Bikeboobs: una strada rosa in costruzione

«Ero una ragazza con le idee abbastanza confuse, tanto riguardo a quel che volevo, quanto riguardo al mio essere, alle mie potenzialità. Ho intrapreso studi creativi e un lavoro che ha a che vedere con la creatività, ma sentivo che qualcosa mancava per definire il quadro. Quel pezzo mancante, alla fine, era la bicicletta: mi ha permesso di scoprirmi davvero, di dirmi, quasi sorpresa, "ecco, io sono così, io sono questa persona qui". Ha ampliato la visione di me stessa e solo quando hai ben presente chi sei tu riesci a vedere davvero gli altri nella giusta prospettiva. Ora le pedalate sono i miei "spazi vuoti", quelli in cui mi libero di tutto ciò che frulla in una mente iperattiva e metto tutto in ordine, per ricominciare, per riprendere. Seduta ad una scrivania, questo processo mi è impossibile. Che lusso è stata per me quella bicicletta: scoprirmi, definirmi e rifiatare».

Il lieve accento toscano con cui vengono scandite queste parole è quello di Agnese Gentilini, fondatrice di Bikeboobs. Si tratta di una associazione tutta al femminile, nata con l'idea di avvicinare le donne all'attività ciclistica, sportiva, performativa, oppure amatoriale, legata solo al piacere di pedalare, che, in realtà, nel tempo, ha iniziato a occuparsi a tutto campo del tema benessere, salute e di tutte le tematiche che hanno a che vedere con il femminile: alimentazione, prevenzione, violenza di genere e diritti. Bicicletta e attivismo, insomma. «Purtroppo- sottolinea Agnese- c'è un pregiudizio sulla figura della donna, come se non potessimo fare certe cose, riservate agli uomini, o, perlomeno, non potessimo farle da sole, in autonomia. Noi invitiamo le donne a tenere gli occhi aperti, a non farsi definire, a non farsi escludere, a non lasciare che siano gli uomini a dibattere e decidere su questioni che le riguardano».

Il progetto inizia nel 2019 da un incontro fra tre amiche, oltre ad Agnese, Giulia Vinciguerra e Sara Paoli, ma ha radici profonde, probabilmente già nel 2014, nel giorno in cui le venne l'idea di percorrere il Cammino di Santiago non a piedi, ma in bici, assieme al marito che già si cimentava nell'enduro: di fatto un modo per stare in compagnia, per andare via assieme. I primi allenamenti sono finalizzati a questo, un filo che si riallaccia con la bicicletta che aveva da ragazzina, con il cestino in cui metteva gli oggetti della quotidianità che portava nei suoi giri in città. Anni in cui tutto avrebbe pensato tranne che questo. Una cosa, però, aveva già iniziato a notarla: «Spesso, in bicicletta, ci si trovava tra tanti uomini e l'atteggiamento era, talvolta, di derisione, di giudizio, con occhi strabuzzati. Della serie: "Tanto non siete capaci". Credo sia una cosa che abbiamo provato tutte o quasi. Al Tuscany Trail del 2021, probabilmente, la volta che ha acceso in me, Giulia e Sara il desiderio di raccontare questa esperienza e condividerla, affinché chiunque la viva sappia di non essere sola». Racconta Agnese che aumentare il numero di donne che pedalano è la via principale per sconfiggere il pregiudizio: se si è poche si può essere un'eccezione, se si è tante, tantissime, si è la regola, questo è l'assunto.

Anche perché per proseguire un'attività di qualunque tipo dopo certi giudizi è necessaria perseveranza che non tutti hanno e che, soprattutto, non è un dovere avere: «Talvolta, dopo questi sorrisi, dopo queste battute, si smette, si cambia strada, specialità. Sia chiaro: è possibile cambiare, certe volte è necessario, ma dobbiamo essere noi a volerlo, per scelta, non per delusione o perché qualcuno ha provato a non farci sentire capaci. Se si condivide, si scopre che la sensazione non è solo tua e soprattutto che si può rallentare, ci si può fermare, portare la bici a mano per qualche tratto, avere dubbi, incertezze. senza timori». Bikeboobs origina quindi Bikeboobs Trail, quest'anno alla seconda edizione. L'intento è quello di dare forma ad una sorta di "strada rosa" fra Toscana e Lazio, una sorta di testimonianza e di monito che si andrà a costruire in cinque edizioni programmate.

Nel 2024, il 5-6 settembre, si parte da Pontedera e si va verso Piombino, verso Livorno: due percorsi, un lungo e un corto, 304 chilometri circa e 248 chilometri circa, con dislivello attorno rispettivamente a 2000 ed a 3500 metri. I due tracciati si incontrano spesso, in modo che sia possibile, per chi lo desidera, unirli, in una sorta di nuova variante: «Nella mente ho una serie di "fotografie" bellissime che fanno venire voglia di partire: la strada sterrata della Via Alta dei Cavalleggeri, con la vista della costa proprio lì sotto, l'entroterra toscano, dai fiumi, ai laghi, al mare, fino a Casale Marittimo e all'ingresso a Pisa che è da togliere il fiato, in quanto vi si arriva da una stradina stretta che, da un momento all'altro, spalanca la vista sulla città e sulla Torre. Tra il giallo, il verde ed il blu, il profumo del mare e della macchia». Agnese Gentilini si augura il sole, la stessa atmosfera del 2023, la voglia di far gruppo e stare assieme. Sì, la bicicletta è proprio un lusso, un lusso attraverso cui andare oltre: parole inutili, giudizi e pregiudizi.

Le iscrizioni sono aperte sino al 31 luglio. Si accede dal seguente link:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-bikeboobs-trail-2024-la-via-dellacqua-753062980647


Velo Cafè, Giubiasco

Le strade di Giubiasco sono ancora segnate dall'acqua di un temporale che si è rovesciato sulla frazione di Bellinzona, nel Canton Ticino. Sull'asfalto, la prima calura, mentre asciuga, è regista dei giochi di chiaroscuro che assomigliano ad un puzzle. Ancora qualche pozzanghera, a riflettere un cielo tormentato, schizza acqua sui marciapiedi al passaggio delle automobili. Non appena voltiamo l'angolo, via al Ticino è intrisa del movimento di un qualsiasi mezzogiorno, nel mezzo di una settimana lavorativa. In questo scenario, al numero 23, la corte che ci si apre davanti pare una macchina spazio temporale. Sì, una corte è, letteralmente, uno spazio scoperto entro il perimetro di un fabbricato, per dar luce e aria agli ambienti che vi si affacciano, ma è anche un elemento che sa di altri tempi e di altri luoghi, qualcosa che solletica i ricordi. Velo Cafè abbraccia ed è abbracciato a questa corte, quasi la avvolgesse e ne fosse avvolto, una sorta di mezzaluna.

Davide Antognini, ideatore e fondatore di questo luogo assieme a Giona Sgroi, inizia a parlarci proprio mentre, voltando la testa di qua e di là, scrutiamo la curiosa conformazione del locale: un'idea che arriva direttamente dalla Spagna, la nazione in cui, grazie a diversi amici e a tanti Bike Café, ha iniziato ad "indagare" la bicicletta. «Se bicicletta è sinonimo di viaggio, di spostamento, in ogni caso, anche i locali che hanno a che fare con questo mezzo possono essere, a loro volta, un viaggio: dai tavolini di legno del nostro bar, in mezzo a quadri a tema ciclismo, ad un divanetto, accanto a giornali e riviste, davanti ad un televisore, vicino a maglie di ciclismo custodite con cura, fino all'officina, al centro della mezzaluna e alla coda, in cui sono depositate le biciclette. Vorremmo racchiudere qui tutto quel che può essere utile, necessario, a chi pedala».

Nel frattempo, abbiamo poggiato l'ombrello all'esterno e, davanti ad un caffè, con il sottofondo di bicchieri che si riempiono ed il profumo del pane caldo, avvolto in tovaglioli e portato ai tavoli per il pranzo, Davide ci rivela qualcosa che, forse, ci sfuggiva: la motivazione per cui, nei metri quadrati, dove tanti anni fa c'era un night e fino all'autunno scorso un vecchio negozio di biciclette, è ora ospitato Velo Cafè e la ragione ha a che fare con la mancanza. Se ci pensate è un meccanismo naturale dell'essere umano: ci si accorge di quel che non c'è e si prova a crearlo, a modellarlo: «Sì, in Ticino non esisteva un Bike Cafè: nella Svizzera interna si trova qualcosa, qui no. Visto che gli uomini non hanno la bacchetta magica, era necessario qualcuno che iniziasse, senza strada segnata: non sapevamo quanti caffè avremmo fatto, quante bici avremmo sistemato, quante ne avremmo vendute. Per aprire un bar è necessaria la gerenza, è un costo non indifferente. Non è stato un passo facile, ma se vuoi qualcosa che non esiste, è l'unica possibilità».


La mano di Antognini indica l'altro lato della strada, c'è una ciclabile che unisce Locarno a Bellinzona, nel 2022, ci dice, sono più di 500 le biciclette transitate lì, e più di 15000 le auto passate sulla strada su cui la corte si apre. In Svizzera, infatti, la bicicletta è molto usata: la parte gare si avverte meno, perché mancano molti eventi nazionali, ma le persone si recano al lavoro in bicicletta, oppure esplorano un territorio variegato e adatto: la salita, i 200 chilometri girando attorno al lago, la Val Morobbia, le strade che corrono lungo il fiume, lo sterrato, manca solo il pavè. «La libertà della bicicletta è, soprattutto credo, la moltitudine di possibilità: un campione può pedalare con un giovane alle prime armi o con un anziano. Semmai cambiano i percorsi, ma si può fare, l'incontro è possibile, il viaggio assieme è realizzabile. Altre volte non succede». Giona è al bancone del bar, anche lui ha sempre seguito il ciclismo ed è l'altra metà di questa avventura: Davide è la precisione, anche esagerata, a volte, Giona la capacità di "lasciar perdere, lasciar andare, fregarsene" quando continuare a pensare non fa altro che appesantire le giornate ed il mestiere già difficile. «Al lavoro in un bar ero abituato, l'ho sempre fatto, alle biciclette no. O meglio, non sapevo cosa sarebbe potuto accadere facendone un lavoro, avendole a due passi dal bancone. Però non ero spaventato, questo no. Credo abbia a che vedere con il fatto che, bene o male, la bicicletta fa parte della storia di tutti, da sempre. C'è un nonno che andava a prendere il pane in bici o che seguiva le corse, c'è un genitore, in certi casi un amico che ce ne ha parlato o che, magari, ci ha fatto scoprire il suo significato. Ogni storia è differente, tuttavia sapere che queste fondamenta esistono è un incoraggiamento che fa passare il dubbio». Il progetto nasce ad ottobre dello scorso anno, proprio seduti ad un tavolo, assieme, la frase chiave è: «A febbraio apriamo».

Il 2 febbraio 2024 è un venerdì e in Via del Ticino 23, dove la corte ed il negozio si incontrano, si inaugura Velo Cafè. Una sera in cui volti, voci, musica e caos si intersecano. Ad un certo punto le persone sono così tante che i bicchieri non bastano; il ritratto dell'apertura è così, bello ed imperfetto, come ogni inizio. Il ciclismo è sempre stato al centro, anche in quella notte, anche nell'arredamento: nelle panchine costruite da Davide e Giona, nei richiami del legno dei mobili e dei tavoli, nei quadri, nei dettagli, nelle riviste. «Non si parte perfetti- precisano- perché per partire perfetti si continuerebbe a rimandare fino a non partire più. Non si parte perfetti e ci si aggiusta passo dopo passo, trovando il giusto equilibrio, anche tra lavoro e vita privata, perché abbiamo una famiglia e serve razionalità. Davanti si cerca di mantenere l'ordine, dietro, spesso, il caos più totale. Nel frattempo, il tentativo in cui ci si sforza è quello di capire le persone che arrivano da noi, di comprenderle, non si sa quasi mai se ci si è riusciti. Qualche sicurezza in più la si ha quando si vede il ritorno, chi torna è stato bene, si è sentito al posto giusto, nel momento giusto». Le biciclette sono sempre tante, un via-vai continuo: all'inizio c'era un solo meccanico a lavorare in officina, scelto attentamente, affinchè fosse il migliore possibile, ora sono due, per essere più efficienti, per aggiustare più bici, per «consentire quei cento metri di felicità, certe volte gli unici che ci si può permettere, a qualcuno in più».
Giona prepara un caffè e torna a raccontare: «Nei progetti è tutto diverso: ti immagini tutte biciclette bellissime, preziosissime, da campioni e si prova l'orgoglio di lavorarci. Poi ti scontri con la realtà e la realtà è che spesso si tratta di bici "sgangherate", poco curate, con tanti anni di attività, usate giusto in caso di necessità. Posso dire che è bellissimo anche così, che c'è voglia di fare il proprio dovere al meglio anche su quelle, più che mai su quelle».

Qualcuno arriva per un caffè e una brioches al mattino presto e ne approfitta per una sistemazione al volo, altri pranzano a mezzogiorno e si fermano a parlare con il meccanico, c'è anche chi, se non esistesse Velo Cafè, dovrebbe uscire prima dall'ufficio per riparare la propria bicicletta, invece, così può tranquillamente fermarsi alla sera, magari chiacchierando in dialetto: «Noi proviamo a trasmettere sicurezza, a raccontare la voglia di uscire dalla propria zona di comfort, di fare il primo passo perché, a ben guardare, è solo quello che ci blocca. Dopo l'inizio, è tutto più semplice. Le persone hanno bisogno di ricevere sicurezza». La stessa di Davide e Giona all'inizio, quando, di fronte alla novità, tutti storcevano il naso, qualcuno, addirittura, suggeriva di lasciar perdere «perché ormai le biciclette non vanno più». Evidentemente si sbagliava, l'hanno sempre immaginato, ora ne hanno la certezza. Velo Cafè è diventato presto un punto di incontro, dai più giovani ai più anziani: si organizzano ride domenicali, gite in bicicletta assieme, pedalate con cicloturistiche e triathlon, incontri serali per parlare di ciclismo, feste e aperitivi, mentre la corte si riempie di persone, musica, si canta e si balla. Si griglia anche e si gusta il cibo come una festa.

Se si parla di sogni e di progetti, Davide racconta che sono più parte del presente che di qualcosa che sarà, del futuro. Anche questo è tipico di quello che è all'inizio, che sta prendendo il via, quando le idee fioriscono in un nulla: «Un esempio è quella che chiamo "ciclo-enologia»: ciclismo e vino, anche grazie al binomio perfetto che abbiamo qui con le tante cantine presenti dalle nostre parti. Anche questo era un progetto, ora è una realtà, l'abbiamo fatto, ci siamo riusciti e continueremo a farlo". Qualcuno entra al bar, si affaccia agli altri ambienti, si guarda in giro, chiede se sia possibile accedervi, dopo un cenno di assenso procede, con curiosità. Ci spiegano che accade spesso, proprio perché nel Ticino nessuno era abituato a un locale di questo tipo, è questione di tempo, di abituarsi e di sentirsi a proprio agio, a casa, accolti dal ciclismo, che è la base comune di tutti, il sottofondo che tutti ascoltano.

Dalla corte eravamo partiti, nella corte torniamo prima di salutarci e percorrere di nuovo quella strada ormai asciugata dal vento che si è alzato. Davide ci accompagna, ci dice che fra qualche giorno, nel fine settimana, qui suonerà un gruppo brasiliano, per cui tutto deve essere pronto: con le mani ci indica come si disporranno, dove saranno le persone, dove i tavolini ed il cibo. Ce lo racconta per quella sera e, nel mentre, pensa già ad altre serate, ad altre possibili cose da fare, immaginando già cosa potrebbero pensare le persone arrivando lì, quanto potrebbero divertirsi, essere contente. Si può chiamare in vari modi questo atteggiamento, contiene molte cose, molte sfumature, noi parliamo di progetti ed i progetti sono vicino alle novità. Come Velo Cafè.


Ciclo Shop, Mezzolombardo

«Ma come si fa a lavorare così? Non sei capace. Non vedi che non sei capace? Non vali niente, diamine, niente». A Mezzolombardo, in Trentino, nella Piana Rotaliana, ai piedi delle balze rocciose e spigolose del Monte Fausior, stretti al corso del Fiume Noce, nonno Sergio gridava spesso così a ciascuno dei suoi sette nipoti, dietro la serranda di un locale in cui lavorava duro dal mattino alla sera: all'esterno l'insegna Ciclo Shop. Ogni tanto, qualcuno lo chiamava: «Sergio, la cena è a tavola». Lui rispondeva, sì, rispondeva, ma continuava a fare andare le sue dita, le sue mani, fino a quando la bicicletta, su cui era chino da qualche ora, era a posto, pronta per far scorrere le sue ruote su un'altra strada. Così, se la cena era a tavola alle diciannove, lui si sedeva sulla sua sedia alle ventuno, talvolta anche alle ventidue.

Quei ragazzi, i sette nipoti, sono tutti passati da quella serranda perché, in un modo o nell'altro, quell'uomo li aveva ispirati, attratti lì come accade con un magnete, una calamita: Sergio era elegante, signorile nel portamento, ma duro, a tratti burbero, poco capace, quasi per nulla, di giri di parole, schietto, sin troppo, fumantino, privo di pazienza quando si trattava del suo mestiere. Di fatto era un "tecnico" della bicicletta, quasi un matematico, schematico in ogni riflessione ed in ogni azione o pensiero di azione; un uomo di altri tempi che usava prevalentemente la bicicletta come mezzo di trasporto, anche per gli acquisti del negozio, a costo di ammalarsi per la pioggia ed il freddo d'inverno e per le volte in cui, anche fuori stagione, bisognava salire in montagna, col cuore a mille dentro il petto. Molti anni dopo, Christian Mongibello, uno dei nipoti, ricorda ancora con gusto il modo in cui nonno eseguiva la raggiatura: la decisione del gesto, la precisione ed allo stesso tempo le spiegazioni. Il punto è che, proprio per il carattere di nonno, alla fine, tutti quei ragazzi andavano altrove, si dedicavano ad altro, stanchi dei rimproveri e di quella sincerità pungente. Christian no, Christian restava al suo fianco. Anche negli ultimi anni, quando la vecchiaia e la debolezza facevano apparire tutto grande, gigantesco, per essere intrapreso: succede quando mancano le forze ed a Sergio le forze mancavano da tempo. Allora quando a Christian veniva qualche idea, quando metteva sul tavolo qualche proposta, lui ammoniva: «No, non si può fare. C'è la crisi, non vedi? Bisogna essere accorti, ponderati». Quel locale aveva ridotto le dimensioni, allo stesso modo in cui Sergio aveva ridotto le forze, quasi fossero legati da un comune destino, era diventata una piccola bottega. Fino agli ultimi giorni.

Christian ha memorizzato la data del primo scontrino emesso da Ciclo Shop sotto la sua guida, quando nonno non c'era più: parliamo di marzo del 2017. Quasi novant'anni dopo l'inizio della sua storia, dal bisnonno al nonno, dal nonno alla madre, fino a lui: quei locali sono rimasti patrimonio di famiglia, mentre i vicoli della vecchia borgata di Mezzolombardo sono sempre più pittoreschi. Anche Christian ha sperimentato altri lavori, ma, alla fine, è tornato nella bottega dove trascorreva i sabati e le domeniche. Per certe cose il tempo pare non essere mai passato: c'è ancora qualcuno che, dalla cucina, grida «a tavola» e c'è ancora un uomo che resta in officina, magari fino all'una di notte, a completare un lavoro iniziato. Il senso del dovere è lo stesso di Sergio, come la fedeltà al lavoro. Le forze sono ritornate al loro massimo e con loro la volontà di sperimentare ed inventare: il negozio si è ingrandito, ne è nato un altro, in estate, addirittura, Ciclo Shop, ha tre sedi. La prima, quella di nonno Sergio, per intenderci, ha una grossa scala al centro, simile ad una "gabbia", che accompagna dritta all'officina, un bancone e quattro cavalletti, adatti al lavoro di due meccanici, le biciclette, invece, sono esposte su sei mensole a muro, ogni bici sembra quasi un quadro da osservare in ciascun dettaglio, sino al ripiano in legno dove sono tutte schierate in fila, rivolte verso la vetrina. «Il punto centrale è l'officina: ho immaginato meccanici in "guanti bianchi", completamente dediti al mezzo, con ogni cura e con ogni attenzione. Un trattamento identico per ogni bicicletta, dalla più economica a quella più ricercata, perché non può esserci differenza nel nostro approccio, nella nostra professionalità. Una bicicletta è una bicicletta». In realtà, oltre a questo cardine, a questo principio, ben poco era già fissato. Una cosa sì, quel buco al centro del locale, dove posizionare la scala, «attorno a quella scala tutto sarebbe cresciuto passo dopo passo, giorno dopo giorno, a sentimento». E, all'improvviso, poche parole, pronunciate nella mente, e rivolte a Sergio: «Hai visto? Questa volta sono stato bravo, questa volta puoi essere fiero di me». Quasi a cancellare i vecchi rimproveri.


Un piccolo divisorio, in officina, permette ai clienti di appoggiarsi lì, mentre le riparazioni vengono portate a termine. Le persone ammirano attente e restano sorprese anche dai gesti all'apparenza più banali: ad esempio, da quel setaccio passato sulle bici, a pulirle, prima di ripararle. I tempi sono cambiati, racconta Christian: «Una volta il rapporto con la clientela si costruiva a partire dal ciclismo, oggi accade esattamente l'opposto. Si inizia a conversare di tutt'altro e, ad un tratto, la persona torna in negozio e si sofferma sulle biciclette. Le Social Ride sono pensate proprio a questo scopo: pedalata dopo pedalata, il gruppo si allarga, perché la voce giunge ad amici, a conoscenti, fino a che sai cosa accade? Da quella porta, entrano due o tre persone assieme che si scambiano consigli, mentre passano in rassegna le biciclette e noi professionisti restiamo a guardare. Quanto è bello?». Il segreto consiste nel fatto che, in questi anni di evoluzione fenomenale del mercato della bici, la differenza la fa il servizio, l'unica via per provare a stare al passo della concorrenza via internet, realtà che difficilmente si può contrastare: «Le persone possono fare avvicinare altre persone, attraverso il rapporto umano. Potrei dirla così: il cliente dobbiamo andare a prendercelo. Il rapporto umano è la strada affinché questo avvicinamento sia naturale».

Rispetto al mezzo vero proprio, Mongibello mette subito in risalto come l'estetica delle nuova biciclette sia indubbiamente di pregio, anche se capita ancora di restare meravigliati, senza parole, da qualche vecchio modello, anche i materiali e lo studio su di essi è migliorato, tuttavia, almeno in parte, è vero quel che la gente dice: «Una volta le biciclette duravano di più». «Non a caso, io chiedo ai nostri meccanici di smontare e montare daccapo le biciclette nuove che arrivano in negozio. Talvolta manca la copertura, l'olio, il grasso. Credo sia parte del Made in Italy di una volta che, a mio giudizio, almeno in parte è andato perso negli anni».
Da un lato del locale, si notano chiaramente cinque biciclette, di diversa tipologia e misura, pronte ad essere utilizzate. Christian Mongibello le ha posizionate in quel modo e, prima di spiegarci il motivo, fa un'unica affermazione: «Nonostante le sue varie declinazioni, la bicicletta è una sola». Qualche attimo di riflessione sul principio appena enunciato e Mongibello definisce meglio i contorni del suo pensiero: «Chi si cimenta nel gravel, talvolta, non riconosce pari valore al ciclismo su strada, vale lo stesso viceversa, e questo discorso è replicabile anche per le altre discipline, per le biciclette elettriche, ad esempio. Bisognerebbe spiegare, raccontare che tutte le specialità contengono qualcosa che vale la pena di essere scoperto, vissuto. L'abbiamo fatto più volte, dedicando tempo ed entusiasmo, purtroppo, però, si arriva spesso allo scontro. Quelle biciclette servono per dire semplicemente: "Prova, proviamo insieme", mettendo da parte un sacco di altre parole. Provare è la chiave». Sì, anche per comprendere la differenza tra costo e valore: il costo è il lato economico, il valore è, invece, qualcosa di intrinseco. I due termini possono coincidere, ma non sempre accade. L'aumento dei costi correlato alle guerre ed ai rincari delle materie prime è un dato che tocca tutti, anche Ciclo Shop, anche le biciclette. Difficile, sempre più difficile, in un momento in cui, spesso, il risparmio, o il presunto risparmio, è messo al primo posto, anche se bisogna andare lontano, anche se il costo della benzina o i chilometri annullano il presunto vantaggio: c'è una convinzione di fondo che non si sradica, su cui però è necessario lavorare, provando a razionalizzare il proprio comportamento.

Di sicuro, il Trentino Alto Adige è terra di ciclismo. La terra natale di Francesco Moser e Gilberto Simoni, fra gli altri, due nomi che hanno avvicinato tanti giovani alle due ruote, rinfocolando la passione anche nei momenti più complessi, «simile a quel che Yannick Sinner sta facendo nel tennis». La cima della Paganella è vicina, le bellezze naturali non mancano, in un anello di cinquanta chilometri, comprendente il negozio, si passa dalle ciclabili all'asfalto, allo sterrato, dal lago alla montagna, magari fermandosi nelle cantine che offrono ospitalità per l'occasione: una varietà che stupisce.

Accanto a Christian, c'è il fratello Marco, che ha lasciato un lavoro ben retribuito, un contratto sicuro, ed umilmente ha iniziato ad imparare come si mettono le mani fra gli ingranaggi di una bicicletta. Christian gli ha spesso detto quel che dice anche a noi: «La parte più bella di questo lavoro è avere la possibilità di dare forma a qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c'era, figlio dell'impegno, del talento e della fantasia». Lui ci ha creduto, ci crede, come facciamo anche noi e non solo. Christian ha due figlie: lo aspettano quando esce per i suoi giri in bicicletta con i visitatori del negozio, lo cercano, durante la giornata, nella casa che è proprio sopra il negozio. La maggiore ha sei anni e, quando torna dall'asilo, chiede di scendere in officina a fare merenda insieme a papà. Altre volte è solo il desiderio di stare in compagnia a fare in modo che quelle due bambine corrano a rifugiarsi nel locale. Christian Mongibello sorride compiaciuto, si immedesima in quel che prova sua figlia: in fondo, somiglia molto a quel che sentiva lui, vicino a nonno Sergio ed alle tante biciclette di Ciclo Shop.


La carovana pare infinita

Maurice Garin era un "ramoneur", ovvero uno spazzacamino, colui che pulisce la canna dei camini dalla fuliggine, per questo doveva essere molto magro, per muoversi con abilità in quel varco stretto. In bicicletta aveva iniziato a correre, insieme ai fratelli, inseguendo una speranza, che potesse allontanarlo dalla miseria, dopo la perdita del padre. Più o meno in questi giorni del 1903, Garin era alla partenza del primo Tour de France, quello che vinse, in poco più di 94 ore, per percorrere sei tappe.

Da un villaggio della Valle d'Aosta, alla cittadinanza francese, a Parigi. In più di centoventi anni di cose ne sono cambiate: Garin non vestì la maglia gialla, quella arrivò nel 1919 ed il primo a vestirla fu Eugène Christophe, lui che, nei giorni del Tourmalet, riparò la forcella della sua bicicletta in una bottega, a Sainte-Marie-de-Campan: c'era un fabbro ad aiutarlo. Ai tempi di Garin, il simbolo era una fascia verde. Il giallo, forse, è una delle cose che da quel momento non sono più cambiate: la maglia, le spighe di grano ed i girasoli. Firenze, dov'è il viola il colore simbolo, assieme al giglio, sarà tinta di giallo per la prima partenza del Tour de France dall'Italia, come Rimini, Cesenatico, Bologna, Piacenza, Torino, Pinerolo.

Firenze dove Bettiol indosserà la maglia tricolore, vinta qualche giorno fa, vicino alla casa di Alfredo Martini, la stessa casa dove si recò a pochi giorni dalla maturità, ma gli esami non finiscono mai e il Tour, che parte dalla Toscana, con il tricolore attaccato alla pelle, sarà un esame, un'emozione. Ne parlerà lui. Non è cambiata l'afa di luglio, la "canicule", quella che "scioglie" le strade, l'asfalto e chi è stato in Francia, sulle vette, sa che non è un modo di dire. La dieta dei corridori non comprende più cioccolata calda, tè, champagne e budino di riso, la preferita di Henry Cornet, ma esiste ancora la figura del "Lavoisier" per segnare i distacchi su una lavagna, con un gessetto e, sicuramente, qualcuno, in città, vedendo un bambino sfrecciare sempre in bicicletta, lo chiamerà "Tour de France", come si narra che gli abitanti di Meensel-Kiezegem, la sua città natale, chiamassero Eddy Merckx, quando scoprì la bici e non la mollò più, lui che di Tour ne vinse cinque. In Francia si continua ad andare a vedere il Tour "à la bonne franquette", ovvero "alla buona", come capita, ma questo non vale solo per la Francia, ma per il ciclismo in generale.

La carovana pare infinita, più lunga delle sue strade, c'è l'acqua che viene spruzzata, ci sono matite, penne, strani salvadanai, cioccolatini e anche salamini: un ricordo del giorno in cui qualcuno ti porta a scoprire il Tour e la sua grandezza, la sua "grandeur". L'eco di "Cent'anni di solitudine" non è casuale perché il Tour è fatto anche di solitudini, in maglia a pois, in fuga, oppure vicino alla voiture balai in coda, come è fatto di rimandi alla letteratura e alla poesia, da Petrarca a Baudelaire e viceversa. Di tappe simboliche, la quinta per Vincenzo Nibali, di anni magici, il 1998 per Marco Pantani. Tadej Pogačar giocava a biliardo qualche giorno fa, Vingegaard e van Aert se la ridevano in allenamento con la nuova divisa. La "Chanson de geste" che ha nome Tour de France parte domani e parte dall'Italia.


Quando finisce il buio: intervista a Giada Borghesi

Anche il 2021 stava per finire e Giada Borghesi continuava ad avvertire quella stanchezza sempre più simile a un malessere. Solo diciannove anni eppure, ogni mattina, al risveglio i suoi muscoli erano indolenziti, le sue braccia erano stanche, svuotate. Un anno prima, di quei tempi, a dicembre, aveva contratto il Covid e tutti i medici con cui parlava, a cui chiedeva consulto, continuavano a dirle che erano sintomi normali, perfettamente assimilabili al Long Covid, il problema era il tempo: ormai erano troppi mesi e Giada non riusciva più a riconoscersi. «Da bambini vogliamo tutti sentirci speciali in qualcosa, sapere di avere un tratto unico, di poter essere qualcuno nel futuro ed io, nell'infanzia e nell'adolescenza, avevo capito che la mia "unicità" potesse trovarsi nello sport, in qualunque sport, perché riuscivo a fare cose difficili con facilità e sentivo un senso di pienezza in quegli istanti. Era stato tutto così fino all'anno prima, anche nei momenti più complessi, ora sembrava non esserci più nulla.

Quel fuoco che mi teneva in piedi era ridotto a fiammella, certe sere a pura speranza senza un fatto a cui aggrapparsi per crederci e, in alcuni momenti, ero io la prima a non crederci più. Ma può finire tutto così? Può sparire tutto?». Ancora oggi, se date un pallone da calcio a Giada Borghesi vi sorprenderà con una lunga serie di palleggi, se la cava bene su un campo da tennis, con pallina e racchetta e, in bicicletta, sono mesi in cui sta meglio e i risultati hanno iniziato a venire. Nel buio di quell'anno voleva i risultati, quelli cercava? Sì, ma, alla fine, c'era una posta più importante in gioco. «All'inizio soffrivo per il ciclismo: correvo le gare di ciclocross alla domenica e, per recuperare, mi serviva una settimana: gli allenamenti erano impossibili e appena recuperavo arrivava un'altra gara a sfinirmi. Ad un certo punto, però, non pensavo nemmeno alla bicicletta, pensavo alla mia salute, a quando sarebbe passata, se sarebbe passata. Volevo stare bene, uscire da quel tunnel, smettere di continuare a fare analisi chiedendo a tutti una risposta, non la soluzione al problema, ma, almeno, l'individuazione del problema».

I consulti, alla fine, una risposta la danno: è celiachia. Un'infiammazione dei villi intestinali che li debilita e rende praticamente impossibile assorbire energie. Si tratta di cambiare completamente alimentazione e serviranno mesi perché qualcosa possa vedersi, nella vita di tutti i giorni e nel ciclismo. Non è facile per nessuno, per una ciclista ancora meno, perché la vita da ciclista porta spesso a cene fuori casa, magari all'estero, non sempre si viene capite, non sempre si trovano gli alimenti adatti, eppure il giorno della diagnosi è un giorno di sollievo per Giada Borghesi: sa da dove ripartire, sa cosa fare. Basta poco quando si sta male, pochissimo. Suo padre Giuseppe, anch'egli ciclista, smise dopo la categoria dilettanti per un problema di salute: «In tanti mi hanno capita, lui, forse, ancora di più. Ricordo che mi diceva che doveva esserci per forza qualcosa, che lo avremmo scoperto e, solo a pensare che esistesse una soluzione, stavo meglio, mi facevo coraggio». Sua sorella, Letizia, ha iniziato a pedalare proprio vedendo le foto di papà e lei, Giada, ha iniziato a farlo vedendo Letizia, la sorella maggiore «da cui imparavo solo guardando, lei ha tracciato una strada in questo mondo che piace ad entrambe e quando sai che qualcuno, prima di te, ha vissuto le stesse esperienze puoi chiedere e, se puoi chiedere, sei meno solo, tutto è più facile». Quel talento non è scomparso, il fuoco torna ad ardere, la fiammella è nuovamente viva: Giada Borghesi prende dei punti di riferimento in gruppo, se riesce ad arrivarci vicino o assieme si sente confortata. «Ricordo che vedevo la posizione in cui era arrivata Alessia Vigilia, quest'anno in FDJ, e, se non avevo perso molto, mi rassicuravo vedendo il suo percorso, era una sorta di ispirazione, pur se non gliel'ho mai detto». A volte vorrebbe solo staccare per un mese, non pensare a nulla, però non può: deve trovare una nuova squadra per correre. Sarà la BTC City Ljubljana Zhiraf Ambedo, squadra italo-slovena con sede in Italia.

Sì, pur non sentendosi soli, certi ragionamenti si fanno in solitudine, in silenzio, mentre nessuno ci guarda, ci sente: nel bene e nel male. Al Giro Mediterraneo Rosa, il 19 aprile, durante la prima frazione, da Frattamaggiore a Terzigno, coglierà il successo: le corse a tappe, tuttavia, non permettono molto di gustarsi quel che accade, da lì ci si sposta al Gran Premio Liberazione, a Roma, dove Borghesi concluderà quinta dietro, fra le altre, a Chiara Consonni e a Silvia Persico: «Lì ho capito quello che stavo facendo e che, dopo tanto brutto tempo, le cose andavano meglio. Soffrire non fa mai piacere, però, forse, se accade, può formarti, in qualche modo, farti capire ciò che vuoi, esserti utile». Soprattutto sono i giorni in cui Borghesi sente il suo corpo come lo vorrebbe, senza stanchezza, senza malessere, la cosa per lei più importante: «Il risultato non mi sarebbe bastato, sarebbe anche potuto arrivare, ma non sarebbe stato sufficiente, dovevo tornare a sentire di avere qualcosa di speciale, qualcosa che potesse farmi "arrivare"». Quel corpo, Borghesi lo conosce alla perfezione, sa ascoltarlo: lei che si allena, senza un preparatore, seguendo le sensazioni e per farlo mette ancora più voglia "perché non si ha una tabella, magari i passaggi dell'allenamento sono differenti, ma è necessario fare tutto, senza lasciare nulla al caso. Il corpo non sbaglia mai". Come al Tour Féminin International des Pyrénées, sul Col d'Aubisque, quando ha avuto la pazienza di rallentare, di prendere il proprio passo e salire con tranquillità: è arrivata sedicesima ed il giorno successivo era a giocarsi la tappa.
Si sente scalatrice, con ampi margini di miglioramento: viene dal ciclocross, ha imparato così a guidare la bicicletta, si cimenta nel gravel, perché la diverte e continuerà a fare cross in preparazione della stagione su strada. Insieme a Letizia, da bambine, a casa della nonna, sul computer si cimentavano in giochi geografici, oggi conosce quasi tutte le capitali degli Stati e, se gliene manca qualcuna, corre subito a cercarla, per poi sfidare gli amici. Ogni tanto sogna la Roubaix o il Fiandre, per le corse a tappe, invece, «serve un pizzico di tempo in più per capire quanto si sia adatte». E Giada Borghesi quel tempo se lo prenderà, ora che sta bene non ne ha più.


Vesuvio Gravel: corsa dei sogni

«Il Vesuvio è una condizione della gente di Napoli. Anche magia, anche una sfida sportiva, se vogliamo, ma prima di tutto una condizione delle persone di questa città: svegliarsi la mattina e vedere questo vulcano, imponente, attivo, conoscendone la potenza, pur se quieto al momento, trasmette quella irrequietezza positiva piena di volontà di vivere ogni secondo al massimo che è, alla fine, il modus di esistere che c'è a Napoli»: in fondo, potrebbe essere tutto qui, in queste poche parole che Luca Simeone, presidente dell'Associazione "Napoli Pedala" e tra gli ideatori di Vesuvio Gravel, ci dice per esprimere l'importanza del Vesuvio nel nome di questa vera e propria festa danzante sui pedali che, il primo giugno scorso, ha raccolto cinquanta ciclisti, per "dividere" il Vesuvio, ovvero attraversarlo, salendo da un versante e sbucando dall'altro. Lassù, laddove il panorama cambia ogni mese, non solo ogni stagione, per questo qui dicono che sul Vesuvio bisognerebbe salire almeno una volta al mese ed i cambiamenti notati, di volta in volta, sarebbero innumerevoli, lassù, laddove nell'estate del 2017 e del 2018 divampava la stagione degli incendi ed il fuoco e le fiamme distruggevano ettari ed ettari di pineta, con segni e ferite ben evidenti ancora oggi. Da quel brutto ricordo è nata Vesuvio Gravel, un brutto momento che prova a guarire nella gioia di una condivisione collettiva.

Il primo giugno, quasi fosse un regalo, tutte le fattispecie climatiche si sono addensate sulle ginestre che disegnano macchie gialle e, forti, resistono alle variazioni della temperatura: freddo, caldo, vento e afa stagnante, «mancavano solo neve e grandine e la rigidità degli inverni più cattivi». La salita, lungo la strada Matrona, dal versante di Trecase fino a Largo Legalità, alterna strade di sanpietrini a quelle di sabbia e sabbione, per, poi, gettarsi su una discesa in cui sembra di "surfare" sulla ghiaia nera, interrotta dal rosa dei fiori, nelle narici il profumo di terra bagnata, contrasta con il verde della pineta dove il pino torna a regnare, nelle orecchie un concerto di uccelli, su tutti il canto dell'Upupa dal corpo marrone e nero, la natura è protagonista assoluta, mentre le gocce di sudore calano dalla fronte e l'odore di sale si mescola alla sensazione di fatica. «La Vesuvio Gravel- narra Luca Simeone- è scattata dalla parte occodentale di Napoli, quella dei Campi Flegrei, ora nota per i recenti fenomeni di bradisismo, da quella zona Plinio vide i primi nuvoloni neri durante l'eruzione del Vesuvio e mobilitò i soccorsi. Anche noi, ogni tanto, guardiamo quella zona e, proprio in corrispondenza del Vesuvio, vediamo delle nuvole che si ammassano sul vulcano: per fortuna sono solo nubi, ma il pensiero corre a quei tempi».

Lungo i 108 chilometri del percorso, si comprende sempre più come il gravel sia la modalità migliore per avventurarsi in questi luoghi, perché non è solo corsa e velocità e non è solo esplorazione e conoscenza del viaggio lento, bensì entrambi i fattori messi insieme, nonostante, Simeone lo precisa più volte, la bicicletta è, in fondo, una sola, ed un ciclista è un ciclista a prescindere dal mezzo su cui pedali, anche per questo qualcuno ha scalato il Vesuvio con una bicicletta vintage. «Si è generato un forte entusiasmo collettivo che ha diffuso il senso della scoperta tra tutti noi: le persone di Napoli erano contagiate dalla stessa meraviglia dei calabresi o dei romani, pur conoscendo già bene il posto: un arricchimento che passava di mano in mano, di sguardo in sguardo». Talvolta questa felicità deriva solo dal recupero di un pezzetto di terra, di un monumento, magari del Castello Mediceo di Ottaviano che, dopo anni, è tornato ad appartenere alla comunità, ad essere bene comune. Nel frattempo, il resto era tutto fatto dall'inizio di giugno: dal profumo di pomodori all'avvicinarsi dell'estate in terra vesuviana, dagli orti e dalla varietà di frutta e verdura pronta a maturare ed il tempo pareva una variante inutile, tanto si stava bene.


Il prossimo anno, Vesuvio Gravel diverrà un trail da percorrere in bikepacking, 350 chilometri in tre giorni: le persone già lo sanno e la dimensione del futuro è un sogno che inizia a respirarsi nell'aria: «Altrove sognare è un piacere, talvolta un lusso, a Napoli si sogna per necessità. Sono talmente tante le cose che non vanno, quelle da aggiustare e da sistemare che è obbligatorio provare ad immaginarle in maniera differente per modificarle. Spesso parte tutto da un gruppo di amici che si ritrovano, mettono assieme le loro idee e partono, può valere per l'imprenditoria o per un viaggio». Nel caso di Luca Simeone e di "Napoli Pedala", l'idea è quella di cambiare Napoli attraverso la bicicletta, con eventi in bicicletta di ogni tipo, soprattutto con una chiara propensione al racconto della realtà, quella che la fatica permette di vedere meglio: «Mi piace dire che le nostre sono pedalate d'inchiesta, dai quartieri popolari a quelli maggiormente aristocratici, osservando attentamente come sono e come cambiano, senza cancellare nulla, senza la rappresentazione da cartolina che spesso viene fatta: i Quartieri Spagnoli ad esempio. Un tempo, la domenica si sentiva il profumo di ragù, ora il profumo di curry, dato da diverse comunità di indiani che vi si sono stabilite in questi anni. Loro usano la bicicletta, loro acquistano biciclette, loro ci insegnano come usarla, come vivere la città in bici. Possiamo e dobbiamo imparare da loro».


E, a proposito di sogni, viene spontaneo parlare di Ciro Poppella, di quella sua bottega di dieci metri, all'inizio, dove già creava dolci, al rione Sanità mentre fuori avvenivano anche sparatorie: alcuni giornalisti chiesero a Poppella come si faceva a trovare la forza ed il coraggio di continuare. Lui disse che si focalizzava sul buono, sugli aspetti positivi e che, chissà, forse un domani avrebbe nevicato al rione Sanità. Da quel sogno nacquero i "Fiocchi di neve", un dolce che ora tutti conoscono, per cui tutti vanno matti. Questo non spiega tutto, ma molto sì.


Fede Bike Service, Alessandria

Nei pensieri di Federico Pezzano, in quei giorni, non c'era nulla di tutto ciò che, nella descrizione di questo primo pomeriggio di primavera ad Alessandria, tra via Teresa Michel e via Gaetano Donizetti, pare esistere da sempre: il modo di scherzare e di prendere in giro l'essere umano che hanno i ricordi, quando si intrecciano con il fluire del tempo. Pezzano, nel periodo giovanile, aveva intrapreso il mestiere di orafo incassatore, un lavoro particolarmente sviluppato nella sua zona: in un laboratorio, inseriva e fissava pietre preziose di varie tipologie in cavità apposite, predisposte, denominate "castoni", realizzate sulla struttura di un gioiello. Nei momenti liberi, approfondiva, in maniera minuziosa, tutto quel che riguardava i motori e, sin dai diciotto, diciannove anni, seguiva e praticava l'arte marziale del Taekwondo, le biciclette erano altrove. Forse, proprio in una piccola cantina della Lomellina, a cinquanta chilometri dal paese natale di Pezzano, nei dintorni di Pavia, non lontano dalla maestosa Piazza Ducale e dalla Torre del Bramante di Vigevano o dal borgo di Lomello, dove il padre di una ragazza, che ancora non conosceva, faceva il fabbro. Quel signore, anni prima, era stato un ciclista amatore di ottimo livello, con buone qualità, ben noto in zona. Quella ragazza, invece, di lì a poco, l'avrebbe incontrato, sarebbe diventata dapprima la sua fidanzata e successivamente sua moglie. Così pure lui, in quella cantina, era entrato: aveva visto i lavori del suocero e anche la bicicletta di quando era nel plotone dei professionisti. Un giorno, quando le cose si erano fatte serie, prendendolo da parte, quell'uomo si era rivolto a Federico, tra il serio ed il faceto: «Sembra che presto anche tu farai parte di questa casa. Devo dirti una cosa: quando ti metti a pedalare seriamente, ragazzo mio? A casa nostra non si può non aver confidenza con la bicicletta, non è proprio permesso. Sia chiaro». Non c'erano molte alternative: bisognava pedalare.

«La prima bicicletta con cui mi misi alla prova fu proprio la sua. Pensa che lui è sempre stato un uomo abbastanza minuto, non altissimo di statura, personalmente supero il metro e ottanta: per me era quasi una "biciclettina", eppure iniziai proprio così. Mi innamorai, come mi ero innamorato di sua figlia, e la scintilla scoppiò da quella piccola bicicletta». La curiosità ha varie possibilità di applicazione: Federico inizia ad applicarla alle biciclette, nello stesso modo in cui la applicava ai motori, con la medesima passione. Nel fine settimana, gareggia con amici, non solo, è anche il meccanico al seguito delle loro corse: mani sporche di olio e studi ed idee per risolvere le problematiche, prima del via, casco, pantaloncini, guantini e "garùn", come avrebbe detto Alfredo Binda, ovvero gambe, all'abbassarsi della bandierina e al via della contesa. Nel frattempo, a casa sua, aveva preso forma una piccola officina, in cui si cimentava nei primi lavoretti, con tanto di divanetto a rendere l'ambiente ospitale. Non mancava proprio nulla: un lavoro solido e un mezzo, un insieme di viti, bulloni ed ingranaggi, che gli aveva aperto un mondo in cui rifugiarsi a fine giornata. L'equilibrio si rompe proprio in quell'istante, circa sedici anni fa, per volontà di Federico, che si licenzia dall'incarico di orafo incassatore e ricomincia tutto dall'inizio. «C'era un'officina storica di biciclette, ad Alessandria, anch'essa gestita da padre e figlio. Il padre anziano si avvicinava alla pensione ed il figlio mi chiese di proseguire con lui la storia già iniziata: accettai e trascorsi dieci anni fra quelle mura, finché non iniziai ad avvertire una sensazione di malessere, quel posto iniziava a starmi stretto: volevo qualcosa che fosse pienamente mio, sviluppato e costruito attorno a ciò che immaginavo e in cui credevo». Sono sempre varie le ragioni dietro la percezione di "peso" che innesca il meccanismo del cambiamento, pur rischioso: alcune più evidenti, altre celate in dettagli che si vorrebbero differenti. «Ho in mente il bancone su cui facevamo le riparazioni: c'era disordine, attrezzi sporchi e logorati dal tanto uso. Avevo in mente un bancone in cui tutto fosse esposto, perfettamente pulito, ordinato: segno di trasparenza e professionalità. Come quando si entra nell'officina di un fabbro e lo si sceglie anche perché si nota l'attenzione con cui "cura" gli attrezzi del mestiere. Avevo in mente un'attività che fornisse un servizio: parola importante, da spiegare e da portare in una professione».

Federico Pezzano, da solo, metterà le basi di quello che, da lì a breve, sarà Fede Bike Service, nonostante le difficoltà e i dubbi dei primi periodi: «Io ho continuato, nonostante la pandemia che sarebbe emersa di lì a poco, e, da quel giorno, non conto le mattine che ho aspettato felice perché "sarei andato a fare il mio lavoro». Non è cosa da poco". Il fascino per la bicicletta è multiforme, ma l'espressione massima, almeno per Federico Pezzano, è nel meccanismo della ruota, più precisamente nel centrare la ruota: «Credo che il centro di questa "attrazione" sia legata al fatto che la ruota sia l'ultimo contatto della bicicletta con il terreno: un legame finissimo che, però, permette alla bici di sviluppare il suo movimento e la sua velocità. Un fatto che ho sempre osservato con grande attenzione». Allora si può iniziare ad indagare il concetto di servizio, ponendo, in primis, una distinzione tra mettersi al servizio e offrire un servizio: «Il primo concetto si ricollega a quel che prova a fare chiunque si relazioni con il pubblico. Il secondo concetto, quello di cui parlo io, si sostanzia in molte fattispecie differenti: ciò che fa la classica officina, la regolazione del cambio o il cambio delle pastiglie dei freni, ad esempio, e ciò che fa chi si occupa della messa in sella, ma non ci si può fermare qui. Offrire un servizio significa anche rendersi disponibili all'ascolto delle domande e dei dubbi, a prescindere dal fatto che il cliente scelga di far eseguire a noi il lavoro o meno, cercare di trovare una soluzione di fronte a qualunque problema si ponga». La scena più comune, da Fede Bike Service, infatti, è spesso quella di due persone sedute davanti ad un computer per minuti e minuti: l'acquisto avverrà, magari, online, in quell'ambiente, reso familiare anche dal tanto legno presente nell'arredamento, si apre un dialogo fitto, di domande e risposte, talvolta di interrogativi che restano sospesi nell'aria e permettono a Federico di crescere, di aggiungere ulteriore conoscenza alla propria professionalità. Intanto il concetto di bicicletta sta cambiando, gli esempi sono molteplici, quello più vicino a Pezzano viene da "Monferrando", un evento gravel che proprio Federico organizza: «La fatica sfocia in una festa bellissima, dove si trova il gusto di un panino gourmet, un bicchiere di vino, un dolce, la musica, la compagnia e anche una gara conclusiva: non sui pedali, ma cimentandosi nel cambio di una camera d'aria. Le persone, ormai, cercano questa cosa qui». L'attenzione al dato umano è certamente una prerogativa dell'approccio di Pezzano.

«Fare un buon lavoro, se possibile un ottimo lavoro, è importantissimo. Tuttavia anche il lavoro migliore se eseguito senza comprensione della persona con cui ci si relaziona è un passo fatto a metà, sbilenco, mancante di qualcosa. Donne e uomini possono passare sopra l'imperfezione, non passeranno mai sopra al non interesse, alla non empatia. Il motivo per cui riaprono quella porta è questo prima di ogni altro». Nell'ambiente si dice che Federico Pezzano riesca, spesso, a risolvere problemi di fronte a cui altri si fermano, lui ironizza, poi torna serio e aggiunge un altro punto alla lettura del proprio mestiere: «Non mi sento più bravo di nessuno, anzi, penso che il modo migliore di fare questo lavoro sia mettersi alla pari, di chiunque, dei clienti, come dei colleghi, perché solo così si impara e posso assicurare che almeno qualcosa si impara da tutti. I problemi che risolvo? Resto sveglio la notte a pensare fino a che non trovo la soluzione, come accadde tempo fa con un amico a cui smontai tutta la bicicletta la sera prima di un evento. Confesso che gli avevo già cercato una bici di scorta, per il timore di non riuscire a farcela». Del resto, Alessandria vive ancora la leggenda del "Campionissimo", di Fausto Coppi, l'idea della bicicletta sia come mezzo di locomozione che come mezzo sportivo è ben chiara nelle persone, altrettanto si può dire per la cultura della bici, quello che, forse, ancora manca, spiega Pezzano, è la comprensione del fatto che la bicicletta va oltre a questo: basti pensare a quanto fa bene alla nostra salute, alle endorfine che rilascia, alla sua capacità di liberare la mente, a tutta una serie di altri benefici di cui si parla ancora poco.

Al momento della realizzazione del locale, gli architetti hanno stoppato diverse proposte di Federico per l'arredamento del locale, tuttavia le più significative sono rimaste: il park tool in cui sono depositati tutti gli attrezzi da lavoro e l'atmosfera conviviale, in cui «si lavora seriamente ma c'è anche il momento dello scherzo, della battuta, dell'ironia, che è un toccasana», manca una spillatrice per la birra, un piccolo bar, un "bike bar", magari separato da una parete in vetro dall'officina, in modo da preservare un collegamento tra i due rami di Fede Bike Service. L'unico rammarico è il non essere riuscito a trasmettere ai propri figli la passione per la bicicletta, giocano a basket e sono attenti conoscitori di motori, che smontano e studiano in garage, in questo somigliano al padre da giovane. Proprio ad un garage è legata l'ultima storia di questa visita, una storia che torna indietro nel tempo: «Con il fatto che sistemavo le biciclette di tutti gli amici, davanti al mio garage c'erano sempre un sacco di automobili parcheggiate. Una sera, la situazione destò l'attenzione delle Forze dell'Ordine che mi citofonarono, chiedendo informazioni su cosa stesse accadendo. Spiegai, mostrai. Si fermarono anche loro ad osservarmi lavorare. Non è incredibile?». Sì, è incredibile ed è quello che la bicicletta può fare, lo sa Federico Pezzano, come lo sappiamo noi.


Ritorno alla bicicletta: intervista a Monica Trinca Colonel

«L'adolescenza è un periodo complesso per tutti, io non sono stata un'eccezione. In quegli anni avevo altre cose per la testa e la bicicletta non riusciva più ad entrarci: l'avevo mollata in un angolo, da lì, la presi e la appesi direttamente al muro. Avevo quattordici anni o poco più: sì, i nonni non erano stati bene in quei momenti, è vero, ma la responsabilità della decisione è stata solo mia. I miei genitori non volevano smettessi, a me essere una ciclista non interessava più, ero abbastanza "debole" a livello caratteriale, mi sono rafforzata solo più tardi, anche grazie all'altro lavoro, quello che non aveva nulla a che fare con una passione, ma solo con la necessità di mantenersi, nel campo dell'ottica, degli occhiali da vista. La bicicletta era appesa e per molto tempo non l'ho più nemmeno sfiorata». Se è vero che la storia di Monica Trinca Colonel, in sella ad una bicicletta, è una storia in due tempi, è certamente vero che l'intermezzo ha a che vedere con queste parole: qui ci sono le cause, da qui prendono il via le conseguenze. Ma di queste parleremo più avanti.

Classe 1999, venticinque anni compiuti il 21 maggio, di Grosotto, Trinca Colonel ha preso in mano la prima bicicletta da giovanissima: era sotto un albero di Natale, uno dei tanti che da bambini hanno sorprese vicino alle radici. Il fratello desiderava una bicicletta ancor prima di poter pedalare, quando riuscì a "cavalcarla", iniziò a gareggiare, e ad accompagnarlo c'era proprio Monica, sua sorella. Nessuno, in famiglia, faceva parte di quel mondo: suo padre seguiva altre due ruote, quelle delle moto. Cominciò così, guardandolo e avendo voglia di provare e, da quel momento, quella ragazzina non mancò nemmeno un allenamento: «Non riesco a iniziare a fare qualcosa tanto per farlo, per occupare il tempo. Non volevo perdere, mi arrabbiavo se succedeva. Era un gioco, ma ho imparato presto il valore di giocare seriamente». Il ciclismo, dapprima mountain bike, successivamente su strada, le è servito per accantonare parte della timidezza che affligge molti da ragazzi, per acquisire sicurezza, per uscire dalla riservatezza e mettersi a confronto con gli altri: è un valore che Trinca Colonel riconosce a tutto lo sport, non solo al ciclismo, poi l'adolescenza, anni difficili, e la decisione di smettere. Eppure, in lei, la bicicletta, pur abbandonata su un muro, aveva lasciato un segno. Sì, perché dopo i primi tempi in cui l'allontanamento era un modo come un altro per cercare una nuova strada, crescendo, è tornata a pensarci: «Mi capitava di vedere le gare di altre ragazze, cresciute con me, in televisione e di chiedermi io dove avrei potuto essere in quel plotone. Di più: mi chiedevo proprio quante possibilità avrei avuto di arrivarci, se avessi continuato». Invece, ora, usava la bicicletta solo per brevi spostamenti, magari in pausa pranzo, all'uscita da quel negozio di Livigno dove lavorava. Su e giù, appena qualche chilometro.

La casa è il luogo dove maturano i pensieri, spesso nei momenti di solitudine, magari in un pomeriggio in cui si è particolarmente insoddisfatti e quel pensiero pesa di più. Allora si aspetta che qualcuno torni in casa e, dopo tante volte in cui si è pazientato, si è rimandato, questa volta si libera la mente e, attraverso le parole, si dona fiato a quell'idea. La persona che rientra, quel giorno, è il suo compagno, le parole sono poche e semplici: "Voglio riprovarci". «Non era facile: si trattava comunque di lasciare un lavoro sicuro per il nulla, in sostanza, perché sappiamo tutti le difficoltà che ci sono nel ciclismo femminile. Le cose sono migliorate, è vero, ma le problematiche restano e affrontarle da capo a venticinque anni, cambiando tutto nella tua vita, è spiazzante, per te e per chi ti sta intorno. Inoltre, un conto è dire di voler tornare, altro conto è essere in grado di farlo. Da ragazzina ero in gamba, ma adesso?. Tuttavia, qualunque lavoro potrò riprenderlo anche successivamente, anche a cinquant'anni, basterà la voglia: il ciclismo no, il tempo che passa può bloccarmi per sempre quella possibilità, così ho scelto e, devo dire la verità, la mia famiglia ha capito bene questa scelta. Non succede sempre, a me è successo ed è stato importante perché da soli è anche difficile decidere».
Proprio il suo compagno, le consiglierà di fare un test per verificare le effettive possibilità ed i reali valori per un suo ritorno in gara, meglio ancora, per proporsi a qualche squadra. Sarà quel test a rivelare valori decisamente positivi: «Mi hanno detto che avrebbero sottoposto il test a diverse squadre. Sono tornata a casa, ho continuato a lavorare, ero in attesa. Quante volte mi sono detta che non ce l'avrei mai fatta? Più o meno quante volte ho pensato l'esatto contrario. Aspettavo una telefonata». A chiamarla sarà Walter Zini, la squadra con cui potrà ricominciare sarà la Bepink-Bongioanni: «Di fatto, non ci si crede fino a che non si arriva alla partenza della prima gara. L'unica cosa che potevo fare era aumentare le ore sui rulli, post-lavoro, per essere preparata fisicamente. Fino al giorno in cui ho lasciato definitivamente il negozio a Livigno». In quel momento, il filo spezzato quando aveva poco più di quattordici anni è stato ricucito: Monica Trinca Colonel è di nuovo una ciclista.

«I movimenti che impari in bici non li scordi mai. C'è un qualcosa di inspiegabile che fa sì che il nostro corpo se ne appropri e non li lasci più. Temevo di faticare a riacquisire l'automatismo, invece mi sentivo a mio agio: certo, stare davanti è stato difficile, nella nuova prima volta, non ci sono sempre riuscita e, probabilmente serviranno altri allenamenti e altre gare per aggiustare quel che manca, ma sono stata soddisfatta sin da subito». Il ciclismo è squadra, anche o forse soprattutto: all'inizio Trinca Colonel è concentrata soprattutto sulle proprie sensazioni, sul non sbagliare, sulla tensione di una situazione a cui non è più abituata. L'importanza della squadra sarà nella disponibilità delle sue compagne, negli incoraggiamenti o nei complimenti, nella consapevolezza che ci sarà tempo e modo di perfezionare ciò che ancora non funziona e saranno loro a guidarla, accanto a Walter Zini. «Zini è diretto: dice tutto quel che deve dire e lo dice esattamente come lo pensa. All'inizio è possibile restarci male, lo capisco, ma nel lungo la sincerità è sempre la cosa migliore. A me, poi, quella schiettezza piace: il mio allenatore di quando ero bambina era proprio così. Inoltre la sua visione di gara è eccezionale: dall'ammiraglia è in grado di consigliare quasi fosse al tuo fianco in gruppo».
Tutti hanno in mente quel che Trinca Colonel ha messo su strada alla Vuelta: ventiseiesimo posto finale in classifica generale, dodicesima nell'ultima frazione, la tappa regina, in montagna, quattordicesima e diciottesima in altre due tappe complesse, sempre non lontano dalle migliori, qualche difficoltà solamente nel vento e nei ventagli, ma l'aveva messo in conto. Il traguardo che si era prefissata era riuscire ad essere fra le prime trenta e ci è riuscita: «Voglio sia chiaro che questo è un punto di partenza, non credo di aver dimostrato ancora nulla, lo farò, di certo ho più convinzione, la sicurezza e la forza che servono per farcela, per provarci almeno». Le montagne le piacciono, ma non si definisce una scalatrice pura, bensì una passista scalatrice, con il traguardo prefissato di migliorare in pianura. Un'atleta legata all'istinto in sella, con la voglia di buttarsi anche in situazioni che lo sconsiglierebbero, che, però, sta imparando ad ascoltare i consigli dalla radiolina, a non prendere rischi inutili, a preservarsi per altri appuntamenti. Si è emozionata ad essere in gruppo con Marianne Vos, la stessa che seguiva in televisione da bambina, e con Demi Vollering, «ciclista perfetta da vedere in sella», ammira Tadej Pogačar, perché vince, per il talento, ma soprattutto «per l'umiltà e la capacità di restare umile nonostante i successi».
La sua storia in bicicletta è giunta al secondo tempo ed è una storia diversa da tante altre, di cui lei va fiera, nonostante le difficoltà: «Non mi sono mai vergognata, mai sentita fuori luogo. In fondo, il gruppo colorato e multiforme è un insieme di donne con storie diverse. Ciascuna è importante. Io provo a portare la mia, chissà fino a dove arriverò».


La galassia di Buonconvento e Nova Eroica

Tutto attorno a Buonconvento, un giallo intenso divampa sulle colline: sono le spighe di grano, ormai mature, mentre il mese di giugno si appresta a lasciare il passo alla calura di luglio. Sono un dipinto in costante lavorazione quelle colline, puntinate di un verde acceso in primavera, brulle durante la stagione della raccolta, a ottobre, e gialle come se il riflesso del sole le colorasse nei primi giorni d'estate. Nei giorni di primavera, da queste parti, verso l'agriturismo in località Pieve Sprenna, quel giallo è quello dei primi fiori, qualche mese più tardi assumerà le sfumature dorate delle balle di fieno.

L'immaginario pittore che le ha disegnate continua a dosare con attenzione la tempera e a scegliere i toni più adatti al cambio del cielo, così l'armonia è costante. Essere in sella a una bicicletta, da queste parti, soprattutto sugli sterrati, è, alla fine, una ricerca di altri tempi, «di un'italianità di anni passati a cui siamo tutti legati, anche chi non era ancora nato, perché, a ben guardare, il nostro bel paese lo abbiamo scolpito così nella nostra mente e vorremmo restasse sempre nel modo di quel tempo speciale»: sono parole di Alessandro Davolio, Marketing Manager e Art Director, di Nova Eroica Buonconvento e questi paesaggi, se ci pensiamo, sono più che mai affini all'essere "eroici" nel senso ciclistico del termine. Sì, perché vi sono le strade bianche e polverose della Toscana, anche loro antiche, "quelle che, negli anni novanta, rischiavano di essere sottoposte all'imponente processo di cementificazione in atto e che Eroica ha sempre cercato di proteggere e tutelare, salvaguardando una zona dal fascino unico, nonostante gli sterrati si trovino in ogni parte del mondo" e perché pedalare nella polvere costa fatica, come sempre quando l'essere umano si fa motore della propria persona, forse ancor di più.


«Permettetemi una divagazione: ricordate i vecchi negozi di dischi e vinili, quelli in cui ci si addentrava alla ricerca di una nuova canzone da ascoltare? Oggi è sufficiente l'algoritmo di spotify per ottenere lo stesso risultato, almeno apparentemente. Ma il risultato è veramente il medesimo? Io credo di no. La strada più veloce, più facile, non è sempre la più bella, spesso, anzi, vale la pena addentrarsi in situazioni più complesse, fare più fatica, uscire dalla strada maestra che tutti percorrono perché la bellezza si annida altrove, pur se costa più sforzi. Le strade di cui parlo sono quelle che si percorrono in bicicletta, ma anche quelle metaforiche della vita di tutti i giorni, delle situazioni che accadono a tutti noi. La mentalità eroica apprezza la fatica, la ritiene bella, la eleva. Deve essere, però, una fatica sana, buona, per essere vissuta positivamente dalle persone». Il nostro problema, osserva Davolio, è che spesso la frenesia della società attuale, pur migliorando la produttività, annulla completamente ogni spazio libero, ogni possibilità di apprezzare qualcosa guardandosi attorno e, così facendo, moltiplica la stanchezza. Le donne e gli uomini che vivono l'esperienza di Nova Eroica, in questo senso, si proiettano in una galassia differente.

Una fotografia mai scattata, ma ben chiara nella mente di Alessandro Davolio: Vincenzo Nibali che, ad un ristoro, durante Eroica, alle nove del mattino, si gusta un uovo sodo con del sugo ed un bicchiere di buon vino. Non sono solo i giorni di Eroica a correre ad un tempo diverso, sono anche i luoghi: Gaiole in Chianti con le persone che giocano a bocce, al biliardino o a carte, ma anche Milano o Padova tutte le volte in cui una madre, ad esempio, decide di scegliere la bicicletta, con un seggiolino, per portare il proprio figlio a scuola. Si tratta di atti, in senso lato, "eroici" che permettono di avere un'altra visuale del circostante. «Posso dire, in prima persona, che la bicicletta mi ha cambiato la vita. Vi sono arrivato dopo un incidente in moto in cui ho rischiato la paralisi. Sono originario di Brescello, il paese di Don Camillo e Peppone, ad Eroica sono arrivato due anni dopo, grazie ad un amico. Da quel momento, ho scoperto tanto della bicicletta: la sua velocità, quella ideale per vedere il mondo, per apprezzarlo, la possibilità di introspezione che apre, mentre, in salita, i pedali scandiscono i pensieri. Nel frattempo si "sente" il proprio corpo, percependo ogni suo piccolo dettaglio».

La bicicletta, per Alessandro Davolio, ha confini ancora più vasti: pensiamo, ad esempio, al suo viaggio a Montpellier con quel vicino di casa che, sino a quel momento, non aveva mai davvero conosciuto: un viaggio che, ancora oggi, Davolio non esita a definire «il più bello di sempre». La fatica, nel percorso di conoscenza della bicicletta arriva prima: durante le pedalate iniziali quando tutto è più difficile che mai, persino la pianura, persino quello che, dopo qualche tempo, sembrerà ovvio, naturale. Il rapporto con la bicicletta si affina a forza di incertezze e dolore alle gambe ed il bello è che non si completa mai del tutto. Nel caso di Alessandro, un'altra tappa importante di questo percorso è stata la partecipazione a Nova Eroica essendo parte dello staff organizzativo, vivendo dall'interno l'eccitazione del momento, l'interazione fra gli iscritti, la voglia di mettersi alla prova e di superarsi, ma anche solo di provare: «Il nostro percorso Epic Route è finalizzato a questo: permettere a chiunque di vedere fino a che punto ci si può spingere sulla propria bici in una giornata. L'inclusività deve essere sempre maggiore per permettere a tutti di vivere la gioia, la festa, senza troppe aspettative. E la festa di Eroica è una festa senza soluzione di continuità, si rintraccia ad ogni ristoro, ad ogni piatto di ribollita o di pane con la finocchiona, in ogni attimo della giornata, a patto di volerlo».


La festa è una sorta di momento sacro, come il cibo, anche a Buonconvento. Un paese lungo la via Francigena, una tratta di pellegrinaggio, in cui tutte le persone sono sempre a contatto con la strada, con i viaggiatori, con il viaggio e con il suo senso più profondo: «Pare quasi Buonconvento sia distaccato dalla normale concezione spazio temporale e sia connesso profondamente alla realtà, in maniera lenta e umana. Saranno le sue mura medievali, quei mattoni che pare abbraccino. Come quella strada tra due colonne di cipressi, bianca e pianeggiante, che porta alla fattoria in località La Piana: una sorta di set cinematografico, abbandonato dagli attori, immerso nella pace e nella tranquillità. Buonconvento sono le persone che vi abitano, è Riccardo dell'Hotel Ghibellino e del ristorante Roma, una tappa quasi obbligata, per il piacere di incontrarsi, di salutarsi, anche se poi non ci si ferma a cena. Buonconvento è un insieme di tante cose che, forse, bisogna vivere per capire davvero». Allora, cosa si fa in questi casi? Ci si segna un appuntamento, quello del 22 giugno a Nova Eroica, a Buonconvento. Per strada, oppure sotto un tendone, a bere una birra e a parlare di biciclette. Un buon auspicio per l'inizio di questa nuova estate.

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Foto: Paolo Penni Martelli


Il mestiere dei corrieri in bici

Il tempo di Emma Missale si è sempre disposto attorno ad una bicicletta, quasi fosse il perno di un orologio su cui sono innestate le lancette che, nel loro ruotare, indicano le ore ed i minuti. Senza perno, non ci sono lancette: il tempo, invece, c'è lo stesso, ma anche il tempo ha bisogno di orientarsi, di essere orientato. Emma Missale, venticinque anni, nata a Sondrio, cresciuta fra le vie di Milano, laureata in Urbanistica, ha sempre tratto da una bicicletta i punti cardinali delle proprie giornate, dai primi giri in un cortile, da bambina, ai parchi in periferia, alle strade che corrono accanto ai campi, fino alla caoticità del centro che attrae e respinge, affascina e spaventa. E, ancora, scavando a fondo, approfondendo, conoscendo la meccanica della bicicletta, gli ingranaggi e la catena, i materiali, i raggi e le ruote, i freni ed il vento in faccia della velocità e anche della felicità, ma questo è un altro discorso. Si diventa indipendenti così, salvando nella memoria e provando a replicare sensazioni primigenie che si sono vissute in una pedalata: il tragitto casa-scuola, ad esempio, qualunque spostamento in città, fino al lavoro, all'essere corriere in bici, avventura che Missale ha intrapreso già mentre studiava, all'Università. Bicicletta e città si incontrano quindi attraverso una ragazza, un poco timida e così abituata a parlare l'inglese, perché ha fatto casa a Copenaghen, da chiedere scusa ogni volta in cui la ricerca della parola corretta in italiano porta via qualche secondo al dialogo, al racconto. Bicicletta e città si incontrano, mentre Emma continua a pedalare e a studiare.

«A Milano, ad un certo punto, era diventato stressante stare in sella. Non tanto per la fatica fisica che, comunque, è parte del mio lavoro, ma per la parte mentale di costante attenzione a tutto e tutti. I rischi sembrano arrivare da ogni angolo, il timore è in sottofondo e anche un'attività piacevole, liberatoria, come il pedalare diventa pesante, stressante. Non riesci mai ad essere leggera in bici e, a lungo andare, pensi di mollare. Copenaghen è da sempre una città bike friendly, sarà per questo che, quando ho ricevuto la proposta da By-Expressen, un collettivo di corrieri, non ci ho pensato molto prima di dire di sì. Anche ai mercatini si trovano facilmente pezzi di bicicletta dei tipi più svariati, anche ricambi. Mentre le Cargo Bike interessano sempre più persone». Sì, corriere in bicicletta, ovvero una bici, del materiale da consegnare, un tempo e una via in cui andare a recapitarlo, ingegnandosi sul come trasportarlo, prendendo le misure, perché non è come viaggiare da soli, imparando a gestire gli spazi della strada e quelli che occupa ciò che devi trasportare. Emma Missale se ne intende, non solo per l'esperienza acquisita in questi anni, anche perché è stata medaglia d'oro ai mondiali dei bike messenger nel 2019, nel 2022 e anche quest'anno, nel 2023, a Yokohama, in Giappone. La storia di quest'ultimo viaggio merita un capitolo a parte.

Da mesi le ronzava in testa l'idea di un viaggio in bicicletta da sola, alla fine è partita per il Giappone, più di 3000 chilometri percorsi, circa 3500 metri di dislivello e una delle più belle esperienze della sua vita. Racconta di faticare a trovare un attimo in cui non fosse felice, per lei la fatica è felicità, la solitudine può essere felicità, soprattutto pensando all'ultracyclism, disciplina di cui legge, da cui è affascinata e che vorrebbe sperimentare, un domani: «Credo sia necessario restare da soli per capire realmente fino a dove è possibile arrivare, visualizzare il limite, sfiorarlo, toccarlo. Faccio un esempio: quando si pedala in compagnia, magari ci si ferma ogni cinquanta chilometri, da sola, verso Tokyo, ho girato ininterrottamente per centoventi chilometri. Un'energia speciale. Certo per diventare una ultracyclist dovrò fare allenamenti specifici e sarà tutto diverso, ma ho capito di poterci provare. Se puoi, lo capisci quando sei solo e non c'è nessuno ad aiutarti, ad ascoltarti, a guardarti: vale per ogni ambito della quotidianità». Oggi, attraverso i telefoni, si resta in contatto in ogni angolo del mondo e, se si è molto lontani, basta una voce o un messaggio per far sentire sicuri, però, in Giappone questo non è servito perché su quelle strade Missale si è sempre sentita a proprio agio, per le strade sicure ma, anche, per la gentilezza e l'attenzione costante verso la persona, in ogni sfaccettatura.

«Dopo aver vinto la gara principale dell'evento, avevo immerso per qualche minuto le gambe nell'acqua fredda di un fiume, poi, smontata ed impacchettata la tenda, mi stavo preparando a ripartire. Una signora giapponese mi si è avvicinata, porgendomi un bicchiere di thè caldo. Per loro è un'usanza, un regalo di benvenuto, quando si arriva, e uno di arrivederci, quando ci si saluta. Da noi non si usa, nemmeno a Copenaghen, mi ha sorpreso, mi ha lasciato un bel ricordo». Le gare dei corrieri in bicicletta, in realtà, simulano una normale giornata lavorativa, con dei checkpoint che verificano il regolare passaggio ed un tempo finale per stilare una classifica e premiare. Tutto attorno talk, incontri, forum, critical mass, feste e la progettazione, l'organizzazione degli eventi dei prossimi anni. Ma pedalare resta sempre la parte più bella di questo lavoro, anche se il collettivo è un'organizzazione e chi vi partecipa riflette sul suo futuro, porta idee, aiuta, si occupa anche di tutto l'aspetto di backstage, di ufficio. La base comune è il gruppo che si crea fra corrieri in bici: una comunità vera e propria che si riconosce in ogni luogo del mondo e collabora ovunque si incontri. Un'appartenenza che non viene spezzata da nulla.

Tutti quei chilometri hanno permesso ad Emma Missale di applicare i suoi studi alle città che ha visto. A Milano, ci racconta, sono tante le cose da cambiare nelle strade: il conflitto fra ciclisti e automobilisti è sia spaziale che sociale, a ciò si aggiunge una città completamente autocentrica, con poche ciclabili, talvolta con cordoli, più attente all'estetica che alla funzionalità, che, in realtà, non creano sicurezza, servirebbe una policy in tema. Copenaghen, invece, è esattamente come potremmo immaginarla: assoluta priorità alla ciclabilità ed alla mobilità sostenibile, ciclabili che portano in ogni angolo della città, interventi pubblici che vengono eseguiti prima sulle ciclabili rispetto alle normali strade, un codice per i ciclisti conosciuto da tutti, automobilisti che rallentano sempre quando vedono un gruppo di ciclisti, condivisione della strada, massimo rispetto delle regole, agevolazioni per chi pedala molto. Ci sono gli spazi adeguati e la bicicletta è vissuta in serenità. Del Giappone, di Tokyo, in particolare, resta il rispetto e quegli specchi bombati per le strade che allargano la visuale della carreggiata, forse non molto tecnologici, ma sicuramente con l'intento di aumentare la sensazione di sicurezza.

Allora quella ragazza in bicicletta, quella donna corriere in bicicletta, ed anche l'essere donna è importante qui, visto il numero minore di donne in questa professione, almeno in Italia, riparte per le sue otto ore di lavoro: con una medaglia d'oro in più al collo, genuina come la prima volta, sapendone qualcosa in più. Come noi, dopo averla ascoltata.