Palo Alto Bikes, Rivignano
Palo Alto era Palo Alto Market, a Poblenou, Barcellona: una vecchia fabbrica tessile di mattoncini rossi, con una ciminiera che svetta alta nel cielo, il cosiddetto Palo Alto, per l'appunto. Questo spazio, un tempo simbolo dell'industria, oggi pulsa di nuova vita, ospitando giovani artigiani e creativi che ogni mese danno vita a un mercatino, un magico equilibrio tra modernità e tradizione. In Spagna, a Barcellona, Lorenzo Sandrin era arrivato per incontrare Michela, la sua attuale compagna, ma quello strano nome e la scelta di quegli artigiani l'avevano, da subito, meravigliato.
Che a Palo Alto, in California, esistesse già un negozio di biciclette dal nome Palo Alto Bicycles, l'avrebbe scoperto solo anni dopo, quando in via Umberto 79, a Rivignano, in provincia di Udine, i vetri di una piccola vetrina si affacciavano già su un altro Palo Alto Bikes, quello nato dalla sua idea di ricreare quell’atmosfera magica di artigianato moderno. In California, Lorenzo non è mai stato, ma Italo, un signore all'epoca ottantenne, gestore della ferramenta del paese, sì, per trovare suo figlio che vive negli Stati Uniti. «Italo aveva un inglese incerto e le movenze di un padre anziano, ma in quel negozio lontano, riuscì a spiegare che pure nel suo paese c'era una realtà con lo stesso nome. Non so quanto quel titolare, con svariati dipendenti e un giro d'affari importante, potesse essere interessato al racconto della mia storia, ricordo però l'ultima volta che Italo venne da noi e mi narrò questo fatto. Purtroppo Italo non c'è più, ma io lo rivedo orgoglioso come quel giorno e, nella mente, risento la sua descrizione, mentre lo immagino che parla in inglese del proprio paese e del nostro negozio». Così questa è la storia di quel nome curioso, dietro a cui se ne nasconde un'altra, schietta e sincera, come sono i friulani: senza fronzoli, senza retorica.
La verità è che Palo Alto Bikes è nato da una necessità, di più, è nato da diverse insoddisfazioni lavorative. Suo padre faceva il lamierista carrozziere, un mestiere quasi ormai scomparso, dedito alla riparazione degli oggetti in lamiera: che fossero pezzi di una vecchia Alfa Romeo Giulia, di una Lambretta o di un trattore non faceva differenza. Li portava a casa e ci lavorava pazientemente, mentre Lorenzo e suo fratello imparavano. All’epoca uno scooter usato, con qualche sistemazione e una riverniciatura, pareva come nuovo. Lo spazio per tutto questo era l'officina sotto casa, fino a che, un giorno, papà tornò con un telaio in acciaio datato, montato Campagnolo: era il periodo delle biciclette a scatto fisso, della Red Hook. Quell'officina diventò improvvisamente dedicata a quella e ad altre biciclette: Lorenzo montava, smontava, lucidava e costruiva ruote. Michela, di tanto in tanto, passava da quelle parti e le sue parole erano sempre più o meno le stesse: «Che bella la tua manualità, perché non ne fai qualcosa in più? Dovresti provare».
«Di fatto, fu un salto nel buio, un azzardo, seguendo un’ispirazione e un modo diverso di vedere il ciclismo. Ho viaggiato per le principali capitali europee, oppure a Barcellona e Berlino, ad esempio, cercando ispirazione ed imparando tutto quel che potevo captare, per poi applicarlo nel mio progetto. Avevo uno studio di produzione che, però, non riusciva a fornirmi alcun sostentamento a livello economico: dove c'era l'attrezzatura audio, ora ci sono attrezzature per biciclette, la musica degli strumenti è diventata vento tra le ruote e la passione è divenuta un lavoro».
Palo Alto Bikes è cresciuto di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno: nel primo periodo vi trovavano casa biciclette molto standard, ora in esposizione è possibile trovare brand di nicchia (come BROTHER Cycles, O.P.E.N. e Bombtrack) e qualche ruota in carbonio assemblata a mano. Col tempo sempre più persone sono arrivate qui attratte dalla passione e dalla cura che Lorenzo mette nel suo lavoro. L'attenzione di Lorenzo è stata quella di rimanere al passo coi tempi, ricercare prodotti e soluzioni interessanti e dedicare tempo alle esigenze dei clienti e ai loro montaggi personalizzati. «Credo che questo mondo, quello del ciclismo, si possa dividere in tre macrocategorie: gli amatori, gli agonisti e gli appassionati. Da questi ultimi si trae sempre nuova linfa per le giornate: conoscono ogni salita e ogni altimetria, in vacanza, a tempo perso, vanno in bicicletta, magari salgono al Galibier o al Mont Ventoux, soprattutto conoscono cose a cui gli agonisti non fanno nemmeno più caso, presi dal risultato, dai numeri. Il mio lavoro mi ha permesso e mi permette ogni volta di vedere le diverse facce di questo piccolo universo chiamato ciclismo».
Un gestore, specifica Lorenzo, nel 2025, non può fermarsi alla vecchia logica del negoziante o del meccanico, bisogna, invece, entrare nell'ottica di una sorta di "meccanico 2.0", perché «mi si permetta il gioco di parole, fare solo ciò che paga, in realtà, non paga. Le persone ormai acquistano tutto dal divano di casa: bisogna aiutarle a fidarsi e, al giorno d'oggi, non è facile». Lorenzo non si sente venditore, anzi, narra che quella è la cosa che ha più difficoltà a fare, lui si diverte a costruire bici su misura, per quella persona o per quell'evento, quando, tuttavia, si trova a dover vendere inizia a fare domande, a chiedere, a rovistare fra le varie esperienze, fra le vecchie biciclette per reperire le misure corrette: qualche cliente non è rimasto al passo con i tempi, allora Lorenzo improvvisa, sa farlo bene, gli riesce, e così cerca di capire la persona che ha davanti, quel che vuole, che desidera.
«Mi interfaccio anche io con quello che chiamo "l'arrangismo friulano", un atteggiamento ben riassunto da una frase tipica: “fasin di bessôi”, ovvero "facciamo da soli", omaggio alle capacità ed ai talenti friulani e forse anche un poco alla proverbiale diffidenza di questo popolo. Mi capita che mi arrivino qui persone con biciclette in condizioni abbastanza precarie che, magari, hanno intenzione di fare lunghi viaggi, all'altro capo del mondo: in quel caso serve spiegare, è necessario mettere davanti alla realtà dei fatti. Non sempre capiscono perché è un qualcosa di ancestrale quel modo di fare, quello del pensare di non aver bisogno di nessuno, ma talvolta si riesce a cambiare. Dalla stessa origine deriva l'avversione che spesso, anche sui social, si ha nei confronti dei meccanici, quasi non fossero idonei ad occuparsi delle nostre biciclette perché "faremmo meglio da soli". La problematica è la stessa e vale per ogni zona d'Italia». Il friulano, inoltre, è diffidente, anzi, forse, molto diffidente, ma, una volta che si riesce a fare breccia nel suo scudo, si rivela una persona aperta e calorosa. Bene, in quel momento diventa impossibile anche solo passare dalla regione senza avvisare: ci tiene a mantenere il contatto, la conoscenza, l'amicizia.
Il locale è articolato in due ambienti distinti, caratterizzati da altrettanti, spazi, come fossero due mondi: uno relativo alla vendita con qualche bici in esposizione, l'altro all'officina, con una piccola vetrina ad attirare l'attenzione sul negozio. L'idea è sempre quella di cercare di offrire non solo prodotti e servizi ma anche un’esperienza divertente ed originale al cliente: «Penso, ad esempio, alla Cimiteri Ride, la nostra gravel annuale che organizziamo nel periodo della festa di Ognissanti. Sarà per il nome assurdo o il periodo particolare ma ogni anno attira sempre più partecipanti. Non serve molto: una traccia particolare, i ristori con prodotti appetibili, magari locali. La chiave è mantenere tutto semplice, genuino, anche se non è così scontato: alla fine, si tratta solo di una pedalata insieme, nulla di più. Un altro esempio potrei portarlo parlando delle uscite che organizziamo in notturna, al mercoledì, e, visto che siamo un poco distanti dalle principali città, ci siamo inventati una sorta di tour: siamo stati ad Udine, a Pordenone e in altre località. Sapete il bello? Alcune di quelle persone, che hanno pedalato nei nostri eventi, si scambiano nomi e numeri di telefono e, successivamente, si ritrovano per correre assieme: questo per me è un risultato, forse il più importante».
L'invito di Lorenzo è quello di restituire il maggior potere possibile all'utente finale, un potere che, di fatto, gli appartiene. Per farlo, spiega, è necessaria una sorta di involuzione, un ritorno alle origini. Si tratta di riscoprire le botteghe, dove trovavi non più di una ventina di biciclette, in contrapposizione ai grandi negozi, dove spesso «si vendono scatole vuote». In quelle botteghe, l’utente si riconnetteva con l’artigianato e con una dimensione più umana e autentica. Secondo Lorenzo Sandrin, quando queste due strade – tecnologia e artigianalità, modernità e tradizione – torneranno a incontrarsi, sarà stato fatto un grande passo avanti. È una visione in cui crede fermamente.
Intanto, da quel 9 marzo 2019, sono già trascorsi ben più di cinque anni, quasi sei, a dire la verità, mesi e giorni in cui quel salto nel buio e quella scelta coraggiosa si sono rivelati un successo. Di passi avanti se ne sono fatti e tanti e se ne vorrebbero fare ancora. Crescere, certo, ma con un punto fermo: la natura artigianale, che, ancora oggi, è preziosa e da preservare. Nelle pieghe dell'artigianalità ci sono le origini e le origini sono la base da cui costruire qualunque cosa: anche Palo Alto Bikes, dal nome californiano, dal ricordo spagnolo, dalla base friulana, dalla realtà a due ruote, come due ruote hanno le biciclette di qualunque ordine e grado.
Dritta al punto: intervista a Sofia Bertizzolo
Sofia Bertizzolo non ha peli sulla lingua, lo sanno tutti, e, quando parla, quando risponde alle domande, va dritta al punto, anche se la realtà è cruda e fa male. Accade, per esempio, quando, ad inizio telefonata le chiediamo cosa trattenga del 2024, quali consapevolezze e quali certezze: «Che anche i muscoli si possono rompere e non basta stare fermi finché non si sistemano perché, lo dico, non si riparano. Questo, basta. Ero a pezzi quando ho ricevuto la diagnosi: l'osso si era rotto, ma il discorso muscolare è sempre più complesso. Non ho mai avuto una data sotto mano: dopo i quindici giorni di tutore, nessuno si esponeva perché non poteva esporsi. Un continuo aspettare e posticipare, uno stop completo chiedendosi se e quando si riprenderà. Alla fine, sono tornata in sella e ad ogni salita dovevo salire in macchina perché non potevo fare alcuno sforzo. Solo far girare le gambe. È stato un anno negativo, punto e basta». L'atleta ventisettenne di Bassano del Grappa, dal 2022 in maglia UAE Adq, si riferisce ai postumi della brutta caduta che l'ha coinvolta il 16 maggio del 2024, assieme ad Elisa Balsamo, nel finale della seconda frazione della Vuelta a Burgos. «Sia chiaro, non mi piango addosso e non lo farò mai, ci sono mali ben peggiori nella vita, però vorrei tornare indietro di 365 giorni e sentire nello stomaco la sensazione che avevo in Australia, ad inizio stagione, e quella sensazione può dartela solo il risultato. Sono partita dalla stessa terra, il 17 gennaio, cercando di riportare i miei pensieri a quello stato mentale». Bertizzolo fa una pausa, poi riprende, approfondendo il discorso.
«Sono un corridore vecchio stampo. Dire che "vincere aiuta a vincere" sembra una banalità, eppure è esattamente così. Il corpo e la mente si fidano molto più delle sensazioni che dei dati che oggi compulsiamo tutti freneticamente. Un risultato restituisce ad un atleta una consapevolezza che nessun numero può dare. Se arriva il risultato pieno, il giorno dopo hai qualcosa in più, nel corpo e nella mente, e puoi anche metterla a disposizione delle compagne di squadra, per aiutarle: è tutto più facile. Prendete lo sprint che è, per eccellenza, un insieme di vari componenti eppure, spesso, quando si vince il giorno prima, si vince anche il giorno seguente. Qualcosa vorrà pur dire, no? Ma ripeto: sono vecchia come mentalità, il ciclismo sta andando altrove». L'amarezza trova presto una spiegazione in un inciso disarmante: «Mi sento morire dentro quando vedo atlete che non "si conoscono". Non serve un allenatore per capire se il carico è troppo intenso, il tuo fisico te lo dice». Bertizzolo torna indietro negli anni, ai suoi inizi, ora che, dice lei stessa, «non sono anziana, ma nemmeno così giovane»: ha vissuto il momento del passaggio dalle sensazioni al potenziometro, da quando la forma si capiva ripetendo più volte la stessa salita e confrontando le varie scalate, a quando erano i numeri a raccontare lo stato del fisico. «Sì, sono infastidita e vivo con pesantezza questa situazione perché non si capisce quanto sia importante riconoscere i sintomi della fatica sul proprio corpo. Mi pare distruttivo questo approccio. Tuttavia ormai so che è un ciclo: anni fa si parlava di "low carb" e dieta chetogenica. Ora siamo tornati al punto di partenza: succede sempre così e questo mi conferma che era corretto il primo approccio, che nulla dice più di come un ciclista si sente».
La ferita maggiore, probabilmente, l'impossibilità di essere presente all'Olimpiade a Parigi, opportunità che, afferma Bertizzolo, prima dell'infortunio era molto alta. Dice che sarebbe stato il coronamento di un percorso e non sa se ricapiterà perché l'Olimpiade, nel ciclismo, si disputa ogni quattro anni ma, per ogni singolo atleta, può passare anche più di quel tempo, considerando problematiche personali e differenti tipologie di tracciato, non sempre adatte alle caratteristiche tecniche di ogni ciclista: «La gara olimpica non è una gara di spicco nel ciclismo: abbiamo sessanta corridori in corsa e una gara ciclistica non è così, ha molti più ciclisti e diverse tattiche. Una classica o un Campionato del Mondo hanno ben altro rilievo, però l'Olimpiade è l'evento sportivo più importante al mondo, multidisciplinare, in cui sono coinvolti tutti gli sport. Ricordo l'atmosfera ai Giochi del Mediterraneo, già molto bella, pensate a cosa possono essere i Giochi Olimpici. Peccato». Sofia Bertizzolo è appassionata di ginnastica artistica, una disciplina rigida, elegante, e si è emozionata vedendo i risultati delle azzurre, ma c'è qualcosa in più se pensa alle Olimpiadi, qualcosa che lei stessa ammette «non ti racconterò del tutto, perché è una cosa a cui sono affezionata e voglio custodirla, tenerla per me». Noi siamo d'accordo, in fondo, è anche più bello così. «In occasione della Festa della Polizia, sono passata dalla mia cameretta per recuperare l'abbigliamento per andare a Roma. Per caso, ho trovato una foto di Valentina Vezzali, distesa a terra ad un'Olimpiade, dopo una stoccata vincente e al momento non ci ho fatto neppure molto caso, se non per chiedermi il motivo per cui fosse lì. Bene, alla Festa della Polizia c'era anche lei ed ha tenuto un discorso: ho capito ascoltandola perché l'avessi scelta e perché quella foto era rimasta lì. Avevo scelto bene, avevo avuto ragione».

Sofia Bertizzolo è una ciclista professionista ed è questa parola a pesare più di tutto il resto quando parla del suo ciclismo che, a marzo, avrà per la prima volta la Milano-Sanremo femminile: «Oggi siamo atlete professioniste, facciamo questo e altro non possiamo fare. Siamo retribuite per correre in bicicletta e corriamo per noi stesse e anche per il pubblico che viene a vederci, per i bambini che aspettano di osservare la magia della maglia iridata o della maglia gialla. Noi possiamo continuare a lavorare per migliorarci e per migliorare il nostro ambiente. Una volta non era così, non esisteva nemmeno il ruolo della gregaria e, se non eccellevi in nessun terreno, ti toccava andare a lavare i piatti la sera per mantenerti e non sto esagerando». Pensa alla gente ed ai tifosi al Monte Grappa al Giro d'Italia e chiosa: «Siamo sempre bravi a criticare il Giro ed esaltare il Tour, dovremmo lodare i nostri tifosi, era uno spettacolo». Dall'infortunio si è rialzata soprattutto grazie al sostegno della squadra, alla pazienza e a quella carta bianca lasciata proprio nel momento più difficile, che le ha permesso di lavorare con tranquillità ed era l'unica possibilità: l'agonismo è rimasto intatto, come la fame di vincere che riesce a coesistere con il desiderio di aiutare le compagne, pur tenendo strette le possibilità di fare bene, ogni qualvolta se ne presenti l'opportunità. «L'anno scorso abbiamo lavorato molto bene come squadra, ma, forse, non abbiamo mai avuto la possibilità di brillare fino in fondo, cogliendo il risultato pieno, talvolta a causa di individualità che ci hanno superato, altre perché in gara può succedere di tutto e altre ancora perché, a mio avviso, avevamo magari tre buone idee tuttavia, al momento della concretizzazione, non riuscivamo a portarne a termine alcuna». Alla partenza di Chiara Consonni, spiega Bertizzolo, si è fatto fronte con due velociste molto forti e un buon lavoro sul lead out, in squadra, inoltre, è arrivata Elisa Longo Borghini, il vero colpo del ciclomercato.
«Con Elisa ho lavorato già in nazionale e con le Fiamme Oro: mi piace dire che è un capitano facile da gestire, perché sa quello che vuole. Una pedina forte come Elisa alleggerisce la squadra, anche se l'impegno dovrà essere importante per accompagnarla verso la finalizzazione che vorrà dare al nostro lavoro. Il focus sarà chiaro e questo semplifica di molto le cose». Se si parla di ciò che c'è da cambiare nel ciclismo, Sofia Bertizzolo pensa al tema sicurezza: «Si parla molto e giustamente della sicurezza sulle nostre strade. Parliamone sempre di più e agiamo di conseguenza. Io, però, vorrei portare l'attenzione sulla sicurezza in gara, dove si tende ad andare sempre più veloce. Chiediamo e abbiamo chiesto più volte di ridurre le difficoltà del percorso, non dal punto di vista di altimetrie, ma con riguardo a dossi, rientranze, muretti e all'attenzione che ogni vettura in corsa deve prestare, perché se cadiamo, cadiamo a sessanta all'ora». Precisa, dritta al punto, schietta, l'avevamo detto: Sofia Bertizzolo è così.
Coco Cycle, Milano
Colin Nicolas Buckley ha compiuto cinquantatré anni nei giorni del Natale e da circa quaranta notti di Natale c'è la bicicletta nei suoi pensieri. Cambridge, dov'è nato, è una città di ciclisti, con al centro l'università, luogo di studio o di ricerca: a scuola smontava e rimontava biciclette da corsa, assieme ai compagni di classe, tuttavia, come ogni amore, c'è una data precisa in cui ci si incontra ed il sentimento si materializza. Per Colin è il 1984 e le coordinate sono quelle del Tour de France, la corsa che ancora oggi è la più bella del mondo nelle sue parole e nei suoi ricordi. Nella memoria quei giorni sono anche quelli del vento in faccia, della velocità in sella e della sua ebbrezza, del suo brivido tipico della giovane età. Ai banchi di scuola si sostituisce il mestiere di meccanico, i suoi attrezzi, la sua pazienza, il suo legame con il ridare vita ad un oggetto: «Se qualcosa non funziona, la mia idea è quella di capire il perchè e agire di conseguenza per sistemarla, perché "riparare" è un bellissimo predicato verbale. Ciò che è guasto è semplicemente fuori posto, fuori dall'ordine naturale delle cose e gli esseri umani, con il loro lavoro, possono ristabilire quest'ordine, in questo modo le cose tornano a funzionare e riacquisiscono la propria luce. Si tratta di una missione».
Non è un caso che le biciclette di Colin siano per la maggior parte datate, antiche, in acciaio, magari plasmate quarant'anni fa: attorno a loro si racchiudono le varie esperienze che ha raccolto in giro per il mondo e, poi, al suo arrivo in Italia, nel 1992. Parla perfettamente in italiano, si scorge l'inflessione britannica e con orgoglio ed un lieve tremore delle corde vocali afferma: «Molte persone mi cercano e se io cambio luogo, città o paese, loro viaggiano per portarmi nuove e vecchie biciclette. Viaggio con un bagaglio di esperienze che riapro non appena tocco una bicicletta». Colin Nicolas Buckley smette per un attimo di parlare e si affaccia alla vetrata che guarda via Gerolamo Tiraboschi, a Milano.
Cosimo Capobianco ha conosciuto Colin circa vent'anni fa, mentre lavorava nel settore librario, tra librerie e case editrici. In quel periodo Cosimo era in una libreria tra via Indipendenza e Piazza Vetra proprio a Milano, Colin, invece, aveva appena scoperto Granciclismo, la casa delle biciclette fra le più belle che c'erano, le Cinelli di Antonio Colombo. Una sede era a Cesena, un'altra proprio in Piazza Vetra: duecentocinquanta metri di negozio e vetrate e vetrine su tutte le tre facciate. Il design era innovativo, si potevano acquistare le prime borse provenienti da America e Giappone ed anche Colin nel 1993 aveva comprato qualche bicicletta da loro, spendendo gran parte dei propri risparmi. Colin e Cosimo si incrociavano tra la via e la piazza: tra chi cercava un libro e chi ammirava quell'universo a due ruote. Il caso volle che la libreria venne chiusa e Granciclismo dovette trasferirsi e finì proprio in quei locali, accanto al parco delle Basiliche di Milano, ancora tra vetri e vetrate. Forse è quello il momento in cui le strade di questi due uomini tornano ad incontrarsi: Cosimo non vorrebbe più «dipendere da nessuno» se non dalle persone che entrano nel negozio, sogna un locale pieno di bici e ciclismo perché è anche la sua passione. Di più: vorrebbe costruire qualcosa di nuovo, partendo dall'inizio e crescendolo come si crescerebbe una creatura. Quanto a Colin è sempre stato meccanico, non ha mai abbandonato le sue biciclette, e pare la persona giusta, al momento giusto. Anche Cosimo guarda fuori, verso via Gerolamo Tiraboschi: ad agosto è nata una società, il 12 settembre hanno preso possesso dei locali al numero 8 e da quel momento, piano piano, stanno mettendo assieme Coco Cycle. Sì, Coco come Colin e Cosimo.
Si tratta di un'officina di riparazioni in cui chiunque arrivi può domandare qualunque tipo di riparazione, per ristabilire quell'ordine e riportare quella luce di cui parlava Colin: «Il nostro- raccontano i due- vuole essere un lavoro onesto, spinto dalla passione. Il progetto è quello di offrire un servizio di un certo livello, atto a soddisfare le aspettative delle persone. Le domande sono semplici: perché si continua a cercare il nuovo, si vende e non si ripara più nulla? Perché la vecchia bicicletta di papà o di nonno viene definita cancello? Perché le botteghe dei genitori vengono abbandonate al loro destino e nessuno vuole più prendersene cura? Perché il mondo corre veloce, forse anche troppo veloce, si acquistano pezzi nuovi su Amazon, magari non si sa nemmeno come utilizzarli, si è disposti a pagare qualcuno per montarli, non per aggiustare e questo fa perdere l'anima agli oggetti». La realtà è che, non appena si scopre il restauro e la nuova vita che ne deriva, le persone restano entusiaste. Ogni tanto Colin prende un libro, smette di maneggiare ingranaggi e attrezzi e inizia a sfogliarlo, a mostrarlo, a raccontare quel che c'è scritto e da lì spera derivi la consapevolezza, in chi ascolta mentre aspetta la propria bici, dell'altra lezione che consegna il riparare, l'aggiustare: la possibilità di conservare la storia di una bicicletta: «Le persone hanno un tempo limitato sulla terra, se ne vanno e portano con loro tutto il vissuto. Penso a Coppi, a Maspes, a Gaiardoni, a Magni: quanto hanno vissuto e custodito? Io lo dico ai ciclisti: dovete scrivere libri perché non si può sprecare tutto ciò che provate sulla vostra pelle, è un patrimonio. Quando le persone scoprono degli scritti, si fermano, pensano, ascoltano, leggono. L'universo è immenso, eppure la bicicletta compie questo piccolo miracolo, avvicina, cancella anche le distanze interpersonali. Se restaurata, sistemata, preserva la memoria di ciò che scompare o potrebbe scomparire».
Per questo la maggior parte dello spazio in Coco Cycle è dedicata all'officina e le pareti sono attrezzate con accessori e ricambi: le bici nuove sono poche, solo alcune in vetrina. Lo spazio non è moltissimo, ma è un piccolo mondo in cui c'è tutto quel che serve per custodire una bicicletta. Sono partiti da zero ed il “piatto”, questa è la metafora culinaria utilizzata, non era già pronto da servire a tavola, bensì da costruire passo passo, come il locale, dandogli forma di giorno in giorno ed aggiungendo accessori, scelti e collocati personalmente. Il palazzo è antico, risale ai primi del 1900, ristrutturato solo ultimamente, molto luminoso, perfetto per un mezzo "verde", legato alla natura, come la bicicletta: la pavimentazione è uniforme, consiste in un mosaico colorato, di quelli dei vecchi tempi, facile da pulire, il soffitto è alto.
Si stanno sbrigando le ultime pratiche burocratiche e l'insegna non c'è ancora, ma il messaggio a chi arriva lo trasmette l'accoglienza: «Ognuno si relaziona con la bicicletta in un modo personale ed è a maggior ragione per questo che ciascuno deve essere ascoltato e rispettato. A noi interessa l'individuo: nulla cambia che pedali contro il vento, correndo su strada, oppure che accompagni i bambini a scuola. La porta è aperta a tutti, cerchiamo di mettere a proprio agio perché nessuno deve avere timore qui dentro ed il rapporto che si può instaurare attraverso una riparazione è differente da quello che si crea con la vendita: in quest'ultimo caso, si parla solo di quel che si ha, della novità per l'appunto, nel caso di una riparazione, invece, il dialogo è a tutto tondo. Il cliente chiede quali prodotti utilizzare, cosa cambiare, se un copertone da strada piuttosto che un altro, nascono idee, ci si scambia suggerimenti, si pensa a come personalizzare quella bicicletta, magari con una sella particolare. Spesso il cliente ritorna e chiede ancora un parere: è il modo di rendere partecipi di quella storia, di quella piccola antichità. La cultura della bicicletta è anche questa e si diffonde proprio così, nello scambio di esperienze». Il rapporto e la conoscenza del mezzo variano a seconda del tipo di utilizzo: raccontano Colin e Cosimo che talvolta chi pedala per utilità, per spostamenti, di fatto quasi non conosce il mezzo, qualcuno ha confessato di non sapere che le ruote andassero gonfiate. Diverso è il caso di coloro che della bicicletta hanno fatto uno stile di vita, una delle tante letture della quotidianità: certamente l'approccio è cambiato, soprattutto da parte dei giovani.
Cosimo pensa a suo nipote: «Ha quattordici anni e vedo la sua generazione; pedalano poco, utilizzano la bici solo per necessità, noi la consumavamo da quanto la sperimentavamo. Sto pensando ai parchi pubblici, negli anni settanta, quell'innamoramento che pare andato perso. Qualcosa di simile mi pare di vederlo rispetto ai libri, alla lettura ed è una piccola malinconia, una forte nostalgia». Ogni tanto qualcuno cambia idea e quello che un tempo era considerato un "cancello" viene d'un tratto visto come un prezioso gioiello: è l'opera di un meccanico a cambiare la visione. Allora tutti se lo tengono stretto, non lo mollano più.
Colin, a Cambridge, lavorava in una piccola officina, erano i primi tempi ma una cosa la ricorda chiaramente ed è un'eco che persiste: la felicità non arrivava con lo stipendio, ma era una sorta di restituzione che si sviluppava quando qualcuno sorrideva contento vedendo la propria bici di nuovo in ordine. Ha imparato lì l'etica del lavoro: fare bene, a prescindere da tutto e tutti, perché è un dovere, perché, a sua volta, fa bene a chi di quel lavoro usufruisce. Lì fuori c'è sempre Milano, una città in cui per le biciclette, per i ciclisti si dovrebbe fare di più, ma i primi passi si stanno muovendo: «Parliamo delle migliorie alla ciclabilità, dei restringimenti di strade larghe e di una consapevolezza che è crescente rispetto alla necessità di proteggere i ciclisti e, magari, a diminuire le automobili, perché in sella si respira meglio, si viaggia meglio, si arriva anche prima, Tuttavia parliamo di una città che si blocca completamente ogni volta in cui piove, piena di sensi unici, con strade con pavè e qualche volta con asfalto non troppo curato, con i binari dei mezzi pubblici. A volte sembra quasi non ci sia il desiderio di aiutarti a pedalare, di permettertelo, a forza di frapporti ostacoli, laddove invece sono necessarie infrastrutture e talvolta anche multe: sì, i controlli sono fondamentali perché ciascuno rispetti la legge, perché si possa creare una sana convivenza».
Quando piove, Colin si veste, si copre, poi sale in bicicletta e pedala verso Coco Cycle: si bagna? Certo, ma dice sempre che qualche goccia d'acqua non è nulla rispetto al piacere di respirare l'aria fresca, di non chiudersi in un'automobile per minuti e minuti, talvolta ore. La sua felicità è condivisa, perché di storia in storia racconta anche questo a coloro che entrano nel locale e tutti quelli che provano iniziano a sentirsi bene, a non temere più qualche goccia d'acqua: può anche essere piacevole. Intanto Cosimo e Colin continuano a lavorare, ad aggiustare, a sistemare, a rimettere a posto, in ordine. Del resto ce l'hanno detto; riparare è un bellissimo predicato verbale.
«Ho cambiato le mie priorità»: intervista a Marta Cavalli
La prima domanda non può che essere «come stai?», perché è così che si fa quando si telefona a qualcuno e perché l'ultima intervista con Marta Cavalli risale a molti, forse troppi, giorni fa. Ma le abitudini non sono cambiate: la sincerità, prima di tutto: «Bene, ma, forse, non è nemmeno questa la cosa più importante da dire dopo tutto questo tempo. Confesso, piuttosto, di aver imparato tanto su di me. Diversi errori nel mio passato mi hanno impedito di amare e continuare ad amare il lavoro dei miei sogni. Forse perché l'ho amato troppo ed in un modo sbagliato. Il ciclismo non era solo il mio lavoro, era la mia vita: facevo tutto, sempre e solo, per vincere, per tornare dove la gente mi diceva che avrei potuto essere. Ogni istante della mia vita era legato al ciclismo: l'allenamento, l'alimentazione, la preparazione mentale. Sono crollata. Ad un certo punto non uscivo di casa in certi orari per non incontrare ciclisti, non guardavo i giornali per non leggere del ciclismo e, se, per caso, dalla cucina, sentivo la pubblicità di qualcosa legato alla bicicletta, avevo il rigetto. Ho disconesso tutti i miei social. Lo scorso luglio, dopo l'incidente che mi ha coinvolta, ho lasciato la bicicletta distrutta in garage e non volevo più andarci per non vederla. In quei giorni, avevo già gli scarpini sganciati ed un piede giù dalla sella. Sì, ho pensato di smettere e non ho alcun timore a dirlo: la situazione non era più sostenibile».
Il ghiaccio, probabilmente, si rompe proprio dopo queste parole, di nuovo, dopo mesi, proprio come quando si racconta qualcosa di duro, di difficile e si lascia andare ogni paura nel far uscire le parole. Inutile nascondersi dietro un dito, avevamo intuito, come tutti, la pesantezza del momento, ma un conto è pensare, credere, altro è sapere, ascoltare. L'intervista diviene, a dire il vero, un flusso di coscienza. «Se non è accaduto è perché sono cambiata. Ho compreso che il mio benessere deve essere prioritario, poi viene l'atleta e la soddisfazione individuale e della squadra per l'operato come ciclista. Si tratta di una forma di egoismo? Può essere, ma è necessaria. Mi sono resa conto che, da quando sono una ciclista, non ho mai avuto passatempi fuori dal ciclismo. Forse nessuno me lo ha mai chiesto, tuttavia, se l'avessero fatto non avrei saputo rispondere. Allo stesso modo, non avrei saputo dire la data dell'ultimo aperitivo con amici. Non è bello, non è ciò a cui auspicare, anche in cambio delle vittorie. Gli aperitivi non saranno mai la mia quotidianità, però, oggi, non fuggo e, se lo desidero, mi concedo anche questo sfizio. Non sarà, di certo, un aperitivo a precludermi un risultato: non ha questo potere. L'esasperazione, invece, sì. Può precludere un risultato, può precludere una carriera. Il benessere della mente precede quello del corpo e lo influenza».
Torniamo indietro, per un istante. Torniamo a quell'incidente ed alle sue conseguenze, tra cui un ginocchio particolarmente gonfio, che non permettono a Marta Cavalli di fare nulla, se non di vivere una forma d'ozio che non aveva praticamente mai vissuto in quanto, per indole, le è sempre stato impossibile restare con le mani in mano, in un costante bisogno di fare, inventare, progettare. In quel momento, gli stimoli per rialzarsi e salire in bici non c'erano più, ma una domanda la assillava: «E adesso? Cosa farai? Non sarai più una ciclista, dovrai tornare nella società e collocarti in un altro ruolo. Quale?». Confida Marta Cavalli che la fiducia nel fatto che quella risposta sarebbe arrivata non è mai mancata e, anzi, di risposte, nella mente, se ne sono affollate diverse. Era pronta ad accoglierle, con l'idea di stare bene, di stare solamente bene. «Non appena ho ripreso a pedalare con Mirco, il mio compagno, abbiamo assemblato assieme la mia bicicletta. "Tu hai ancora una fiamma negli occhi quando hai a che fare con la bicicletta, Marta. Sei forte. Perché vuoi precluderti tutto?": questa era la sua domanda. E la mia risposta era sempre: "Sono stanca, troppo stanca per continuare". Eppure, nelle uscite casuali, senza tabelle, a tratti ignoranti, mi divertivo. Ho pensato così che avrei potuto fare sport unicamente per passione, come tante persone».

All'ultimo momento, prima che i giochi fossero chiusi, e quindi che venisse messo un punto alla carriera di Cavalli, è giunto il contatto con il Team Picnic PostNl, la seconda opportunità che non stava attendendo e che, tuttavia, si è aggiunta agli spunti dati dalle persone a lei attorno: una nuova squadra, tanta serenità, soprattutto nessuna tempistica e nessun obiettivo prefissato, solo il desiderio di riprendere e riprovarci. «Ho accettato perché non avevo niente da perdere. Anzi, non ho niente da perdere. Però, almeno inizialmente, l'ho fatto con "il piede sollevato dall'acceleratore", quasi a volermi assicurare di poter tornare indietro, per questo sono rimasta in silenzio, non l'ho detto a nessuno. Era una sorta di protezione. Ho detto che ho una visione differente di questo lavoro, ed è vero, però non sono un'illusa. So bene che alcune difficoltà si riproporranno, forse anche lo spettro di quella che ero prima, ma sono fiduciosa nel fatto di essere una persona diversa e di essere in grado di porre in campo un atteggiamento opposto. Non è una ripartenza, perché ripartire significa che delle partenze ci sono già state. Piuttosto è una costruzione differente e quando si costruisce si parte dalle basi e tutto è nuovo».
Il nuovo capitolo in Picnic PostNl è caratterizzato da un approccio differente anche da parte del team: sono cambiate le persone, i meccanismi, le nazionalità delle atlete, le abitudini ed anche la stessa matrice della squadra, non più francese ma olandese. Marta Cavalli distingue due fronti: quello tecnico, estremamente articolato e complesso, con una miriade di aspetti e sfaccettature e con uno staff che si dedica a qualunque dettaglio, dal nutrizionista, all'esperto di analisi dati, ad una fitta rete di comunicazione, e quello umano, in grado di distaccarsi dalla freddezza dei numeri e di creare un rapporto e accompagnare l'inserimento di qualunque nuova atleta: «L'allenamento, per me, è di nuovo un modo per divertirsi, sorridere. La sera c'è anche il tempo di giocare con le compagne. In questo modo, riesco a concepire ogni uscita in bici come una via per migliorarmi, senza la sensazione di essere sotto giudizio, sotto valutazione costante: è anche quella a frenare un atleta. Senza alcuna preparazione, dopo un anno di stop, mi sono messa nelle mani dello staff. L'ho proprio detto: "Mi fido di voi". E dopo l'insoddisfazione, è arrivata l'innovazione e la voglia di scoprire».
Il bisogno, qualcosa che ha anche a che fare con un sogno, ma uno di quelli semplici, genuini, è di essere nuovamente in gara, con quella spensieratezza agonistica che fa dire "vado, me la rischio": «In realtà, si accompagna anche ad un leggero timore, ad una leggera ansia. Sai il detto "tolto il dente, tolto il pensiero"? Ecco, non vedo l'ora che la corsa esploda, in una situazione di gara complicata, per scoprire come reagirò, magari per essere lì davanti e capire cosa proverò. Per me è una sorta di pensiero ricorrente». La brutta caduta al Tour de France 2022, afferma, è stato l'inizio di questo periodo buio, ma ora è alle spalle: «Non tutto il male viene per nuocere, penso sia vero e credo anche sia un augurio da ricordare. Quell'incidente ha poi innescato tutta una serie di conseguenze, con il punto peggiore nell'estate del 2024, ma le cose passano, alcune in tempi brevi, altre in tempi più lunghi. Fintanto che le viviamo dobbiamo provare a utilizzarle per crescere e avere pazienza, come devono avere pazienza le persone a noi vicine. Voglio dire una cosa: non ho una persona in particolare da ringraziare nel mondo del ciclismo, ne ho tante e sono coloro che fanno parte della mia "community". Quelle che mi hanno aspettato in questo anno, senza, però, aspettarsi nulla. Alcune nemmeno le conosco dal vivo, forse nemmeno le conoscerò mai, però so che ci sono. Confesso che non è stato facile per me interrompere in anticipo il rapporto con FDJ-Suez, era una situazione delicata ed a me piace la correttezza. Quando l'ho annunciato, mi sono subito chiesta come l'avrebbe presa il mondo che mi seguiva. Bene, a loro non sono servite spiegazioni e questo mi ha resa più forte. Lo sport è necessario anche, forse soprattutto, per veicolare messaggi ed io sono contenta che il mio messaggio sia stato quello di rimettere al centro la propria persona e di smettere di essere un robot».
Si sente fuori dalla "tavola rotonda" delle atlete che si giocheranno le classiche e le grandi corse a tappe, anzi, sottolinea che questi due anni lontana dal suo mondo l'hanno portata a perdere di vista molte dinamiche, per cui non sarebbe in grado di fare un pronostico: certamente è interessata al ritorno di Anna van der Breggen, si chiede come si comporteranno Lotte Kopecky e Demi Vollering, ora in due squadre differenti, e osserva con curiosità i diversi giovani talenti che stanno emergendo. Ora è sicura che continuare sia stata la scelta migliore, perché il suo percorso nel ciclismo l'ha costruito con fatica e sacrifici e quel finale non sarebbe stato il finale adatto, troppo brusco, troppo secco, non deciso, ma subito. «In passato ho vinto tanto, è vero, e le persone spesso non sono comprensive e non hanno mezze misure. Non hanno pazienza ed è difficile far fronte a questa richiesta di "tutto e subito". Io non so se e quanto vincerò ancora, ma, se arriveranno, saranno vittorie completamente diverse, non paragonabili. Per questo il mio passato non mi pesa. Perché Marta è un'altra Marta. Non c'è più quel rumore assordante nelle orecchie, con tutte le pressioni e le aspettative, quando salgo in bicicletta le priorità sono completamente diverse: tornare a casa, riabbracciare le persone a cui vuoi bene, su tutte». La doccia, qualcosa da mangiare post allenamento e basta, poi c'è la quotidianità, perché «il ciclismo non è solo un lavoro, ma è anche un lavoro e una persona non può farsi definire solo dal proprio mestiere, qualunque sia».
Determinazione e sogni: intervista a Carlotta Borello
Carlotta Borello, BTC City Ljubljana Zhiraf Ambedo, sostiene che, spesso, il sacrificio sia inquadrato in maniera errata in quanto si tende a concepirlo come rinuncia, ma per un'atleta agonista quale è lei il sacrificio è solamente un ponte tra ciò che desidera e ciò che è disposta a fare per ottenerlo. Allora il sacrificio non è più rinuncia, ma scelta che contiene diversi ingredienti. Borello ritiene che racconti «una storia di amore, passione e dedizione, non un peso bensì una modalità per raggiungere la miglior versione dell'atleta che sono». Classe 2002, ammette che il suo inizio di stagione nel ciclocross, nel 2024, non se lo aspettava praticamente nessuno: ad aggiungere un ulteriore sprone il cambio di casacca e di preparatore atletico, alla ricerca di una crescita continua, gara dopo gara, per migliorare anche su percorsi più impegnativi. Un ruolino di marcia che, a ben vedere, mette in fila una serie notevole di primi posti tra cui la vittoria a Brugherio, una gara internazionale in cui era spesso arrivata vicino al podio, la più grande soddisfazione di sempre, a suo avviso. Nel fango si ispira a Fem van Empel e Puck Pieterse, sue coetanee che abbinano il talento nel cross a quello su strada, riuscendo anche, talvolta, a togliersi la soddisfazione di superare atlete maggiori di età ed esperienza. Per provare ad assomigliare ai suoi modelli, ha già posto un focus su quel che vorrebbe cambiare, sottolineato da un predicato verbale che ne mette in risalto la volontà: «Devo assolutamente migliorare ed essere più convinta nei tratti più difficili del percorso: penso al salto dei fossi, ad esempio, oppure ad affinare la tecnica nel fango, come nei percorsi meno nelle mie corde». Idee chiare, insomma. Se possibile rafforzate da alcune delusioni che non dimentica, su tutte il Campionato Italiano di ciclocross perso da junior secondo anno. Un'amarezza ancor più forte perché arrivata dopo aver conquistato buona parte delle gare stagionali, non riuscendo poi a ben figurare in uno degli appuntamenti più importanti dell'annata. Ma Carlotta Borello non fugge e guarda in faccia il valore della sconfitta: «Credo che le sconfitte ci offrano l'opportunità di restare umili, con i piedi per terra. Bisogna essere forti, perché fanno male: sono lezioni, nulla più. In veste di atleti siamo chiamati a trasformare il fallimento in motivazione per migliorare».
In questo modo, pochi giorni fa, dopo tanto desiderare, è riuscita a conquistare quella maglia tricolore al Campionato Italiano di cross che inseguiva da anni, dopo una gara vissuta da professionista, con l'accelerazione decisiva piazzata già al secondo giro. Nulla ha potuto fare Rebecca Gariboldi, pur impegnata in un bellissimo inseguimento, più lontana Letizia Borghesi.
La prima bicicletta di Carlotta Borello è stata una Colnago «vecchiotta» tutta in alluminio, «molto pesante, con il cambio al telaio», aveva dieci anni e suo fratello, più piccolo di due anni, aveva scelto di provare con il ciclismo. Pochi allenamenti e se ne era appassionato, finendo per parlare spesso di ciclismo alla sorella, sino a convincerla a provare. Carlotta praticava ginnastica artistica, fino ai dodici anni, anche conciliandola con le due ruote e andava a cavallo, cimentandosi nel salto ostacoli: «Dopo il diploma al liceo linguistico, mi sono iscritta a Scienze Motorie all'Università per conciliare al meglio lo studio con l'attività in sella. Ho fatto la scelta migliore che potessi fare, perché lo sport mi piace tutto e, dirò di più, provo molta soddisfazione nell'insegnare ai bambini in palestra. Tornerò anche a fare equitazione: il cavallo è un animale molto comunicativo che utilizza ogni parte del corpo per relazionarsi con noi umani». La bicicletta coincide ed ha sempre coinciso con l'unico momento della giornata in cui è possibile liberare la testa, una valvola di sfogo dallo studio e dagli esami universitari, tuttavia dopo il diploma è diventata qualcosa in più, come sono aumentate le ore da dedicarle. «Le mie caratteristiche su strada mi rendono una ciclista versatile e combattiva. Le salite non troppo lunghe esaltano la mia capacità di gestione dello sforzo, mentre nelle gare selettive posso sfruttare la mia resistenza e lucidità tattica per emergere nei momenti decisivi» Ha conquistato in questo modo la sua prima vittoria ad una gara da allieva secondo anno, vincendo la volata del gruppo, tuttavia residua in lei qualche attimo di paura del gruppo, soprattutto nei finali in volata quando il plotone procede compatto a tutta velocità e sta lavorando per cambiare approccio. Il ciclocross è arrivato dopo vari anni di ciclismo su strada, nella categoria allieve, una sfida «nuova, dinamica e tecnica, perfetta per mantenere alta la motivazione durante la stagione invernale» pur nelle difficoltà di un cambiamento che l'ha portata dal perfetto controllo della bicicletta su strada, alla gestione della stessa nel fango, nella sabbia oppure sull'erba.

«Ho dovuto imparare subito a scendere e salire dalla bici, a correre con la bici in spalla nei tratti più difficili e a guidare su terreni sterrati con una pressione degli pneumatici inferiore rispetto a quelle da strada. Un errore da evitare è farsi prendere dalla foga nelle partenze esplosive perché si rischia di andare in crisi troppo presto. Le gare vengono svolte su terreni e percorsi differenti: la tempistica nel ciclocross è di massimo sessanta minuti con un’intensità maggiore, ricca di sforzi più esplosivi e continui cambi di ritmo. Il ciclocross prevede anche momenti di discesa e risalita sul mezzo, ostacoli e percorsi molto tecnici e impegnativi, le condizioni atmosferiche sono più estreme: pioggia, neve e freddo». Parole decise e ben scandite, a definirne la determinazione, la principale qualità che si riconosce e che la porta a mettersi costantemente in discussione ed alla prova. Vuole vincere, questo è il suo imperativo e il Campionato Italiano ha riscattato quell'antica ferita. Non ha timore dei sogni grandi: «Ho ventidue anni, voglio arrivare a competere ai massimi livelli mondiali, vincere una competizione prestigiosa, un Campionato del Mondo, ed essere riconosciuta come una delle migliori atlete nella mia disciplina». Definisce Marianne Vos "donna multidisciplina" e proprio sulla multidisciplina si sofferma «perché è veramente importante, soprattutto in questi ultimi anni, in quanto variare l'attività ciclistica la rende molto più proficua e meno monotona». Da un paio d'anni, il fratello ha smesso di correre in bicicletta dedicandosi ad un altro sport, e Carlotta Borello è l'unica a portare avanti quella passione che in famiglia ha trovato applicazione proprio con i due figli: i genitori l'accompagnano spesso alle gare e i suoi amici sono altri atleti, che vivono la stessa quotidianità. Ha intrapreso la magistrale di Scienze delle attività motorie preventive ed adattate e, nel tempo, ha trovato la giusta ricetta per coniugare ciclismo e studio.
Continua ad insegnare ginnastica artistica, legge, legge molto ed il suo libro preferito è "Cose che nessuno sa" di Alessandro D'Avenia, forse quella frase sul timore come momento in cui si inizia davvero a familiarizzare con la vita la tocca particolarmente. In squadra è capace di motivare le compagne, di spronarle, è estroversa, ama parlare, raccontare e, scherzando, dice che in corsa è un grosso difetto perché rischia di deconcentrare e di distrarre. Attraverso il ciclismo ha compreso che i momenti no arrivano, esattamente come quelli positivi ed esattamente come questi vanno affrontati, aumentando la fatica, se necessario, e mettendo in strada il meglio che quel giorno o quel momento consentono. Questo è uno dei significati dell'essere ciclista.
"Le prime parole che mi ha detto Longo Borghini": intervista a Greta Marturano
Elisa Longo Borghini si è avvicinata a Greta Marturano durante il primo boot camp con UAE Team ADQ: l'intenzione era quella di stringerle la mano. Le due condivideranno la squadra almeno per il prossimo biennio: «Ciao Greta, in realtà credo che noi abbiamo sempre corso assieme, ma non abbiamo mai parlato. Piacere, Elisa». La ventiseienne di Cantù realizza solo ora, con una risata incredula, che, dopo tanti anni, la prima parola che ha detto a Longo Borghini, tra la timidezza e l'imbarazzo, è stata solo «ok». Effettivamente era vero: non vi era mai stata una conoscenza diretta tra Marturano e Longo Borghini e la prima causa è da ricercarsi proprio nella timidezza della ciclista della provincia di Como. «Timida come sono, figurati se osavo avvicinarla in corsa anche solo per un saluto. Il fatto è che Elisa è grande, troppo grande per una ragazza come me, così la guardavo da lontano, cercando di "rubare il mestiere" e di prendere spunto». In questi mesi che accompagnano all'inizio della nuova stagione, spesso gli incontri tra Marturano e Longo Borghini avverranno in aeroporto, infatti i loro voli partiranno dallo stesso luogo, nel frattempo Greta sta riflettendo sul fatto di essere compagna di squadra di colei che, forse, rappresenta per eccellenza il ciclismo italiano: «Lei ha classe, io devo allenarmi e allenarmi molto per poterle restare accanto- ride Marturano- capirò meglio a forza di allenarmi assieme metodi e differenze, ma so già che il mio sarà un ruolo molto importante, soprattutto nelle corse a tappe». Non è spaventata dalla responsabilità e nemmeno dagli sforzi a cui dovrà sottoporsi perché «l'importante per me è avere un traguardo da raggiungere, se lo ho esco anche con la pioggia, la grandine e la neve: è la mia precisone a spingermi. Se farò tutto quel che devo fare al meglio, avrò solo da imparare da questa esperienza e mi ritroverò cresciuta. Leggo in questo modo il mio nuovo ruolo e mettermi a disposizione mi viene naturale». Elisa Longo Borghini, per le sue colleghe, non è solo un simbolo per tutto quello che ha vinto, anche per il modo in cui affronta una professione di sacrifici: «Il divertimento che trasmette, pur nella fatica, si propaga alla squadra. Perché fare le cose seriamente non è il contrario di una certa leggerezza nel lavoro. Per me Elisa è una testimonianza di questo principio, uno stimolo».
Greta Marturano racconta di divertirsi, in ambito lavorativo, quando è serena: il divertimento ha quindi a che vedere con la possibilità di gestire al meglio lo stress e la pressione pur nel massimo impegno. La tranquillità viene da qui e la serenità in corsa le ha sempre portato maggiore facilità di azione e più risultato. Il primo boot camp è stato proprio all'insegna di questo principio e lei non se lo aspettava: «Se parliamo di training camp, di ritiri, mi aspetto di dover partire con la bicicletta per ritrovarmi in una situazione in cui la bicicletta sia al centro, soprattutto mi aspetto che sia qualcosa di completamente differente da una vacanza, denso di allenamenti e fatica. Niente di tutto questo: la bici non l'abbiamo quasi vista e per me è stata una seconda vacanza». Ha scoperto di cavarsela discretamente con il surf, tra le attività proposte: «Erano tutte onde artificiali. Alla prima, sono stata l'unica a restare in piedi. In realtà, poi, credo di non aver capito il gioco, perché continuavo a finire sott'acqua. Sono sincera, non pensavo di divertirmi e non credevo mi sarei divertita così tanto». L'approccio con l'ambiente è stato positivo, come quello con lo staff e le compagne: «Non c'è niente da fare: rispetto a Fenix-Deceuninck sono due mondi differenti e due diverse modalità di concepire le relazioni fra persone: da un lato la schematicità, la freddezza e la precisione dei belgi e degli olandesi, dall'altro un ambiente che mantenendo ai massimi livelli la professionalità aggiunge l'empatia e questo è importante per chiunque, forse, specialmente per chi ha il mio carattere. Mi era mancata l'empatia». Della possibilità di passare in UAE Team ADQ, Greta Marturano è venuta a conoscenza ad agosto, mentre era in ritiro a Livigno, parlando con il suo procuratore: il fatto che Elisa Longo Borghini avrebbe vestito la stessa casacca era ancora una voce. Lei, dopo i primi contatti e l'offerta, ha deciso abbastanza velocemente, ma qualche paura residuava.
«Si parla spesso dell'entusiasmo di ricominciare da capo, ed è vero, è un dato di fatto. A me piacerebbe, però, soffermarmi anche su tutti i dubbi, i timori di ogni atleta che cambia squadra, perché non è facile. Significa farsi conoscere da persone che ancora non ti conoscono, imparare nuovi modi di collaborare, fare propria una nuova mentalità, magari anche un nuovo ruolo. Ricominciare è sempre complesso. A dire la verità, io pensavo anche al mio carattere ed alla mia proverbiale timidezza, che, soprattutto all'inizio, può rendere tutto ancora più difficile. In realtà, hanno subito capito come sono fatta e non c'è stata attività in cui non abbiano cercato di coinvolgermi, nonostante io non faccia praticamente mai il primo passo. Questa comprensione mi ha reso serena, tranquilla». In UAE Team ADQ la grande opportunità è quella di continuare a crescere, in un clima di alto livello, anche perché se è vero che in Fenix-Deceuninck, Marturano ha accresciuto la propria consapevolezza e conoscenza, è altrettanto vero che qualcosa ancora manca: un paio di ani fa, Greta Marturano era certa di essere una scalatrice, ora sa che di sicuro ha doti di scalatrice ma non di scalatrice pura, perché anche nelle volate ristrette se la cava bene, come in percorsi nervosi, stile Ardenne e Tre Valli Varesine. «Per me è un poco come se fossi stata in Erasmus per due anni e fossi appena tornata: in UAE ci sono tante atlete italiane e, c'è poco da fare, come italiane abbiamo un background comune, per cui ci capiamo molto più agevolmente e non è solo una questione di lingua».
Nel primo meeting con i direttori sportivi, la domanda posta è stata chiara: «Vogliamo diventare la squadra più forte di tutte e per farlo è necessario che tutte voi miglioriate i vostri punti "deboli". Siamo disponibili ad aiutarvi in qualunque sfaccettatura vogliate cambiare, ma abbiamo bisogno che, con estrema sincerità, ci diceste per quale aspetto credete di aver bisogno di aiuto». Greta Marturano ha parlano della propria abilità in sella e delle discese dove, al momento, "sopravvive": «Sopravvivo perché se resto nel gruppo principale in salita, poi, per non sprecare quella fatica mi butto, ma anche questo è un aspetto su cui perfezionarsi. Nel mio caso ritengo indispensabile la fiducia: se mi fido pienamente di chi ho davanti, di chi fa strada, non ho alcun timore. Voglio imparare a fidarmi, perché questo risolve tutto ed è fondamentale, non solo in discesa». Giusto in questi giorni, il coach che aveva in Fenix-Deceuninck le ha scritto, augurandole di proseguire il percorso di crescita, perché il margine c'è e dove possa arrivare non lo sa con precisione neppure lei. In UAE Team ADQ, avrà Paolo Slongo come preparatore e ne è felice anche perché sarà lo stesso preparatore di Elisa Longo Borghini, tra l'altro Marturano aveva già lavorato con lui ai tempi di Fassa Bortolo: «Ci parliamo quasi tutti i giorni e questo scambio, questo confronto è prezioso. Mi sento ascoltata: la tabella c'è, ma può essere modificata. Sarà un inverno differente dallo scorso anno, perché inizierò a correre a gennaio, in Australia: continuerò il lavoro in palestra, in misura minore, ma per tutta la stagione, perché Slongo lo ritiene utile ed a me piace focalizzarmi su lavori di forza e resistenza. Prima di riprendere con l'allenamento mi sono cimentata per vari giorni nella corsa a piedi e mi ha aiutato. Variare è sempre bello».
Quando ha avuto la certezza che avrebbe lasciato Fenix-Deceunick i primi che ha avvisato sono stati proprio il suo coach e la compagna Pauliena Rooijakkers: ne ha parlato di persona, perché per il rapporto che si era creato, era giusto così. «Non sono un fenomeno e non voglio nemmeno atteggiarmi a fenomeno. Penso che un bel modo di entrare in contatto con una realtà nuova sia farlo in punta di piedi, con cura e delicatezza: cercherò di fare così, spero di riuscirci».
Un altro record, forse due: l'annuncio di Vittoria Bussi
A settembre, Vittoria Bussi, dopo aver ottenuto quel 3'20", durante la sua rincorsa al record del mondo dell'inseguimento individuale, aveva scritto: «Appenderò il cartello del record italiano sui 3 km accanto ai due record del mondo sull'ora, forse con ancora più orgoglio, per il coraggio, per accettare il dolore, per non aver rimpianti». Doveva essere quella la parola fine alla sua carriera, pur se amara, perché uno sportivo cerca sempre di lasciare che il sipario si chiuda all'apice della gloria, quando più di così non si può fare ed il futuro perderebbe comunque il confronto con il passato. Qualcosa che ha a che fare con il dramma, nel senso greco del termine, ovvero una forma letteraria, una rappresentazione con elementi significativi di conflitto. Sturm und drang, se volete chiamarlo in altro modo, tempesta ed impeto proprio mentre il sipario si chiude e la gente, i più, coloro che conoscono l'essere umano solo come atleta se ne vanno, perché non c'è più niente da vedere. Il resto è vita privata, è quotidianità più simile alla nostra di quanto si creda, a tratti noiosa: «Avevo bisogno di vivere quel mancato obiettivo, di assaporarlo, anche se il suo gusto non mi piaceva nemmeno un poco. Quando sbagli qualcosa a cui tieni, l'analisi può arrivare solo nel momento in cui ritrovi lucidità e questo momento giunge per ciascuno in tempi differenti. A quel punto, mettendo sul tavolo ciò che non ha funzionato, si capisce se riprovarci è possibile oppure è proprio la strada a non fare per te e intestardirsi non ha alcun senso, causa solo dolore, sofferenza, frustrazione. Quando ho scritto quelle parole, questa razionalizzazione non era ancora possibile per me, considerando come stavo, come mi sentivo». Spiega Bussi che il tarlo che perseguita ogni atleta di fronte alle sconfitte di qualsiasi tipo è: ho fatto veramente tutto ciò che mi era possibile fare per il traguardo che mi sono posto? Se la risposta è sì, la deduzione è la più naturale per uno sportivo: gli altri, i rivali, sono più forti ed a questo chi fa sport è sempre pronto ad inchinarsi. Il problema si manifesta quando, nonostante tutto, la risposta è no.
«A livello fisico, atletico, sapevo di essere serena con me stessa. Il dubbio era sulla parte di analisi scientifica, relativa all'aerodinamica in un'accelerazione fino a sessanta chilometri orari da ferma. Ricordo che, presso le strutture dello World Cycling Center, restavo a osservare queste partenze e facevo domande: il problema di applicazione, nel momento in cui i punti d'impatto visti in galleria del vento dovevano essere utilizzati nella pratica, era un fatto che riguardava solo me oppure tutti gli atleti fronteggiano questa questione? Se fosse così, in ottica futura sarebbe interessante fare chiarezza e credo che il dovere di un atleta, almeno per quanto concerne la mia visione di atleta, sarebbe quello di andare avanti, pur correndo il rischio di non farcela, per lo studio, la ricerca. Non siamo gladiatori nell'arena, vincere piace a tutti, ma lo spettacolo conta fino ad un certo punto, l'atleta dovrebbe avere un ruolo ben più importante nella società. Quando ho avuto chiaro di trovarmi in questa seconda situazione, ho capito che dovevo tornare in sella». A nulla sono servite le voci di chi, ad esempio suo marito Rocco, le diceva: «Il tuo messaggio l'hai già trasmesso: sei uscita dalla comfort zone, il risultato non è arrivato, ma ci hai provato. Hai trasmesso un ideale, un valore, hai sempre detto che a questo sono chiamati gli sportivi. Ora fermati». Per questo, ora può dirlo, ci sarà un altro record (almeno un tentativo). Forse due, perché se riuscirà nel record del mondo dell'inseguimento, vorrebbe chiudere, questa volta davvero, come ha iniziato, con un altro record dell'ora. «Ero stremata perché tenere i sessanta orari per tre minuti è sfinente per il fisico, ma quel che avevo fatto per "una vita" mi mancava troppo. Quando sono tornata a casa, mia madre si aspettava di trovarmi provata, invece ero stranamente più riposata che nei tentativi di record dell'ora. Il mio fisico aveva recuperato velocemente, mi ritrovavo con tanta energia e con la parola fine. La bicicletta, fedele alla promessa, l'avevo ritirata. Ero diventata nervosa, maggiormente "aggressiva" anche nella vita di tutti i giorni. Non mi piacevo più, trattavo male anche me stessa, quasi mi punissi». Bussi torna al velodromo, solo mezzo giro e un'esclamazione: «Come ho potuto pensare di rinunciare di colpo a tutto questo?».
Ci riproverà nel prossimo mese di maggio, perché non riprovarci vorrebbe dire lasciare un lavoro incompiuto: al primo tentativo di record nell'inseguimento individuale aveva applicato lo stesso metodo del record dell'ora. Dapprima l'altura e, successivamente, dopo una prova in cui era riuscita a scendere sotto i 3'20", in Messico, la scelta di investire in una finitura aerodinamica di buon livello sull'attrezzatura, sul body e sul casco. A settembre anche un 3'18", mai però il 3'15" a cui puntava perché il metodo, spiega, non era corretto in quanto «si creano delle turbolenze con l'accelerazione iniziale e l'aerodinamica non funziona come sul record dell'ora». Se l'inseguimento fosse rimasto sulla distanza dei tre chilometri, afferma, probabilmente, per quanto già detto, non ci avrebbe ritentato, ma i quattro chilometri sono un'opportunità che non vuole perdere, su uno sforzo differente, sui cinque minuti anziché sui tre, con una curva di potenza che varia: tra febbraio e marzo avrà modo di capire dove si posizionerà l'asticella del record e da lì gestirà la propria prestazione. La celebrazione potrebbe essere un ulteriore record dell'ora, su cui pende soprattutto un'incognita legata al riconoscimento UCI oppure no. Affinché questo avvenga sarà necessaria la presenza di cronometristi Tissot, allo stesso tempo, però, le nuove regole UCI implicano un significativo aumento dei costi per una prova che, in ogni caso, ha sempre richiesto fondi ingenti.
«La mia sconfitta è questa. Ho sempre ripetuto che il record dell'ora dovrebbe essere accessibile a chiunque abbia doti e meriti, tutte le persone con cui mi sono interfacciata mi hanno sempre detto di sì: ora ho scoperto che si sta percorrendo la direzione opposta, correndo il rischio che questa prova sia soprattutto un'occasione di business. Ho scritto una lettera ad Alessandra Cappellotto con cui ho sempre avuto ottimi rapporti spiegando che è un passo indietro per il ciclismo, non per Vittoria Bussi. La sconfitta è di tutti gli atleti che, a mio avviso, rischiano sempre più di essere gladiatori con l'unico compito di fare spettacolo e divertire, se non si inverte la rotta. Ho proposto che ci siano due punti di riferimento, diversi ma paralleli ed ugualmente da valorizzare: quello di Filippo Ganna, ovvero dell'estrema ricercatezza del materiale, di un ampio entourage a supporto, del professionismo. L'altra via è quella artigianale "à la Bussi", per chi non fa parte di una squadra, per chi non avrà mai la diretta televisiva e sul volo per il Messico sale solo con una persona perché non può coprire più costi. I due modelli devono stare in piedi assieme. Basta che ne cada uno perché si crei una frattura, un vulnus. Perché il ciclismo si faccia male». La notte del 25 dicembre sarà "un'altra notte delle cose concesse", come sono tutte le notti che portano a Natale e lo sarà proprio a causa di questa sconfitta, di questo ciclismo che va in direzione ostinata e contraria rispetto all'auspicio che tante volte ha fatto. Sarà una notte di magia per tutti, talvolta di nostalgia, e per Vittoria Bussi ancor di più perché si aprirà il crowdfunding a sostegno di questo nuovo record, come due anni fa: «Non sono mai stata capace di chiedere e, ancora oggi, penso che scegliere di farlo a Natale sia un modo per perdonarmi una cosa che non farei mai. Però da bambini a Babbo Natale abbiamo chiesto tutti qualcosa, anche i più timidi. Le persone mi hanno capita, anzi, mi hanno sentita come si sente ciò che ci assomiglia e, per lo scorso record dell'ora, ho raccolto ben più di quanto avessi chiesto. Non avrei voluto trovarmi nella stessa situazione e ho parlato ovunque affinché non capitasse. Ho raccontato le mie difficoltà a sostenere il record perché altri non dovessero passarle. Non è servito. Questa notte di Natale in cui il crowdfunding si aprirà nuovamente sarà anche una notte di denuncia, una luce su quel che non va, Un grido. L'ennesimo. Perché non è giusto».
L'approccio di Vittoria Bussi resta quello scientifico, del resto, lei viene dalla scienza: «Credo gli atleti debbano diventare sempre più consapevoli, studiare sempre di più, altrimenti le cose non cambieranno mai. Però deve essere uno studio sincero, interessato, non solo legato al risultato a breve termine. Altrettanto reale deve essere la curiosità: ci dicono che è meglio la forcella larga, si chieda sempre il perché, si scavi, non ci si accontenti di spiegazioni generiche. In Italia, a mio avviso manca la figura del Data Analyst, le università non sono coinvolte, ci sono dottorandi sull'intelligenza artificiale che potrebbero aiutarci e nessuno se ne occupa. Certe volte abbiamo anche dieci ore di dati da analizzare, queste professionalità potrebbero essere un supporto fondamentale. Credo che le atlete e gli atleti possano essere il più grande stimolo per il cambiamento». Per lo stesso motivo, Bussi partecipa a conferenze di scienziati presentando la possibilità che le due anime, atletica e scientifica, convivano nella stessa persona: lo racconta affinché anche la comunità scientifica si faccia sempre più parte di questo processo di consapevolezza e condivisione, di atleti ambasciatori di valori.
A maggio, dopo uno, forse due, record davvero tutto finirà. Sarà difficile, ma in misura inferiore rispetto a quest'anno, perché non sarà la prima volta e perché ora sa che è impossibile smettere all'improvviso e del tutto, per quella mancanza viscerale della bicicletta. Probabilmente inizierà a pedalare un giorno sì e due no, ma continuerà a correre. Smetterà gradualmente, dice così. «Sempre complicato familiarizzare con quel che finisce, anche se è il momento, anche se l'hai scelto, voluto, cercato. Io, però, non posso scordare di aver vissuto la mia carriera. Ho un'età in cui è legittimo scegliere di smettere, perché non si può essere ciclisti per sempre. Diverso è il caso di chi smette non volendo smettere, di chi smette per scelta altrui, per circostanze che nulla c'entrano con la propria volontà. Diverso è il caso di chi smette giovane, molto giovane. A vent'anni, magari. Le scelte forzate, purtroppo, non trovano mai pace, per quante storie ci si possa raccontare. A me è capitato quando ho smesso di fare atletica ed ero giovanissima: una fine violenta, ingiusta. Vorrei dire a chi si trova in questa condizione di non dimenticarsi di quel cassetto chiuso male. Non vi prometto che riuscirete a riprendere, non solo perché non posso saperlo, ma perché non sarebbe giusto e perché, spesso, non è vero, si dice solo per consolare. Però una cosa può accadere se salvaguardate quella passione e continuate a coltivarla: si ripresenterà sotto altre forme, in altri tempi ed in altri luoghi. Non sarà sprecata, non sarà più un cassetto chiuso male. Questo può succedere».
Atelier Boldrini, Aosta
La parola atelier deriva dal francese antico "astelier" che, a sua volta, proviene da "astelle" ovvero piccola scheggia di legno di quelle che cadono a terra durante le ore di lavoro degli artigiani del legno nei loro laboratori, scarti di lavorazione che parlano di un mestiere antico. A Le Pont Suaz, Aosta, presso l'omonima frazione, al civico 51, nasce, nel 2008, proprio un atelier. Nel linguaggio comune la parola si riferisce in generale al lavoro artigianale, può essere adottata per le confezioni, la sartoria, la pittura oppure l'arte in generale, ma questa bottega riprende le origini del vocabolo, quasi fosse lo studio di un linguista, il lemma di un vocabolario.
Si chiama, infatti, Atelier Boldrini perché è un ricordo di quando si era bambini e si trascorrevano interi pomeriggi nella falegnameria di nonno: storia di Roberto che, cresciuto, era diventato istruttore di sci e non c'è nulla di strano, anzi, forse è proprio naturale perché fuori da quella falegnameria la neve cadeva densa e le cime delle montagne, tutte intorno, la custodivano fino a tarda primavera, cullata dal freddo. Roger e Mathieu, i suoi figli, intanto crescevano: avevano una bicicletta che usavano per andare a scuola e per recarsi agli allenamenti sulle piste da sci, magari per fare resistenza. Forse fu questa "l'America" di quei ragazzini che, qualche anno dopo, quando Roberto abbandonò il lavoro sulla neve ed iniziò a lavorare in un negozio di biciclette, avevano già familiarità con quel mezzo. La rivoluzione copernicana, però, l'ha attuata Roberto decidendo di mettersi in proprio ed ecco, come in un cerchio, siamo tornati all'inizio di questo racconto. Ad "astelle", alle schegge di legno e ad un atelier della Val d'Aosta. Da quel momento, le estati di Mathieu erano fra quelle mura, anche se aveva solo poco più di sedici anni. L'anno della maturità è quello in cui inzia a tutti gli effetti a collaborare in negozio, dove, dal 2020, si unirà anche Roger: «Un fratello è quella persona con cui è tutto più facile: discutere, gridare, litigare, non parlarsi, ma anche chiarisi ed abbracciarsi. Roger conosce ogni aspetto della meccanica, a lui devo l'ordine e la precisione. Non è facile, certo, perché portare il lavoro in famiglia non lo è mai. Allo stesso tempo, però, qualunque cosa accada qui dentro ci riguarda tutti: il traguardo è comune. Le discussioni si oltrepassano così».
Era un piccolo negozio in una piccola città quanto è piccola Aosta: è cresciuto con il passare delle stagioni ed ora, cinquecento metri più in là, sono duemila metri quadrati di attività, su due piani, con un'officina di centocinquanta metri poco distante dal negozio: «L'ingresso dell'officina si affaccia sull'unica ciclabile che passa in Valle d'Aosta: qualunque pedalatore che abbia un problema può richiedere assistenza. I nostri meccanici possono usare i martelli e noi possiamo conversare con i clienti nel silenzio. Così è più bello». Atelier Boldrini crede nella possibilità di ascoltare le persone e cercare di farle tornare a casa soddisfatte per la qualità del lavoro svolto e la qualità coincide con il rispetto della parola data, in modo preciso, con la fiducia nel fatto che ciò che si dice diventerà un'azione, che le promesse, di Roger, Mathieu, di Roberto e del ragazzo dipendente, non sono vane. «Noi ascoltiamo con molta attenzione le richieste di ciascuno e agiamo su quella base, non cambiamo nulla, se non avvisando il cliente. Penso al nostro ruolo come ad una guida: ci sono le domande, ci sono le risposte e credo ci sia un'etica precisa. Personalmente consiglio sempre al cliente la bicicletta più adatta a lui, in base al suo livello di abilità e di esperienza in sella: non mi interessa vendere una bici che costa di più, anche se l'avventore può permetterselo, anche se il nostro guadagno sarebbe maggiore». La bellezza deve andare d'accordo, essere in perfetta sintonia, con la comodità perché se manca quest'ultima le persone smettono di pedalare, anche fosse per spostarsi in città e sbrigare le commissioni di giornata. Molti ciclisti arrivano in atelier con notizie acquisite da internet: in questo caso il dialogo è importante, ma non si forza più di tanto la mano, perché è sbagliato e perché il miglior modo di comprendere, anche quanto siano erronee certe convinzioni è di farlo da soli, da qui nasce la fiducia.
«Alcune volte si discute, succede che qualcuno vada via, senza acquistare nulla, magari deluso. Altrettanto vero è che è già capitato che, poi, ritorni e si fidi, magari diventi un cliente fisso. Ecco: non esiste soddisfazione maggiore. Tenere la barra dritta, non rinunciare alle proprie idee e constatare che, alla fine, vengono comprese, fatte proprie. Questa è la nostra filosofia». Un tavolo, all'interno di Atelier Boldrini, è il luogo destinato alla lettura, magari a vedere la televisione, dove le gare vengono trasmesse a ciclo continuo. Ogni tanto succede una cosa speciale: alcune persone entrano in atelier e non lo fanno per riparare una bicicletta, per noleggiarla o per acquistarla, ma solo per parlare, per chiacchierare, per trascorrere qualche minuto di buon tempo. Anche perché nella zona di Aosta e dintorni, da novembre a marzo le biciclette vengono usate ben poco a causa delle temperature spesso rigide: «Purtroppo non siamo nel Nord Europa, dove si pedala anche con cinque gradi sotto lo zero e con la neve che cade. Da noi, talvolta, si preferisce avere la bicicletta bella e non usarla: una logica che non capirò mai. Nel nostro caso, parlo della Valle d'Aosta, siamo una piccola regione che necessiterebbe di una struttura comunicativa più vasta per i tanti turisti che transitano da queste strade. Magari un sistema di app più semplice per scaricare tracce nei dintorni che permettano di pedalare tutti i giorni, perché non è raro che si scelga l'automobile per percorrere un tragitto molto breve che in sella sarebbe percorribile anche più velocemente, sicuramente in maniera più salutare». Per chi pedala nella zona, il consiglio di Mathieu è quello di esplorare la zona della salita del Gran San Bernardo, dove fino a qualche anno fa si organizzava anche una gara: 36 chilometri di salita, percorsi a cronometro.
Ora quella gara non c'è più, ma resta un posto "magico": «Inoltre siamo vicini alla telecabina che porta a Pila: chi noleggia qui le bici, può salire lassù e lassù c'è davvero tutto quel che si può sognare in bici, compresa una piccola mappa con il tracciato delle piste da downhill e di quelle per le famiglie. Vero che noleggiare è più facile in alta montagna, ma questo è indubbiamente un punto a nostro favore». Al piano superiore è presente un vero e proprio showroom, un open space con anche abbigliamento e scarpe.
In estate, in officina, lavorano tre ragazzi: quando un nuovo cliente arriva con una bicicletta, si compila una scheda, con tutti i dati necessari: la raccomandazione di Mathieu è quella di scrivere ogni dettaglio in fase di accettazione, dalla "a alla z", in quanto la chiarezza permette di lavorare meglio. Vi sono tre postazioni: «Al termine di ogni operazione bisogna ripulire ed ordinare tutto: le biciclette, invece, vanno lavate e pulite prima di aggiustarle. Mi sembra il minimo e non solo perché in questo modo non si perde tempo a cercare attrezzi nel disordine: pensiamo ad un ristorante con una cucina sporca, chi ci andrebbe? Che impressione ne avrebbe? Ovviamente vi sono delle differenze, ma il ragionamento è lo stesso, l'idea che si trasmette la stessa. il cliente viene poi avvisato con un messaggio su whatsapp della conclusione del lavoro e con l'occasione può anche richiedere il conto o altre specifiche». Quando Mathieu ha iniziato a lavorare era giovane ed ha imparato tutto da suo padre, da un paio d'anni ha preso in mano le redini dell'atelier ed ha così affrontato la realtà di un mestiere tanto bello quanto complesso, per esempio nel far quadrare i conti e nel conciliare quella che era una passione con quello che è un lavoro con tutti gli obblighi ed i doveri che ne conseguono: c'è meno tempo per le pedalate, resta intatta la voglia di far bene quel che si fa, con il giusto equilibrio, senza dimenticare mai che, in fondo, la bicicletta è lo strumento che gli permette di mantenersi e questo fatto deve meritare tutta l'attenzione possibile, in dedizione e studio.
Mathieu non è mai stato un "fanatico" del ciclismo, però l'ha sempre praticato ed è particolarmente attento ai più giovani che salgono in sella. Il vento sta soffiando a favore, per usare una metafora, perché indubbiamente tutti i campioni dell'ultimo periodo sono fonte di ispirazione per i bambini ed i ragazzi: «Sono fiducia pura, stimoli che giungono che li invitano a provare questo sport. Da bambini colgono soprattutto il valore legato all'amicizia, più avanti, diciamo dai quindici anni in su inizia ad esserci qualcuno che vuole che il ciclismo diventi un lavoro o comunque anche solo la possibilità di competere, di fare a gara. Si tratta di qualcosa di speciale perché la bicicletta, da un lato, permette la fatica, la esalta, dall'altro è anche la possibilità di liberarsi dalla fatica stessa, magari attraverso una discesa, liberi al vento». Le tradizioni sono importanti in atelier, così importanti che si parla in dialetto valdostano e ci si sente a casa: anche l'altro ragazzo che Mathieu vorrebbe assumere dovrà abituarsi a questa consuetudine.Roberto ora ha sessantacinque anni, va ancora in atelier, anche se Mathieu e Roger continuano a dirgli che non potrà lavorare per sempre. Lo si guarda in volto mentre li osserva all'opera e si comprende, a vista d'occhio, quanto sia orgoglioso del fatto che i suoi figli lavorino assieme. Già, Mathieu e Roger che hanno compreso sino in fondo il suo insegnamento rispetto all'onestà, a costo di essere anche troppo buoni. Mathieu e Roger che lo vorrebbero vedere più spesso a pedalare e faranno di tutto perché sia così. Del resto, cosa c'è di più bello di vedere in bicicletta qualcuno a cui vogliamo bene.
Il bisogno di essere ancora ciclista
Il 13 luglio del 2019 eravamo a Malga Montasio, accanto al podio di una corsa. Nulla di strano, se non per il fatto che, questa volta, il podio riuscivamo a vederlo a metà, in ciascuna delle sue prospettive: il fronte ed il retro, come chi osservasse un volto di profilo. Quel podio, ancora non lo sapevamo, sarebbe stato per noi una sorta di Giano Bifronte. Il podio era quello del Giro d'Italia Internazionale Femminile e su quel podio stava salendo Anna van der Breggen che, quel giorno, era riuscita, per la prima volta in quel Giro, a levare di ruota Annemiek van Vleuten: la rivale, laddove il concetto di rivalità si estende e si esaspera. Entrambe olandesi, entrambe con in dote un talento fuori dal comune ed in eredità il peso dell'essere all'altezza della loro bandiera che si sostanzia nella necessità di essere prime, ad ogni costo, sempre. Un destino che stanca, ma ci arriveremo.
Accanto al podio una domanda ci solleticava la mente: dov'era il sorriso di Anna van der Breggen, quello mostrato ai fotografi ed alle telecamere, una volta giunta nel retro del palco premiazioni? Non un semplice cambio di espressione, quasi un cono d'ombra in cui era risucchiata nel momento esatto in cui nessuno, o quasi, poteva più vederla. Eppure aveva vinto, era riuscita a staccare "quella là" di quasi venti secondi, ma un'inquietudine residuava ancora. La risposta è arrivata solo anni dopo ed ha a che fare con il Giano Bifronte di cui accennavamo: Giano è il dio degli inizi, materiali ed immateriali, ed i due volti con cui è rappresentato simboleggiano la possibilità di guardare al futuro, in avanti, ed al passato, indietro. Allo stesso tempo, però, l'impossibilità di osservare il presente, di assaporarlo e di goderne. Il dio dai due volti se da un lato pare un privilegiato è, in realtà, un condannato. Quel giorno di luglio, Anna van der Breggen era in questa situazione.

Poco più di un anno dopo, a Imola, in un fine settimana che le aveva consegnato la maglia iridata in linea dopo quella a cronometro, affermò con sicurezza spietata: «Non cambia nulla e non cambio idea: nel 2021, mi ritiro». Non siamo avvezzi agli elenchi, ma ogni tanto si può fare uno strappo alla regola e snocciolare un palmares, in parte almeno: quattro edizioni del Giro d'Italia, sette della Freccia Vallone, un regno incontrastato dal 2015 al 2021, due Campionati del Mondo in linea, una maglia iridata a cronometro, una Amstel Gold Race, una Ronde van Vlaanderen, una Strade Bianche, due Liege-Bastogne-Liege, una medaglia d'oro olimpica, a Rio, nel 2016, lo stesso giorno della caduta e del temuto dramma di Annemiek van Vleuten. Anna van der Breggen non riusciva più a vivere quei successi. Fa riflettere il fatto che spesso abbia parlato delle nuove generazioni, con curiosità e ammirazione: non solo per il talento, forse soprattutto per l'approccio. Chissà se quel pomeriggio a Malga Montasio stava pensando al motivo per cui molte giovani atlete erano in grado di festeggiare un quindicesimo posto e lei, che a tentoni, sul prato, dopo aver vinto, cercava di recuperare il fiato, in fondo non riusciva nemmeno ad essere così soddisfatta ed un poco avrebbe voluto essere in loro. Anche a costo di togliersi l'etichetta di campionessa, di fuoriclasse olandese. Scattare in testa al plotone, da liberazione, quando tutte le ruote si allontanano sullo sfondo, era diventato obbligo, routine. Che senso aveva?
Van der Breggen ricordava le pedalate di bambina a Zwolle, la sua città natale, dove la bicicletta è mezzo quotidiano. Ricordava le prime gare: non aveva l'attrezzatura adeguata per essere in testa alla corsa, improvvisava, ogni tanto qualche risultato arrivava, spesso era esattamente il contrario, ma allora non importava a nessuno. Ripensandoci aveva trovato una risposta al perché essere olandesi fosse così, al perché delle aspettative, delle richieste e la risposta era nel suo passato, come nel passato di tante ragazze cresciute in Olanda: l'emancipazione. Ovvero la possibilità di prendere la propria strada, di seguirla, di provare, in libertà, anche fosse sbagliata, senza aspettare niente da nessuno. La spiegazione doveva essere questa: e se era possibile diventare professioniste grazie a quella libertà, perché non avrebbe dovuto essere possibile mettere un punto con altrettanta libertà? Ha smesso così nel 2021 ed è salita in ammiraglia del team in cui correva, la SD-Worx. Da quella macchina è riuscita, forse per la prima volta, dopo tanto tempo, a vedere il ciclismo da un'altra prospettiva. Forse è riuscita a guardare il ciclismo più che a vederlo. Attraverso i propri occhi, alla guida di una macchina, e attraverso gli occhi delle "sue" atlete, quelle che ha accompagnato tanto nei successi quanto nelle sconfitte. Emancipazione vuole anche dire avere il coraggio di dire basta e di cambiare quando una situazione "pesa" troppo, quando la bicicletta che sa solo andare avanti rischia di far tornare indietro.
Da ragazza, studiava infermieristica, si immaginava con un camice addosso, una volta cresciuta. Il primo salto di qualità nel ciclismo l'ha fatto quando si è trovata davanti ad un aut aut: senza un consistente passo avanti, rischiava di smettere. Il secondo passo avanti, anche se per molti pareva solo una parola fine troppo anticipata, l'ha fatto quando ha smesso. Il terzo potrebbe averlo fatto qualche mese fa, quando ha annunciato che sarebbe tornata e con un'idea nuova. Cercherà ancora la vittoria, poche storie, perchè è quello l'istinto di un'atleta, ha detto, però, che lo farà solo in certe gare, senza che diventi un'ossessione, perché adesso come non mai capisce quelle giovani cicliste che gioivano per un piazzamento mentre lei era troppo stanca del proprio lavoro per riuscire a gioirne. Si sente fortunata di poter essere una ciclista, di poter faticare al modi delle cicliste. Ora riesce a vedere il presente. Forse Giano aveva un bel vantaggio nel vedere futuro e passato, nello stesso tempo, ma Giano era un dio: a suo modo, in sella, anche van der Breggen è stata qualcosa di simile, poi, quando ha smesso, ha capito che era meglio essere semplicemente una ciclista che, anche nel mezzo di una salita dolomitica, per qualche secondo, forse una frazione, può guardarsi attorno. E lo farà.
A lezione da Elena Cecchini
Il cambiamento per Elena Cecchini è la variabile principale della quotidianità e questo vale anche per i suoi tredici anni abbondanti di professionismo. Quando ha bisogno di staccare, ad esempio, l'unico modo che trova per essere sicura di riuscirci è partire e andare lontano da casa, ma nella declinazione della costante identificata dal cambiamento questo è poco più che un dettaglio. Nata il 25 maggio del 1992 a Udine, è il proprio ruolo che le ha insegnato ad accettare il cambiamento: «Nel mio carattere non è molto presente la flessibilità, non lo è mai stata, so essere abbastanza rigida, anzi, perchè cambiare non mi è mai piaciuto, l'ho sempre vissuto con difficoltà. Tuttavia trascorro circa duecento giorni l'anno lontana da casa e accanto non ho la mia famiglia: certo, mi trovo bene con la squadra e lo staff, ma non sono le persone che ho scelto, non sono sempre quelle che vorrei in quel momento. Se non avessi familiarizzato con il concetto di cambiamento, se non fossi diventata flessibile, non staremmo facendo questa intervista, perché avrei smesso, probabilmente». In Sd-Worx, Cecchini doveva essere una sorta di mentore per le atlete più giovani, lo è stata e lo è tuttora, però attraverso questo compito non ha saputo solo insegnare, è riuscita anche ad imparare. Sì, il vecchio motto secondo cui "di imparare non si finisce mai" lo recita a memoria anche lei, poi aggiunge una considerazione: «In squadra, devo anche far funzionare le cose e, per farlo, è necessario comprendere il carattere di ciascuna, l'indole e ascoltare molto: c'è chi cerca di fare di testa propria e chi chiede maggiormente consigli, penso all'umiltà di Kata Blanka Vas, oppure di Vittoria Guazzini, in nazionale, per esempio. Anche le reazioni di fronte a vittorie, sconfitte ed incidenti sono differenti. Bisogna considerare tutto questo quando si tratta di tenere assieme un gruppo». Qualche volta si sorprende ad osservare le più giovani del plotone e un poco si mangia le mani perché vede una fame che anche lei aveva anni fa e ora non ha più, nonostante mantenga la professionalità e l'attenzione ai dettagli. «Mi manca quella voglia di impegnarmi solo per me stessa. Nelle classiche riesco ancora a non pormi limiti, ma in molte gare, diciamo il sessanta percento delle corse, parto solo con l'idea di aiutare le altre e per me non sogno nulla. Loro tengono duro, vanno oltre ogni cosa, desiderano. Ero così, una volta».
Questa estate, dopo tanto tempo, ha risentito quel sano egoismo di un traguardo tutto proprio. È accaduto quando ha saputo che sarebbe stata convocata alle Olimpiadi di Parigi, allora è tornata a dire no a tutto ciò che, magari, le veniva richiesto per la squadra, ma metteva a rischio la sua preparazione, che si trattasse di gare o di altro non faceva differenza. A Parigi, la camera in cui dormivano lei ed Elisa Longo Borghini era in un vecchissimo istituto per non vedenti, trasformato in dormitorio, immerso in un silenzio surreale, senza alcuna possibilità di distrazione, di svago: «La nostra gara si svolgeva nel pomeriggio, per cui erano molte le ore di attesa, quelle in cui si vive tutto in maniera amplificata. Bene, a livello sportivo ho provato emozioni che non provavo da tanto tempo. Ho sentito sensazioni antiche, di cui custodivo solo il ricordo». Alle giovani cicliste, Elena Cecchini pone, però, una questione: quella fame è cosa buona se non sfocia nel sentirsi arrivate quando si raggiungono i primi risultati, e la sua sensazione è che, talvolta, questo accada. Anche perché, prosegue, almeno fino all'età degli studi scolastici, i risultati contano solo in parte: «Parlo di un'atleta che conosco bene: Demi Vollering. I primi risultati importanti sono arrivati quando aveva ventitré, ventiquattro anni. Se a sedici, diciotto anni non vinci, non cambia nulla nella tua carriera, come potrebbe non decidere nulla nemmeno una vittoria, pur se importante, perché è presto, si cambia, fisicamente e mentalmente. Non credo abbia senso la fretta che c'è di approdare alle squadre World Tour: un anno in più in una Continental può solo aiutare nell'apprendimento. Tanto più che queste squadre "minori" sono ossigeno per il nostro ciclismo», Poi una precisazione, secca, convinta: «Ascoltare ed imparare non significa obbedire sempre e comunque, sia ben chiaro: una ciclista deve volere ed essere in grado di far di testa propria, il punto è che si può agire autonomamente quando si è imparato a considerare tutti gli elementi, a comprendere la situazione di corsa in ogni aspetto. Questo è possibile osservando. Certo che, se per salvaguardare una top ten personale personale, si impedisce alla leader del team di vincere, non si è fatto un buon lavoro. Si è badato al proprio orticello, ma una squadra non funziona così». Scherza Elena Cecchini, «non è nonnismo, assolutamente, non mi permetterei mai, parlo solo della mia esperienza».

Allora si ritorna al 2011, agli inizi in Chirio Forno d'Asolo: lì il riferimento era Giorgia Bronzini, ciclista che aveva già una visione da direttore sportivo della gara. In pista era l'ombra di Marta Tagliaferro, successivamente gli esempi da osservare sono stati, nel periodo alla Cipollini. Tatiana Guderzo, Monia Baccaille e Marta Bastianelli. "Potrei portare l'esempio di Elisa Longo Borghini: noi abbiamo un anno di differenza, abbiamo fatto strada assieme, ritiri in altura insieme e, almeno fino al 2016, le nostre programmazioni erano simili, poi i programmi sono cambiati, ma, quando ci capita di parlare di ciclismo, parliamo della stessa cosa: il nostro ciclismo. Quello che negli anni è cambiato tanto, mentre noi siamo diventate atlete di esperienza". Una fotografia ritrae un loro abbraccio al termine della prova di Parigi: avevano condiviso il ritiro di preparazione e ogni giornata in terra francese. Elena Cecchini si rimprovera qualche errore in gara: non aver sfruttato l'attimo decisivo e non capito cos'era successo nel momento della caduta che aveva frazionato il gruppo. Dice che avrebbe potuto stare con le prime e dare ancora una mano e ammette tutta l'amarezza di quell'abbraccio: «Ora penso che dovremmo essere orgogliose di quel giorno, nonostante tutto, ora direi questo ad Elisa». Se dovesse identificare i cambiamenti principali avvenuti nel ciclismo ne sottolineerebbe prioritariamente due: uno riguarda proprio il periodo di pausa al termine della stagione. Il primo stravolgimento è avvenuto intorno al 2016, il secondo post pandemia: «Anni fa, a settembre era già possibile staccare, andare in vacanza, riposarsi. Adesso, in alcuni casi, si fa non più di una settimana di ferie e, sono sincera, io patisco questa situazione ed i miei dati descrivono alla perfezione questo mio sentire: più posso riposare nella stagione invernale, più rendo durante la stagione, altrimenti, alcune volte, in primavera accuso il calo. Spiace dirlo, ma in questa rivoluzione anche i social hanno avuto un ruolo decisivo».
Elena Cecchini si riferisce alla condivisione della propria attività sui social ed al sentimento di frustrazione o di ansia che questa può generare in chi in quel momento, magari, è in ferie. A lei accadeva qualche anno fa, poi la piena maturità atletica l'ha portata a concentrarsi solo sul proprio allenamento, soprattutto perché sui social «è possibile ingannare, postare una foto di giorni prima, sono giochi mentali molto spesso». L'altro cambiamento, racconta Elena Cecchini, ha un doppio volto ed è legato ad un ciclismo femminile che è diventato sempre più professionale, con conseguenti aumenti di stipendio: «Certamente è un dato positivo, non ci sono dubbi, tuttavia l'aspetto "gruppo squadra" ne risente. Spesso si cambia team ogni due anni perché, tra le altre cose, altrove si guadagna di più. Si tratta di una scelta legittima, non è una critica, è un dato di fatto. Assomigliamo più al ciclismo maschile perché un ciclomercato così intenso da noi non era nemmeno immaginabile».
Dalle analisi ai bilanci, guardando al 2024. La prima immagine è quella di Lotte Kopecky che, al Blockhaus, al Giro d'Italia Women, riesce a tenere la ruota di Elisa Longo Borghini in una giornata che per la squadra è stata di grande ottimismo, "quasi un miracolo sportivo": «Diciamocelo: Lotte non ha le caratteristiche e, al Giro, non aveva neppure la squadra per conquistare una corsa a tappe. Tuttavia, durante la prima riunione aveva parlato chiaro: "Ragazze, io non sono qui per la classifica generale, però voglio stare il più possibile vicina alle prime in classifica, non perdere secondi e provare a tenere duro. Poi si vedrà sul Blockhaus se potrò giocarmela". La sconfitta all'ultima tappa è stata un duro colpo, durissimo, ma Kopecky non ha perso lì, ha perso alla cronometro inaugurale quando ha lasciato per strada più secondi di quelli che concede abitualmente». Pochi giorni prima di partire per il Giro, Cecchini le aveva chiesto che preparazione avesse fatto, la risposta l'aveva sorpresa in quel momento, ma, oggi, accresce ancor più la considerazione del valore della belga: «Mi disse di essersi allenata a casa, sui cavalcavia e sugli strappi nei dintorni: è la dimostrazione della capacità di soffrire di questa atleta, molto più alta della media, perché, sul Blockhaus, Lotte ha sofferto tanto». L'altra istantanea va subito al Tour de France, conquistato da Kasia Niewiadoma e perso da Demi Vollering per soli quattro secondi: Cecchini racconta dei primi anni di Niewiadoma e quanto soffrisse la pressione, motivo per cui spesso "falliva" proprio gli appuntamenti a cui teneva di più. La sua fragilità era nell'aspetto mentale: «Non fosse cambiata, in quell'ultima tappa del Tour sarebbe crollata, invece non ha mai mollato e sull'Alpe d'Huez, nel finale, ha persino recuperato lo svantaggio accumulato.

Ovviamente sono dispiaciuta per Demi, ma mi fa piacere per Niewiadoma e Canyon-SRAM». In realtà, nella riunione del mattino le indicazioni erano state differenti: Vollering avrebbe dovuto solo saggiare Niewiadoma sulla prima salita e, anche se l'avesse vista in difficoltà, non avrebbe dovuto proseguire l'affondo, salvo attaccare nuovamente sull'ultima asperità. «Alla fine, però, l'unica spiegazione è nel fatto che doveva andare così. Mi spiego meglio: a mio avviso l'errore di Demi è avvenuto il giorno della caduta. Perché era troppo nelle retrovie del gruppo e perché, in maglia gialla, avrebbe dovuto ripartire subito e controllare solo al traguardo le proprie condizioni fisiche. Serviva maggiore lucidità e reattività. Però, detto questo, sono stati troppi gli avvenimenti durante il Tour che hanno remato in direzione contraria, dal primo all'ultimo giorno. Piccole o grandi. Certe volte non deve andare e, leggendo in maniera razionale il nostro Tour, probabilmente non doveva andare. Sicuramente però l'ultima tappa è stato un inno al ciclismo e uno spettacolo per chiunque».
Impossibile non chiedere ad Elena Cecchini un suo parere sull'accaduto durante la quinta tappa del Tour: quella della caduta di Vollering non attesa dalla squadra: giornata che ha suscitato molte polemiche e rispetto a cui le atlete SD-Worx hanno sempre negato qualsiasi problematica interna al team: «Siamo state molto attaccate e quando accade, soprattutto le donne squadra hanno l'istinto di proteggere il gruppo. Diversi hanno detto che è accaduto perché si sapeva che Demi avrebbe cambiato casacca e da fuori capisco il retropensiero, ma non è stato così. Rispetto alla dinamica è difficile dare un giudizio per chi non era presente. Io mi sarei fermata? Certo, io mi sarei fermata. In corsa, però, dicono di non aver sentito alcuna comunicazione e si sa che un conto è giudicare la situazione dall'esterno e una dall'interno. Blanka Vas era davvero sorpresa al traguardo e Bredewold mi ha detto di aver sentito la notizia dalla radiolina solo diverso tempo dopo perché la radio non funzionava». Si arriva così a proiettarsi sulla nuova stagione, quella del 2025: da un lato la mancanza di Demi Vollering, per Cecchini anche una mancanza a livello umano, oltre che sportivo per l'indubbio talento dell'olandese passata a FDJ SUEZ, un rapporto che la friulana vuole preservare anche ora che saranno rivali, dall'altro una squadra che cambierà molto, con nuove atlete in arrivo e, forse, soprattutto con il ritorno in sella di Anna van der Breggen: «Ho già avuto Anna come compagna di squadra ed è stato facile perché lei è così come la si vede: in bicicletta o giù dalla bicicletta. Credo ci sia la possibilità di divertirsi, anche se l'inizio sarà strano, con tanti cambiamenti, come nel 2021. In più mancherà Christine Majerus, che si è ritirata, e lei era una di quelle atlete uniche nel fare gruppo, nel tenere unito il team: una vera e propria colonna. Però, se siamo brave a gestire il cambiamento, abbiamo carte per fare bene: penso a Kopecky, a Wiebes, ma anche a Vas. Per le classiche a mio avviso Marta Lach sarà un'atleta fondamentale, le sue caratteristiche faranno la differenza». Van der Breggen, spiega Cecchini, era stata bravissima ad entrare nel ruolo di direttore sportivo, qualcosa che sembrava naturale per lei: sembrava strano a tutte che, a cena, si sedesse al tavolo dei direttori e non assieme alle ragazze, tuttavia lei riteneva giusto farlo, consentendo alle atlete di stare assieme e, allo stesso tempo, familiarizzando con lo staff, visto che, ora, faceva parte proprio dello staff. Ora, continua l'atleta friulana, dovrà essere altrettanto brava a mentalizzarsi nuovamente sul fatto di essere una ciclista.
Molte voci hanno sollevato la problematica delle tante campionesse in un'unica squadra e del rischio che questo, per paradosso, possa portare più difficoltà che risultati nella prossima stagione. «In termini generali è una considerazione comprensibile, calata nel contesto credo non si porrà il problema. Personalmente ritengo che la nostra forza sia sempre stata nella squadra, nonostante i numeri impressionanti delle singole atlete. I nostri direttori sportivi ce lo hanno sempre detto: singolarmente nessuna avrebbe raggiunto questi risultati. Ed i risultati li abbiamo davvero costruiti assieme, anche rispetto alle tattiche ed alle riunioni di squadra. Certo che il direttore sportivo espone la propria idea sulla corsa, ma la decisione viene sempre presa attraverso un confronto, uno scambio. Guardiamo alle vittorie di Wiebes: senza Kopecky sarebbero state più difficili. Reciprocamente lo stesso vale per i successi di Kopecky. Io ricordo come ora il giorno in cui Lotte espose alla squadra alcuni traguardi su cui avrebbe voluto fare bene. La prima a parlare fu Lorena: "Lotte, quando hai bisogno, io sono al tuo servizio, la volata te la tiro io". L'una senza l'altra non vincerebbe così tanto».
Dopo aver spaziato in lungo ed in largo sui tanti aspetti del ciclismo, Elena Cecchini si concede una parentesi personale: «Sono masochista, da anni. Mi sembra non sia mai abbastanza e quando arriva qualcosa di buono o di bello non me lo godo mai perché ho l'impressione di non meritarmelo. Così, negli ultimi tempi, quando sto vivendo un bel periodo mi ripeto: "Sì, è la vita che mi merito”. Devono passare gli anni per capire quanto si vale: sono sempre stata onesta, ho lavorato duramente per le squadre per cui ho lavorato, ho fatto il possibile. Forse per questo trovo rispetto e considerazione e, quando succede, mi sento orgogliosa. Strano, ma vero».