opprimono, spesso cresciamo convinti che non ci saranno mai variazioni, quasi rassegnati ad un verdetto. Più grandi scopriamo che, nell'esistenza, di definitivo non c'è praticamente nulla, tutto scorre, tutto cambia, anche molto velocemente, anche in peggio, può succedere, ma cambia. Ora che lo so, è importante che io lo dica». Sì, Gioia desiderava cambiare perché, in molti istanti, aveva avuto la netta sensazione di «aver ricevuto una brutta mano di carte», questo è l'esempio, al momento della nascita, di essere stata, insomma, sfortunata.
Il pensiero è soprattutto alle crisi epilettiche notturne che l'hanno sempre colpita: «A quindici, sedici anni, non è facile lussarsi la spalla sette o otto volte e dover continuamente fare fisioterapia per recuperare. Mi ricordo ancora la sensazione che provavo vedendo una signora di mezza età che riusciva molto meglio di me negli esercizi. Ed io faticavo anche a gestire il movimento necessario per bere una tazzina di caffè». Sarebbe facile lamentarsi, sarebbe facile darla vinta a quel pensiero, che pur bussa alle porte, e lasciarsi andare, autocommiserarsi, Fusci non lo fa. Non glielo permette la famiglia in cui è cresciuta, il comportamento che ha sempre visto tenere dai genitori di fronte alle difficoltà: «Non mi hanno commiserata, avvolta in una protezione che avrebbe bloccato la mia crescita. Non l'hanno fatto perché di fronte alle avversità, che hanno colpito anche loro, hanno presto compreso che l'unica possibilità data agli esseri umani è reagire. A diciannove anni sono partita per Bologna per studiare Veterinaria, a venticinque sono venuta a Pisa: alla fine, penso che sia stato questo il mio modo di rispondere a quel che mi succedeva. Io non mi deprimevo, io mi arrabbiavo».

La bicicletta è arrivata a colmare questa volontà di cambiare. Potremmo dire che Gioia Fusci e la bicicletta si siano trovate a metà strada, nel tempo giusto per capirsi e viversi. Dapprima come un'opportunità per andare dove voleva e quando voleva, per mettere in pausa il tempo e i pensieri, successivamente in maniera sempre più forte e passionale, «come gli amori appena nati, tormentati», tanto da farle dire che, ad oggi, le risulta impossibile pensare ad una quotidianità senza la bicicletta: «Abbiamo tutti bisogno di qualcosa che ci faccia stare bene,a cui attaccarci, aggrapparci. Anni fa, per me, erano i cavalli, ora lo sono ancora ma, restando in tema, in una forma di amore più quieta, simile ai vecchi amori, che mantengono la stessa profondità, ma diversa intensità. Ora è la bicicletta, non so per quanto e nemmeno me lo chiedo. Cambierà forma probabilmente, come tutto il resto, è un dato di fatto, non qualcosa da analizzare». Allo stesso modo, si è modificato il suo stile di vita e alcuni concetti si sono fatti più chiari, più veri, più definiti: quello della fame e della sete, ad esempio. Quando si parte in bicicletta, puntualizza Gioia Fusci, è necessario preparare il cibo e riempire la borraccia, se non lo si fa, se ci si dimentica, poi non ci sono scuse, alternative e il bisogno di acqua e di cibo, in sella, mordono senza ritegno, in una forma che non conosciamo nella vita di tutti i giorni. «Scegliere la bicicletta pone di fronte a un impegno, a una responsabilità, a un ritmo differente delle giornate. In questo aspetto, pur con tutte le differenze del caso, non è così diverso dalla decisione di avere un cane. Se esci quattro o cinque in bici e non programmi prima, ti ritrovi svuotato e non vai più avanti. Ho presente, come stesse accadendo ora, quando mi è successo al Campionato Italiano di cronoscalata. Una rivale mi ha passato una borraccia ed io l'ho stretta a più non posso, era la mia salvezza, era tutto quel che mi serviva e che mi mancava».
Se ci si riesce, però, e Gioia ci è riuscita, si può arrivare ad ottenere quella "rivincita" che tanto si cercava, in cui, in fondo, si sperava. Nel settembre di due anni fa, Fusci riesce a scalare per due volte lo Stelvio. In cima non vuole crederci, guarda il panorama e le sembra impossibile: «Mi sono detta che andavo bene così, che anche il male era servito, era stato un percorso. Alcune volte, quello che abbiamo dentro non ci piace, quelle sono le occasioni in cui quel che facciamo può riappacificarci con noi stessi e con l'esterno ed essere orgogliosi. Cosa era riuscita a fare quella ragazza che si era lussata otto volte la spalla: imperfetta, certo, come tutti, ma un poco meno imperfetta di prima. L'importante è non rassegnarsi alle situazioni come ci sono date: si fa quello che si può con quello che si ha, provando a migliorarle ed a migliorarsi, in una ricerca costante». Per alcune cose vorrebbe assomigliare a sua madre, per altre a suo nonno, è certa del fatto che ciascuno sia meglio di noi in qualcosa e se ci rivolgiamo a quella parte possiamo imparare. Dice che su alcune strade di casa «ha fatto il solco» a forza di percorrerle per allenarsi, qualche amico scherza: «Fai il criceto!», riferendosi alla ripetitività del gesto, al sacrificio, alle gare che non vanno bene e alla delusione del momento: «Uno dei miei modelli è Elisa longo Borghini: una volta, dopo una Liegi-Bastogne-Liegi, disse: "Beh, l'anno prossimo ce ne sarà un'altra. La rabbia quando va male è naturale, ma non si può permetterle di rovinare tutto, serve solo a trovare una soluzione per crescere».

Lei ha imparato a differenziare gli allenamenti, i giri in bicicletta e a fare di ogni viaggio un'occasione per visitare un luogo nuovo, a costo di allungare di qualche giorno la permanenza: ha esplorato così la Sardegna, Tivoli e lo Stelvio stesso. Si rivolge in particolare ad altre ragazze, ad altre donne, perché crede che la bicicletta sia, fra le altre cose, uno strumento di emancipazione: «Sono veterinaria, mi occupo di cavalli e, purtroppo, per quanto siano sbagliate, ho fatto l'abitudine a certe cose: essere chiamata signorina invece di dottoressa solo perché si è donne e si è giovani, sentire pazienti che chiedono dove sia il dottore, senza nemmeno considerare che sei tu. Ormai mi scivolano addosso queste cose, ma è sbagliato. Come è sbagliato sentire uomini che sostengono che atlete donne, a tirare in testa al gruppo, in testa al gruppo, "facciano il buco", è un pregiudizio, è ignoranza. La bicicletta emancipa perché ci ricorda una volta di più quanto possiamo fare da sole, le nostre capacità, la nostra autonomia e la nostra libertà».
Quel male che ha vissuto giù dalla bicicletta le ha permesso di conoscersi e, oggi, sa di lei cose che nemmeno immaginava, soprattutto ha capito quanto molte cose scontate, in realtà, scontate non siano: «Si arriva così ad apprezzare il valore di quel che c'è. Personalmente prendo una pastiglia al mattino e una alla sera per riuscire a stare come sto: la bicicletta, a mio avviso, è una magnifica celebrazione della salute, dello stare bene. Guardare una persona in bici deve ricordarci la bellezza del nostro corpo, le sue possibilità e tutto quel che impara continuamente. Sarà per quella sensazione che ho provato da giovanissima, della brutta mano di carte ricevuta in dono, ma tutto questo mi sembra enorme. Così dalla bici non riesco a stare lontana».

Foto Federico Biasci


Il sogno delle cinque gare più dure al mondo

Il giorno in cui suo padre, ciclista e appassionato di ciclismo, gli ha regalato la prima bicicletta da corsa, la reazione di Giorgio Emanuel è stata un misto di paura e di "odio" verso quel mezzo che aveva sempre vissuto in casa e a cui addossava diverse colpe, quella di non giocare a calcio come tutti i suoi amici, ad esempio. Dietro casa, c'era il campo in cui lavorava suo nonno e un trattore appena avviato, Giorgio corse da lui, con la bicicletta sotto mano: «Nonno, per favore, tagliala, distruggila, passaci sopra con il trattore, però portala via da me. Non la voglio e basta». Quell'uomo, ora malgaro, aveva avuto una vita piena e difficile: a causa dei bombardamenti, subiti in guerra, non sentiva bene e, a causa di una scarica elettrica che l'aveva colpito nei campi, poteva camminare solo molto piano, a piccoli passi, eppure, quando parlava delle sue montagne, tutto passava in secondo piano. Le montagne sapeva anche odiarle, per i loro inverni freddi, per la neve "cattiva", i ghiacci e gli animali, ma da lì non se ne sarebbe mai andato. Ogni tanto, si sedeva con Giorgio, nei campi dei pascoli, e con la mano iniziava ad indicare: «Vedi l'Argentera? Se osservi bene, noterai due punte, ecco, quello in mezzo è il Corno Stella». Sembra di sentirla ancora oggi la sua voce e quelle descrizioni, quei racconti. Per questo, quel giorno chiese a lui di distruggere quella bicicletta, perché si fidava ciecamente, ed il nonno disse solo «abbi pazienza, ancora un poco di pazienza» eppure, col suo tono, quasi lo convinceva, come già gli era successo, quando aveva iniziato a pensare che di tutte quelle montagne, segnate da quelle dita, avrebbe voluto esplorare la cima, poi tornare a raccontargliela.

La prima mountain bike, qualche anno dopo, forse era più simile al suo carattere, libera nei boschi, fra la terra e le pietre, "più feroce", ma, alla prima gara, cadde male e suo padre gliela levò di mano. Pareva finito tutto lì, mentre giocava a beach volley in spiaggia e la nazionale di tiro con l'arco lo convocava. Finito? Sì, almeno sino ai diciotto anni. «Lo sappiamo bene, è l'età della patente, delle serate in discoteca: dormivo due ore per notte e, al mattino, mi presentavo agli allenamenti con gli occhi gonfi e la testa frastornata. I miei genitori lavoravano e non riuscivano ad accompagnarmi ovunque per le gare: presi quella scusa e cercai di convincerli che era meglio rinunciare al tiro con l'arco. In realtà, non avevo la testa per una carriera professionistica e non avere la testa, a certi livelli, significa non avere la stoffa. Preferivo divertirmi in spiaggia e non pensare a nulla». A suo padre, però, di quelle sensazioni di ragazzino alle prese con la prima bicicletta, di quella sofferenza, non aveva detto nulla e non ha mai detto niente: «In fondo, lui mi sognava in quell'ambiente, già non ero riuscito a realizzare il suo sogno, mi sembrava profondamente ingiusto ferirlo, spiegando questo dolore. Alla fine, col senno di poi, sarebbe stata anche una ferita inutile, perché la bicicletta è ancora nella mia quotidianità».

La bicicletta l'aveva portata sulle vette, ma, in quel senso, era quasi diventata un limite, nonostante ci avesse percorso il Cammino di Santiago, perché su certe cime è necessario essere soli, altro non serve, è troppo. Era stato un breve ritorno, l'ennesimo. Le cime delle montagne le ha esplorate scalando, arrampicando, assieme a Maurizio, amico e maestro, e ora è sicuro che nonno non aveva inventato proprio nulla, era tutto vero, un misto di saggezza e di esperienza. Poi una proposta di lavoro da parte dell'azienda in cui era cresciuto, un lavoro lontano, in Cile, nelle centrali idroelettriche, il rifiuto, un nuovo lavoro e un posto di responsabilità. Giusto due settimane dopo, un dialogo con un amico.
«Sai, voglio fare l'Iron Bike. Mi aiuti?».

«Giorgio, ma sei tutto matto. Hai fatto una vita ad arrampicare, come pensi di fare? Dai, si tratta di una sciocchezza».
«No, non mi interessa. Voglio farlo, semmai cammino con la bici fra le mani. Mi aiuti? Sennò faccio da solo».
Quell'amico, messo alle strette, l'ha aiutato, lungo nove mesi di preparazione e, alla fine, il giorno delll'Iron Bike è arrivato, proprio poche mattine dopo il giorno in cui Maurizio se n'era andato per sempre, durante una scalata all'Himalaya, e non sarebbe più tornato. Una mattina sin troppo triste, dopo tanta attesa: le montagne di casa, il ritmo della pedalata, il respiro affaticato, la fatica che morde, l'unico modo per non pensare e, all'arrivo, un'emozione difficile da raccontare che ricorda ancora oggi, mentre ripensa a tutte le volte in cui anche lui ha odiato le montagne, che pur ama, e la bicicletta, che pur era tornata: «La bicicletta insegna la pazienza, i tempi sono lunghi, per andare da una città all'altra o per scalare il Colle Fauniera. Anche a me è capitato di pensare di tornare indietro, per la stanchezza o la noia, non l'ho fatto come non lo fa quasi nessuno in bicicletta. Per me sono stati preziosi gli insegnamenti dei miei genitori, mi dicevano: "Non devi subire la vita. Le scelte sono materiale complesso, difficile, anche rischioso, se vogliamo, però gli esseri umani hanno il dovere di scegliere, non di essere perfetti: noi vogliamo che tu scelga e puoi scegliere quel che preferisci, senza giudizio alcuno, ma una cosa vorremmo la ricordassi. Devi essere responsabile delle tue decisioni e provare a portarle fino in fondo". Quando una salita è troppo tosta, ci ripenso». Gli capita al colle di San Bernardo del Vecchio, dove pedala almeno una sessantina di volte l'anno, nella chiesetta lassù, gli è successo sul Galibier, sulla Bonette, soprattutto nelle gare in condizioni maggiormente estreme. Sì, perché l'idea a cui ha dato vita in cui è sfociata questa storia è stata quella di competere nelle cinque gare più dure al mondo: ha gareggiato in Nepal, in Europa con l'Iron Bike e, se non ci fosse stata la pandemia, sarebbe partito per una corsa in Australia che, ora, non si svolge più. All'Atlas Mountain Race, in Marocco, forse, i momenti più difficili: «Alle due di notte, le mie gambe sprofondavano in mezzo metro di neve. Contavo di arrivare al "campo uno" in sei ore, ne ho impiegate dodici. Chi me lo fa fare? Non lo so, però so che farlo è l'ultimo passo. Penso che alle persone sia necessario raccontare l'emozione del percorso, della volontà, del progetto. Forse è quella che spinge a fare cose che razionalmente difficilmente si capiscono, come l'ultracycling che costringe a non dormire ed a pedalare nel buio della notte». Suo padre è sottilmente orgoglioso di questo figlio pedalatore, ma non è abituato a mostrarlo, anzi, a volte, gli dice che è un folle, come quando, su una fettuccia sospesa a tremila metri, in Valle Varaita, percorse, a piedi, lo spazio tra due montagne, però, racconta a tutti le sue avventure: «Al bar, con gli amici, divento una sorta di figlio-eroe e le mie avventure sono vere e proprie imprese. Mi ricompensa di quel dolore che, forse, gli ho dato anni fa ed è bellissimo così»,


Pauliena Rooijakkers raccontata dalla sua compagna di camera

Appena rientrata al bus della squadra, una ciclista, con ancora il casco in testa, il numero attaccato alla maglia e gli scarpini addosso, ben prima di entrare in doccia, afferra prontamente lo spazzolino, vi mette il dentifricio e si lava subito i denti. Il rito si ripete ogni giorno, dopo una gara. Qualcuno le chiede il motivo di questa abitudine, inusuale, bizzarra, lei, con naturalezza, risponde: «Sono infastidita dal sapore dei gel che utilizziamo in corsa, non voglio che mi resti in bocca, così cerco di eliminarlo subito, lavandomi i denti, prima di ogni altra cosa». Noi non lo sapevamo, ce lo ha raccontato Greta Marturano che, al Giro d'Italia, era compagna di camera, oltre a essere compagna di squadra, di questa atleta: parliamo di Pauliena Rooijakkers. Nata il 12 maggio 1993, a Venray, nei Paesi Bassi, Rooijakkers è professionista dal 2012, ai tempi della Boels Dolmans. Diversi team nel corso degli anni, dalla Parkhotel Valkenburg, alla CCC Liv, alla Liv Racing, fino alla Canyon-SRAM Racing, due anni fa, nel 2022. Proprio in quell'occasione ebbe modo di soffermarsi sulla bellezza del capitare, dopo varie esperienze, in una squadra in cui le componenti non fossero tutte olandesi, ma provenienti da varie nazioni, con abitudini diverse e differenti modi di guardare al mondo. Sì, perché, spiegò, quando accade ed è possibile restare quel che si è, non ci si sente strani e si comprende che, alla fine, si è, se si vuole, solo particolari ed è un piacere saperlo. A inizio anno, in ritiro a Benicasim, in Spagna, Rooijakkers e Marturano lavoravano in due gruppi differenti, in considerazione della data in cui avrebbero iniziato la stagione, ma un giorno, in una pedalata, Pauliena confidò tre cose che amava particolarmente: «Mi disse: "l'Italia, Livigno e la bresaola, in quest'ordine». Poco per dire di conoscerla, ma un inizio". Niente da dire, tutto coerente.

L'abbiamo già detto, anzi scritto, non è un nome nuovo quello dell'olandese, almeno per chi segue con attenzione il ciclismo, ma, se negli ultimi periodi se ne parla con più frequenza è per il podio conquistato al Tour de France Femmes, terza dietro a Kasia Niewiadoma e Demi Vollering. Protagonista nella giornata più dura, dolce e drammatica allo stesso tempo, tra Glandon e Alpe d'Huez, il giorno in cui avrebbe anche potuto vincerlo quel Tour, precedendo Vollering. A quel punto, da sole all'attacco di Niewiadoma, per qualche minuto anche Rooijakkers ha pensato alla maglia gialla: era la prima volta. Di sicuro non ci pensava a inizio settimana, quando Marturano le scriveva il suo in bocca al lupo: «Non sarà lo stesso senza la mia compagna di camera preferita». Rispondeva così. Simili Marturano e Rooijakkers, almeno nel modo di tenere la camera e per condividere uno spazio comune per giorni e giorni è necessario, altrimenti si accumula altro stress fuori corsa ed è altro spreco di energie: «Siamo entrambe precise, ordinate: se aprivi la porta della nostra camera, sentivi profumo di pulito. Io sono molto, ma davvero molto, più timida di lei, Pauliena è spigliata, ma ha anche qualcosa della mia timidezza: la capacità di selezionare, di non darsi, di non raccontarsi a tutti indiscriminatamente. Sceglie le persone con cui parlare e può non dirti proprio nulla, se non vuole, se non si fida. In camera non abbiamo mai parlato una volta della tappa del giorno stesso o di quella del giorno successivo. Non abbiamo mai riguardato una corsa. Ci isolavamo così, recuperavamo così».

Al Giro d'Italia Women, Rooijakkers ha terminato appena giù dal podio, quarta, ma c'è un altro quarto posto particolarmente significativo, quello raggiunto al Blockhaus, nella sesta tappa, la frazione regina. Si sente a proprio agio su salite lunghe e anche questa non è una sorpresa, forse lo è maggiormente sapere che, un paio di anni fa, per preparare il suo fisico a quella fatica pedalava in spiaggia, di più, ha vinto un campionato europeo di MTB Beach Race. In entrambi i casi, analizzava Rooijakkers, è necessario sviluppare molti watt e soffrire: su una rampa verticale o nella spiaggia e nel vento che arriva dal mare. Rooijakkers e Marturano hanno il medesimo preparatore ed i lavori che si trovano a compiere sono simili, essendo anche entrambe scalatrici,così capita che si confrontino sulla propria condizione: «Anche in ritiro è accaduto. Magari continuavamo a sorpassarci a vicenda in salita e a me scappava da ridere, non era competitività, era un gioco. Non ho mai sentito una volta Pauliena sbuffare o lamentarsi per qualcosa che non funzionava: è una vera e propria leader, riesce a prendere la realtà con leggerezza e divertimento, e chi è più giovane ha tutto da imparare. A me piace ascoltarla perché rappresenta il modo in cui deve essere una capitana, a mio avviso». Al Giro, il ruolo di capitano era condiviso da entrambe, al Tour, invece, «nonostante in giro si dicesse altro», era proprio Rooijakkers la capitana.

«Quando caddi, al Giro, fu Pauliena la prima a preoccuparsi per me. Mi chiedeva un sacco di volte al giorno come stessi. Tra l'altro, per me, a causa del Covid, non è stato un bel Giro. La sera del mio ritiro mi ha scritto un messaggio: "Non pensare a come stai ora, a quel che è successo, a queste sensazioni. Tornerai presto. A testa alta". Tutte le volte in cui ci siamo confrontate sui numeri, devo essere sincera, lei credeva nei miei più di quanto ci credessi io, ma sapevamo entrambe di avere dati buoni e, con quei dati, la squadra aveva ben chiaro dove potesse arrivare Pauliena». La stessa squadra che conosceva alla perfezione la tappa dell'Alpe d'Huez al Tour, quella che Rooijakkers ha subito ringraziato a fine corsa, per il ritiro in quota insieme, per i piccoli lavori quotidiani, che nessuno vede ma ci sono, per il cibo e tante altre cose. In Fenix-Deceuninck, ha precisato, non esiste separazione tra squadra maschile e femminile ed è questo scambio reciproco che porta alla crescita. Per il resto, su tutto quel che c'è da migliorare si può lavorare.

Greta Marturano torna con il racconto al ritiro che ha preceduto il Giro d'Italia: «Erano i giorni del mio compleanno ed io ero abbastanza giù di morale, lontana da casa, senza la possibilità di festeggiare. Pauliena Rooijakkers l'ha saputo, ha preso la propria macchina, è andata al supermercato, ha comprato i miei biscotti preferiti e ha organizzato lei una festa, così, quando sono scesa a pranzo, c'era una grande scritta di auguri e un banchetto. Mi piace raccontarlo perché parla della persona prima che dell'atleta». Alla conclusione del Tour, al messaggio di Marturano, Rooijakkers ha risposto con poche parole: «Grazie per il sostegno. Avanti così, verso i prossimi traguardi». Niente da aggiungere, ha detto tutto Pauliena.

Foto: Sprint Cycling Agency


5 cose dal Tour de France Femmes

Il Tour de France Femmes 2024 va in archivio. A vincerlo è Kasia Niewiadoma su Demi Vollering e Pauliena Rooijakkers. Nelle pieghe della corsa, cinque aspetti -o forse giusto qualcuno in più- che non potevamo non raccontare.

«NOI, COME DONNE, CE L'ABBIAMO FATTA. SIAMO QUI!»

"Quello che mi porto a casa da questo Tour de France Femmes è che noi, come donne, ce l'abbiamo fatta. Siamo qui": sono parole di Sofia Bertizzolo, UAE Adq, al primo Tour de France. Anzi, sono parole di Sofia Bertizzolo nel giorno del ritiro dal Tour, la prima corsa a tappe che non riesce a concludere. Insieme a questa riflessione, considerazioni su tutte le persone ad attendere la corsa in strada, ad aspettare il gruppo, per festeggiarlo: a Rotterdam, alla grande partenza, in pianura, in tappe senza grandi sorprese e sui tornanti dell'Alpe d'Huez. Anche in questo, ce l'hanno fatta le donne, soprattutto le donne, e non può essere dimenticato. Ce l'hanno fatta con la fatica ed il merito, perché è così che si fa, ce l'hanno fatta con i sacrifici e le sconfitte, ce l'hanno fatta, anche, va detto, con un patrimonio di piccole e grandi ingiustizie quotidiane che non riguarda solo lo sport. Ma qui di ciclismo si parla. Ed il ciclismo, come lo sport e tutta la quotidianità, è anche (ci piacerebbe dire soprattutto) un fatto di cultura, di conoscenza e consapevolezza. Non esiste altra possibilità per farcela e per fare in modo che, in ogni domani, ci siano sempre più donne a farcela, con lo stesso merito, ma con un punto di partenza uguale e con sacrifici ripagati allo stesso modo, con un lavoro ripagato allo stesso modo. Non ci si può fermare di raccontare. Chi conosce si interessa, chi si interessa scende in strada, chi scende in strada, chi accende il televisore o chi legge un articolo conosce e solo conoscendo si può contribuire ad una realtà diversa, forse, più giusta. Per questo, a nostro avviso, non esiste considerazione sulla corsa, senza questa considerazione madre.

ESSERE KASIA, ESSERE DEMI

Nel tardo pomeriggio di domenica, diciamo verso le diciannove, davanti ad un televisore o sulla linea del traguardo, non sapevamo più cosa pensare, cosa provare. Il punto è che, in quell'istante, a battaglia finita, eravamo tutti sia Kasia Niewiadoma che Demi Vollering, ci riconoscevamo sia nell'una che nell'altra. Allo stesso modo. Nella gioia incontrollabile di Niewiadoma per la conquista del Tour de France, dopo un inseguimento infinito (più di cinquanta chilometri, tra Glandon e Alpe d'Huez) e dopo tante, forse troppe, delusioni, tanti, forse troppi, secondi posti, vittorie sfiorate e lasciate andare. Non esiste nessuno che non ne capisca la portata, il significato, che non possa immedesimarsi, anche in chi non ha mai pedalato. In egual maniera, tutti possono comprendere il "non è abbastanza" detto tra le lacrime di Vollering, a terra, sfinita, con in mano una vittoria tanto bella quanto apparentemente inutile, un'impresa degna delle più grandi imprese del ciclismo che si realizza a metà e lascia il vuoto. Senza quella caduta, Vollering avrebbe vinto il Tour? Probabile. Sicuramente la corsa avrebbe avuto un altro svolgimento, ma le cadute sono parte della corsa. Non sono, invece, necessarie troppe analisi e non occorrono dietrologie, per dire che, nei meccanismi di Sd-Worx, nel giorno della caduta di Vollering, qualcosa non abbia funzionato, perché, se la maglia gialla cade, qualcuno ad attenderla dovrebbe esserci sempre. Un problema alla radio? Un errore di comunicazione? Non serve neppure parlarne ora. Domenica eravamo tanto Kasia Niewiadoma che Demi Vollering, dimezzati eppure interi. Accade con i libri e accade con lo sport: si vivono più storie, più vite.

LA FAVOLA BELLA

La prima volta che abbiamo scritto di Pauliena Rooijakkers, in questo Tour de France, era dopo la tappa di Morteau, quella vinta da Cèdrine Kerbaol: Pauliena era da sola, da un lato delle transenne, a piangere, mentre la festa di Kerbaol esplodeva. Sentiva di aver perso un'occasione, visto che al momento dello scatto della francese era stata l'unica a crederci. Lo scatto del giorno seguente, verso le Grand Bornand era un tentativo di rimediare a questa possibilità andata in fumo. Ma la vera favola bella di Rooijakkers si realizza nella fuga infinita di Demi Vollering verso l'Alpe d'Huez, quando l'unica a tenerle la ruota è proprio lei. Tutti parlano del testa a testa tra Niewiadoma e Vollering ma, se Rooijakkers precede l'olandese al traguardo, il Tour è suo. Non succederà, finirà al secondo posto di tappa e terza in classifica generale, tuttavia sarà comunque una favola bella. Non è un nome nuovo quello di Rooijakkers: solo un mese fa, al Giro d'Italia Women, ha concluso quarta e, a trentuno anni, le sue caratteristiche, già ben conosciute nel plotone, stanno ancora evolvendosi. Le salite lunghe le piacciono, ma alla maglia gialla non pensava nemmeno. Ha ringraziato la squadra, ha detto di dovere molto alle sue compagne ed in effetti Fenix Deceuninck è uno dei team che meglio si sono mossi in questo Tour de France Femmes: Yara Kastelijn e Julie De Wilde, tra le altre, le sono sempre state al fianco. Di Puck Pieterse nemmeno parliamo. Sì, perché il paragrafo successivo è dedicato proprio a lei.

LA PRIMA DI PUCK

Da Valkenburg a Liegi, nei luoghi simbolo delle Classiche, Puck Pieterse, ventidue anni, ha sfidato con piglio e senza alcun timore la maglia gialla Demi Vollering e, in una volata all'ultimo respiro, ha strappato la prima vittoria su strada tra le élite, lei che è specialista di cross e mountain bike. L'anno scorso, il sesto posto alla Strade Bianche aveva già messo in risalto le ulteriori potenzialità di questo giovane talento, qui l'esaltazione e la conferma, ammesso che servisse, con giusto otto giorni di gara prima del Tour. Tuttavia, raccontare il Tour di Pieterse è discorso ben più complesso del racconto di quella vittoria: una maglia a pois conquistata e difesa per diversi giorni, spesso in sprint a due con Silvia Persico, prima che passasse a Justine Ghekiere, e la maglia bianca finale che la consacra miglior giovane del Tour de France Femmes, davanti a Shirin van Anrooij e Marion Bunel. Inciso: occhio anche a Bunel che, dopo la vittoria di Alpes Grésivaudan Classic, a giugno, quando la strada saliva, si è messa in mostra anche in Francia. Tornando a Pieterse, anche Mathieu van der Poel le ha dedicato una storia instagram e molti hanno parlato della sua vittoria, quasi fosse un auspicio di futuro. Nel ciclismo capitano talenti assolutamenti "multiformi", dalle diverse sfaccettature e possibilità, e, quando si manifestano, tutti respirano a pieni polmoni, a prescindere dalla nazionalità o dalla squadra. Sì, perché servono, come l'aria, e fanno bene a tutti. A chiunque guardi, a chiunque si esalti.

TOURBILLON

Sì, Tourbillon, ovvero chicche, note, appunti alla rinfusa. Un poco di tutto quello che ci ha colpito.

-Le volate sono il regno di Charlotte Kool, due su due e la maglia gialla dopo la prima. Una sorta di sogno. A inizio anno avevamo parlato con Rachele Barbieri di come si sarebbe strutturato il treno di firmenich-dsm, ora abbiamo la risposta. Allo stesso modo sappiamo del feeling tra Kool e la sua ultima donna, tra Kool e Barbieri. L'abbiamo visto in volata, l'abbiamo visto nei giorni più difficili di Kool, quelli che hanno preceduto il ritiro. Sempre lì, a scandire il ritmo, a sostenere, ad aiutare, solo con la presenza. L'ultima donna è anche questo.
-Marianne Vos è sempre più "regina": trentasette anni, sempre nelle prime posizioni nelle tappe a lei adatte, in fuga, sin dai primi chilometri, anche nelle tappe più dure per conquistare punti preziosi per raggiungere il proprio traguardo. Alla fine, la maglia verde della classifica a punti è sua.
-Il grazie qui lo dobbiamo a Andy McGrath che, sul proprio profilo X, ha scovato una chicca: provate a mettere in fila i piazzamenti di Sarah Gigante a questo Tour de France Femmes. Cosa notate? 117-84-56-34-30-25-11-8. Esatto, una crescita costante che l'ha portata a chiudere in settima posizione in classifica generale. Un gran bel Tour, non c'è che dire.
-Azzurre? A fine Tour, in classifica generale sono da segnalare il quinto posto assoluto di Gaia Realini ed il dodicesimo di Erica Magnaldi. Silvia Persico ha provato a lottare per la maglia a pois, Cristina Tonetti, invece, l'ha vestita ed è stata la prima italiana a indossare una maglia di leader di una classifica dal ritorno del Tour.
-Impossibile non menzionare due veri e propri numeri: quello di Cèdrine Kerbaol a Morteau e quello di Justine Ghekiere a Le Grand Bornand: fantasia, coraggio e intraprendenza. Buone doti per una ciclista.

Foto: Sprint Cycling Agency


Reverb Hub, Bergamo

Il volo degli aerei sopra la città di Bergamo può essere un'ispirazione perché da lì, dall'alto, attraverso lo scrutare degli occhi ed il rimando delle loro immagini elaborate dalla mente, riescono a nascere e svilupparsi idee e progetti e, cartina alla mano, dalla crescita, dalla maturazione, delle idee e dei progetti si fanno largo, si fanno spazio i viaggi. Il signore irlandese che ora si sta arrampicando sulle strade del Passo San Marco, in sella alla bicicletta noleggiata stamani da Reverb Hub, in via Casalino 5/N, a Bergamo, non è stato il primo a rivelarlo a Federico Bassis che, in questo momento, attende il suo ritorno tra le pareti in legno e quelle in stile industriale di questo luogo fisico, in linea con i colori del marchio 3T, materializzazione di un pensiero, in cui trovarsi per andare altrove. Milano è a poco più di mezz'ora di strada: chi pedala può fermarsi tra queste strade, conosciute attraverso le imprese vissute guardando il Giro d'Italia ed Il Lombardia, la famiglia, invece, può ampliare la propria prospettiva e recarsi in città, magari con i figli, per trovarsi nuovamente a sera. Incontro e dispersione, dopo una condivisione: ci sono gli aeroporti di Milano e Venezia che esplorano i cieli e c'è la ciclabilità urbana e del circondario che setaccia le strade. «Credo sia necessario curare la cultura della bicicletta e del viaggio in bicicletta. In quest'ottica, penso ai cartelli lungo le ciclabili di Bergamo, che non solo indicano il percorso ma lo raccontano anche. Il turista non si sente solo, abbandonato, ma accompagnato. Guardiamoci attorno: vediamo la fascia delle Prealpi con salite che arrivano fino agli 800 metri di altitudine, pedalabili, da gustare lentamente, senza fatica, e poi le salite dure, fino ai 2000 metri, verso le vette, con venti o più chilometri a massacrare i muscoli. La realtà c'è, va conosciuta».

Reverb Hub ha due anime, da una parte il noleggio, «che non è semplicemente e solo prendere una bicicletta in prestito», dall'altra la comunità del Reverb Team, secondo il manifesto e le parole chiave, sotto la cornice "together", insieme, ovvero divertimento, socialità, esplorazione, apertura, alla ricerca di un ciclismo inclusivo e non categorizzante. «Noleggio, a nostro avviso, significa far capire quel che è possibile fare con una bicicletta. Vorremmo trasmettere consapevolezza, aiutare a comprendere, per questo non noleggiamo per mezza giornata, perché servono ore, serve tempo. La nostra chiave di lettura è il legame con il territorio, non chiusura, ma capacità di credere a quel che si ha attorno: solo così è possibile essere internazionali. Senza radici non esiste universo. La trasmissione di qualcosa è la base perché nasca la voglia di andare ed il desiderio di tornare, una sorta di circolo virtuoso, il miglior lavoro che si possa fare».
L'aspetto connesso alla comunità viene curato attraverso ride infrasettimanali e uscite nel fine settimana, dedicate a tutti e, forse, soprattutto agli abitanti della città che ancora non l'hanno esplorata, come spesso accade con quel che è più vicino, a portata di mano o di ruote e pedali. Bassis cita, a titolo di esempio, la zona della Valcava, il laghetto del Pertús, Calolzio Corte, la Valle Imagna, la Costa del Palio ed i Piani di Artavaggio, senza scordare la possibilità di fare portage lungo i fiumi di montagna, in alta quota.

Quel signore irlandese è arrivato qui con delle domande e questo è sempre positivo perché da qui passa la conoscenza e quindi la consapevolezza: «Le richieste spaziano dal peso, alla tipologia di ruote che si possono montare, fino all'alluminio piuttosto che al carbonio o al gruppo elettronico o meccanico in uso. Talvolta, quando si tratta di persone provenienti dall'estero, la corrispondenza inizia già via mail, da giorni prima. Anche questo è un passo in più verso il cliente, qualcosa che possiamo permetterci non avendo una flotta di bici da noleggiare troppo ampia. Si tratta di minuti preziosi dedicati a ciascuno che, da una parte dimostrano il nostro interesse nei suoi confronti, dall'altro permettono di non trovarsi soli di fronte al mezzo e al suo settaggio. Sono sufficienti delle misure corrette della bicicletta per cambiare completamente l'esperienza e dimostrare cura nei confronti del singolo». Ognuno, infatti, ha le proprie esigenze, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche rispetto al tipo di viaggio che immagina, ai sogni che ha proiettato sulla bicicletta. Sicuramente Bergamo ha una grossa tradizione di ciclismo su strada e ogni paese vanta una propria squadra amatoriale, tuttavia, nel tempo, si è rilevato un vero e proprio cambio generazionale: i gruppi della domenica, racconta Bassis, ci saranno sempre. Sono coloro che salgono in sella alle otto del mattino, hanno un giro predefinito, con salite classiche, e, intorno a mezzogiorno, tornano a casa.
«Quando parlo di nuova generazione, non mi riferisco tanto ad un fattore di età, ma di abitudini e desideri. La nuova generazione è quella che si è stancata di quel giro sempre uguale e in bicicletta ha scelto l'esplorazione. Sono coloro che vengono alle ride del giovedì e cercano luoghi lontani dal traffico, nella natura». La bicicletta, poi, è lo specchio di quel che si vuole: il gravel è legato spesso a un pubblico più giovane, la bici da strada a un utente di media di quarant'anni di età, spesso anche a stranieri in viaggio di lavoro che, la sera prima di partire, si cimentano in una pedalata più performativa, in generale c'è molta curiosità anche per l'e-bike light, che permetta un'assistenza fluida e dei giri più lunghi, nonostante gli anni che passano.

L'ingresso da Reverb Hub presenta uno spazio libero con un televisore dove è possibile seguire il Giro d'Italia, il Tour de France o qualunque classica: questo è il luogo dell'accoglienza, per le ride e non solo, dove c'è una macchinetta del caffè, qualche bevanda, dove si può ascoltare musica e venire in qualsiasi orario per trascorrere del tempo libero. Il resto del negozio mostra un doppio volto, da un lato, in un corridoio, il lato espositivo, dall'altro quello dedicato al noleggio bici. Il Team Reverb si cimenta in gare e avventure lungo tutto l'anno, dalla gara Uci, al bikepacking in Patagonia sino al bike to work: il luogo fisico dell'hub è importante anche in questo senso perché è il punto in cui confluiscono tutte le persone, tutti i ciclisti, ed in un certo senso contribuisce alla possibilità di riconoscersi, come, in altro modo, fa il tesseramento in una squadra. «Tutti pedaliamo ed è importante farlo in modo rispettoso ed inclusivo. Purtroppo, credo che spesso il ciclismo sia ancora settario, fondamentalmente perché si teme la contaminazione, non si comprende quanto possa essere bella e preziosa. Faccio un esempio: molte persone che si dedicano al gravel, hanno scelto questa strada perché stanche di un mondo troppo performante. Ora, secondo me, però, si sta cadendo in un errore: anche loro temono l'incontro perché hanno paura che il mondo da cui sono fuggiti possa tornare ed intrufolarsi nel gravel. Dall'altra parte, coloro che sono maggiormente dediti alla strada sostengono che il gravel, essendo anche divertimento, sia una perdita di tempo. Penso sia sbagliato, bisogna, invece, provare a coinvolgere tutti, perché la bicicletta, pur in tutte le declinazioni, è una sola».

L'hub è il luogo in cui è fissato un appuntamento e gli appuntamenti contribuiscono a smuovere, a togliere la pigrizia che, talvolta affligge. Anche a Federico Bassis, che a un progetto simile aveva già iniziato a lavorare con Bergamo Experience, al fine di far esplorare il territorio e di mettere a disposizione la propria conoscenza, è capitato, qualche volta, al giovedì, al pomeriggio, dopo pranzo, di pensare che, la sera, avrebbe voluto andare a casa, stare tranquillo, rilassarsi. Poi, d'improvviso, la porta si apriva, arrivava qualcuno, chiedeva quale sarebbe stato il percorso di quella serata, iniziava a raccontare di biciclette, e qualcosa si riaccendeva, la voglia tornava. «Ho sempre desiderato fare qualcosa di simile, trasmettere la mia esperienza, raccontare, entrare in empatia con gli altri e condividere un momento. Ora incontro molte persone, sono sempre in contatto con gli altri e, dirò la verità, non mi immaginavo potesse essere così bello, potesse farmi stare così bene».
Sì, alla fine serve sempre un motivo per quello che si fa, per iniziare a farlo oppure, semplicemente, per continuare, con la stessa intensità e la stessa attenzione, per esserne convinti, entusiasti e Federico Bassis ha ben presente dove ritrovare quella scintilla quando, per qualunque motivo, sovviene qualche dubbio: «Basta ascoltare chi entra qui e mi dice: “Grazie per avermi fatto scoprire quel luogo, è stato davvero bello. Te ne sono grato". La gratitudine delle persone è la cosa migliore che possa capitarti. Di fronte a questo, puoi solo dirti e ripeterti: "Ecco perché lo faccio"». A noi sembra che non faccia una piega e non serva aggiungere altro: è perfetto così. E, se qualcosa manca, basta andare da Reverb Hub per completare la storia. Il signore viaggiatore irlandese è tornato, ha riconsegnato la bicicletta, era felice: ora si torna a casa.


La prima Olimpiade: intervista a Chiara Teocchi

Ad un certo punto, lungo il percorso della gara olimpica di Cross Country, Haley Batten, partita abbastanza in fondo, ha raggiunto le ruote di Chiara Teocchi e l'ha chiamata. Teocchi, con la coda dell'occhio, l'ha vista, si è spostata a lato, le ha semplicemente detto "vai": «Mi sono fatta da parte, le ho detto di andarsi a prendere la medaglia che meritava. Non l'avrei fatto per chiunque, tanto più per il fatto che la mountain bike è una disciplina individuale: con Haley siamo state compagne di squadra, in passato, il legame è rimasto e questa è stata l'occasione per restituire qualcosa». Qualche giorno prima della prova, la famiglia di Haley Batten aveva chiesto alle persone a lei più care di registrare un video di auguri: Chiara Teocchi era tra queste. Come lo ha visto, Haley le ha telefonato, piangendo, emozionata.

In fondo, Teocchi sta parlando di sogni e sa bene che, per le atlete, molti sogni coincidono, corrispondono, poi ciascuno li realizza in modi differenti e con tempi diversi. Dice che nell'oro di Pauline Ferrand-Prèvot, all'ultima occasione, prima del passaggio su strada, la prossima stagione, si riconoscono tutte e lei in particolar modo: «Quando eravamo ragazzine, la guardavo e volevo essere lei: per questo ho intrapreso la multidisciplina, per questo, in mezzo alla folla di Francia, in delirio per la sua vittoria, ho sentito una sensazione che credo abbia qualcosa in comune con la sua felicità. Perché ci assomigliamo tutte, abbiamo sperato nelle stesse gioie, a volte temuto le medesime paure. Se dovessi immaginare una vittoria olimpica, la vorrei così, esattamente così. Vicino a casa, alla mia gente».
Allora ci si riconosce, in un modo o nell'altro. Per questo, quando al villaggio olimpico ha visto, accanto a lei, Simone Biles, ginnasta e sua ispirazione, Teocchi ha subito pensato di presentarsi, dirle ciò che provava, abbracciarla e chiederle una foto: «Non l'ho fatto, non ne ho avuto il coraggio, sono semplicemente rimasta a guardarla, pensando che mi sembrava incredibile essere nel suo stesso posto, pensando a quanto sia bello ciò che Biles riesce a fare con il suo corpo». Solo tre incontri, uguali e differenti, dietro a cui si celano storie che, spesso, nemmeno si conoscono. Talvolta difficili, tormentate. Anche quella di Chiara lo è stata e non è poi passato così tanto tempo, eppure, ora, con l'Olimpiade di Parigi e quella top ten sfiorata, undicesimo posto, uno dei migliori risultati dai tempi di Paola Pezzo, tutto il resto sembra distante, di un altro mondo.

Nel 2020, l'Olimpiade di Tokyo era vicina, così vicina da diventare un'ossessione: «La passione non c'era più, era diventata un'idea fissa. Non ero più concentrata sul mio percorso, guardavo tutto quello che facevano le altre atlete, le colleghe e vivevo un costante confronto con loro, su ogni cosa, su ogni singolo dettaglio. Una sorta di inferno: prima perdi di vista la tua strada, poi ti perdi. Di solito accade così». In quel periodo, le viene anche diagnosticato un problema al cuore, una situazione da risolvere tempestivamente secondo il medico: «”Chiara, se non ti operi, non posso rilasciare l'idoneità alla pratica sportiva. Vuoi continuare a pedalare? Dovrai farlo da appassionata, assumendoti tutti i rischi del caso. Altre possibilità non ci sono, punto e basta". Ricordo come ora queste frasi e ricordo il mio tentativo di rimandare l'intervento dopo l'Olimpiade. L'ossessione, la stessa ossessione».
Alla fine, quel medico l'ha operata e all'Olimpiade di Tokyo non è andata, per questione di punteggi, tuttavia, racconta, non sarebbe ancora stata pronta per affrontarla. Serviva un'altra Chiara Teocchi, una versione diversa, una versione migliore, a cui ha lavorato in questi anni: «A Parigi ho vissuto la prima esperienza e la prova dei giochi è differente dalle altre gare, da quelle di Coppa del Mondo: bisogna essere capaci di lasciar scorrere la bicicletta e, per farlo, è necessaria una grande sicurezza in sella che, forse, a me ancora manca. In salita spingevo bene, poi perdevo qualcosa. Credo dipenda anche dai percorsi, solitamente corriamo nei boschi, all'Olimpiade si corre nei parchi, vicino alle città. Devo trovare un luogo simile, crearlo, forse, e allenarmi lì». Ha parlato con Luca Braidot, quarto piazzato nella prova maschile: Luca le ha detto che l'Olimpiade, di fatto, è un progetto, da far crescere negli anni e lei, pensando a queste parole, ha in mente Los Angeles 2028: con un'amica ha provato a prenotare i biglietti aerei, non è stato possibile, perché il massimo anticipo, sulla prenotazione, è di un anno. Sorride, Chiara Teocchi.

«Sono cambiata io, certo, ma, in realtà, in quattro anni cambiano tantissimi aspetti nella vita di una persona. Cambia l'ambiente attorno a te e cambiano anche le persone che hai accanto. Nel mio caso, credo che anche questo aspetto sia stato decisivo: ho sempre avuto accanto persone che mi hanno amata e hanno voluto il mio bene, però non è detto che basti questo per capire davvero quel che significa realmente essere una atleta. Spesso si fatica a comprendere questo modo di vivere e allora iniziano i dubbi. Io credevo di essere troppo emotiva, troppo sensibile, troppo insicura, di non andare bene, così mi paragonavo alle altre atlete. Nel tempo è cambiato anche il mio concetto di "bisogno" degli altri, qualcosa che credo debba essere reciproco, non un gancio a cui aggrapparsi per ritrovare sicurezza in te». Il passo decisivo, in poche parole, quello che oggi la carica di un entusiasmo che fatica a stare nelle parole: «Se penso che, quando mi suona la sveglia al mattino, mi sento orgogliosa di quel che sto facendo, del percorso che sto costruendo, mi sembra incredibile: tutto da un anno e mezzo a questa parte».
Nel frattempo, anche il suo mondo, la disciplina della mountain bike, si sta evolvendo e anche a livello federale si fanno passi avanti, la presenza di uno chef in nazionale, ad esempio, per curare ogni dettaglio, a livello anche di tecnica e di allenamenti, a questo si aggiunge la presenza di nuovi materiali: «Credo l'Italia debba solo adeguarsi al fatto che le cose cambiano, è necessaria questa apertura, per cui, però, serve pazienza, Ci sono nazioni che sono, oggettivamente, più avanti rispetto a noi, la Francia o la Svizzera, ad esempio. In Svizzera, sin da giovani, ci si cimenta su percorsi, aperti, con passaggi tecnici: una scelta del genere è vincente, perché la tecnica non la scordi più. Il nostro è un ottimo vivaio, bisogna collaborare, solo questo». Il percorso riparte, dapprima i Mondiali e, poi, il lavoro che serve per essere a Los Angeles, ad un'altra Olimpiade.

Foto: Sprint Cycling Agency