Omar El Gouzi: essere professionista per sempre
Omar El Gouzi ricorda molto bene un pomeriggio di quando era bambino: «C’erano i miei amici fuori in cortile a giocare e io sarei dovuto andare ad allenarmi. Non volevo andarci, mia mamma mi guardò e mi disse: “Omar, hai fatto tu questa scelta. Se vuoi portarla avanti devi allenarti, altrimenti puoi anche smettere di andare in bicicletta”. Mi misi a piangere ma quella lezione mi servì». La sua passione per il ciclismo, in fondo, nacque proprio lì, nel cortile di quel condominio dove Omar abita. «Qui abitavano anche un allenatore di ciclismo e un ragazzo che stava iniziando a praticare ciclismo. Vedendoli ho pensato che avrei voluto fare la stessa cosa. Sono andato da papà e: “Papà, voglio correre in bicicletta”». Un anno dopo, sono proprio mamma e papà ad accompagnarlo da quell’allenatore che gli consegna la sua prima bicicletta, gialla. Omar, oggi, guarda il vialetto di quel condominio e torna indietro di diversi anni con la mente. «Facevo avanti e indietro in quel vialetto con la bicicletta ma non riuscivo a fare la manovra per girarmi comodamente, così piangevo». Lì con lui c’era papà ed è proprio ai suoi genitori che Omar El Gouzi sente di dover dire qualcosa. «Non so cosa ci sarà nel mio futuro ciclistico. Certo, sogno di firmare un contratto per una squadra professionistica e di fare un bel percorso. Sì, non voglio passare fra i professionisti solo per il gusto di potermi chiamare “professionista”. Voglio diventare professionista e restarci per molti anni per rendere onore al fatto di essere diventato professionista. Una cosa però la desidero più di tutte le altre: ricambiare ciò che i miei genitori hanno fatto per me. Ci sono sempre stati e ci sono sempre, nonostante tutto».
Il suo soprannome in gruppo è Cacaito come Cacaito Rodriguez, il ciclista colombiano in attività negli anni novanta: «Mi chiamano così perché tanto vado forte in salita quanto fatico in discesa. Ad essere sincero adesso meno, la discesa è questione di allenamento come tutte le pratiche del ciclismo, ma quel soprannome viene da qualche anno fa. Eravamo a Trento ed in discesa continuavo a tirare i freni per paura di cadere». Omar è italo-marocchino, entrambi i suoi genitori sono nativi marocchini, lui è nato a Peschiera ed in Marocco non torna dal 2013: «Voglio molto bene all’Italia. In Marocco, però, c’è qualcosa di diverso: parlo di accoglienza, di calore umano. C’è tanta gente per le strade, c’è tanta felicità. Noi probabilmente siamo un po’ più freddi di carattere». C’è una fierezza particolare nella sua prima maglia azzurra, ottenuta con Rino De Candido dopo il Giro del Friuli di qualche anno fa, e le sue origini fanno parte di questo orgoglio. «Arrivavamo sullo Zoncolan, pensa che a inizio salita ero caduto. Sono riuscito a recuperare e ad arrivare quarto. De Candido mi ha notato e mi ha chiamato. Con la maglia azzurra addosso ho corso la mia prima gara fuori dall’Italia, un trofeo in Germania. Un italo-marocchino in maglia azzurra: non è una cosa che succede tutti i giorni e forse per questo è stato ancora più bello». Le sue giornate più belle hanno sempre un legame con una terra, con delle persone o con qualcosa di inaspettato che si è provato a fare. «Ricordo ancora quando vinsi a Montecchio il campionato provinciale con la maglia dell’Ausonia. Io non attacco molto spesso, quel giorno però sentivo che fosse giusto scattare. Recuperai il terzetto in testa e vinsi. Magnifico. Una cosa molto bella, secondo me, è che nel ciclismo non è detto si debba vincere per avere un bel ricordo, per essere felici. Guarda il Palio del Recioto, per esempio. Sono arrivato tredicesimo ma me lo ricordo come fosse adesso. Tutta la gente che ti guarda, che ti applaude, che grida il tuo nome. Tutti che ti conoscono. La tua famiglia. La tua terra. Correre a casa propria ha un sapore diverso, c’è poco da fare».
Quest’anno, Omar El Gouzi ha corso per la Iseo, un ambiente che lo completa: «Ho due direttori sportivi, Mario Chiesa e Daniele Calosso. Hanno due caratteri diversi: il primo è più tranquillo, più pacato se vuoi. Mario è un uomo di grande esperienza: ha corso fra i professionisti e successivamente è stato team manager di realtà molto importanti. Daniele, invece, lavora di grinta, di rabbia, la rabbia buona che ti spinge a fare bene, a fare meglio. Alla base dei miei risultati ci sono questi due modi di insegnare che si combinano e mi danno tanta tranquillità ma anche tanta voglia di fare». Il suo mentore, in realtà, non è un ciclista ma un ex calciatore del Chievo Verona. «Si tratta di Federico Cossato. Ci siamo incontrati per caso mentre facevo delle ripetute su una salita. Mi ha guardato ammirato, stupito. Abbiamo iniziato a parlare e ci sentiamo molto spesso. Il nostro è un dialogo costruttivo: parliamo di lavoro e di traguardi. Federico mi ha sempre detto che senza duro lavoro, senza sacrifici, non esistono sogni realizzabili. Ed è vero. Se non si lavora duramente, la situazione è veramente difficile».
Omar El Gouzi è un ragazzo alla mano, lo dice lui stesso. «Mi piacciono le cose semplici e mi piace conoscere le persone, parlarci, capirle, ascoltarle. Ho solo bisogno di tempo per conoscere e per aprirmi a mia volta. Tendo ad essere abbastanza riservato. Tempo fa ero meno sicuro di me e magari rinunciavo più facilmente a ciò che volevo. Adesso no, col ciclismo ho imparato e se voglio una cosa la ottengo». Quel ciclismo che per Omar è ben più di uno sport. «Di fatto è uno stile di vita. Devi semplicemente abituarti al fatto che se vuoi ottenere qualcosa devi darti da fare. Che ci saranno giorni in cui non avrai voglia ma dovrai insistere lo stesso. Che ci saranno giorni che ti faranno male e sarà proprio lì la prova del nove. Se resisterai lì saprai che nessuno potrà più fermarti. Quando lo capisci, lo accetti. Anzi, lo vivi proprio con serenità. Sai che è una realtà che riguarda tutti. Sai che devi assumerti la responsabilità di ciò che hai scelto e lottare per tenerlo stretto. Come mi disse mia mamma quel giorno: “Se non ti alleni, forse, ti conviene smettere”».
Mamma e papà, stasera, Omar li vuole immaginare nel giorno in cui passerà professionista. Li vuole immaginare nell’esatto momento in cui comunicherà loro questa notizia: «Li vedo lì, mentre mi guardano. Con gli occhi lucidi, commossi. Mi stringeranno forte, sarò felicissimo. Saremo felicissimi. E so già che mi commuoverò anche io. Anzi. Sono già commosso, a dirti la verità».
Crediti foto in evidenza: Claudio Bergamaschi
Una lezione di cross da Daniele Fiorin
Se vi capitasse di osservare Daniele Fiorin al lavoro, durante qualche gara di ciclocross, siamo sicuri che anche voi, come noi, rimarreste colpiti dal senso di ”cura” messo in campo da quest’uomo nei confronti dei suoi ragazzi. Daniele Fiorin è una guida, questo è importante sottolinearlo: «Cerco di trasmettere la mia esperienza in tema di interpretazione del percorso. Nel giusto o nell’errore, ci mancherebbe, non ho la presunzione di non sbagliare mai. Anzi, lo dico sinceramente: alcuni fra i miei ragazzi sono anche più bravi di me e possono permettersi di adottare soluzioni diverse da quelle che suggerisco. Io ho il dovere di indicare una o più chiavi di lettura del percorso. Può capitare che la traiettoria migliore sia adottata da qualcun altro, allora il ragazzo deve avere l’alternativa: il mio dovere è indicare le possibilità e le alternative». Daniele Fiorin monta in sella a una bici, si sposta da un lato all’altro del tracciato e con le mani indica ogni singolo ostacolo, suggerisce la strada da prendere, quando stare in sella e quando scendere e prendere la bicicletta in spalla. «I miei ragazzi hanno diverse età: l’impostazione cambia ma neanche troppo. Da giovanissimi è un gioco, successivamente subentra qualcosa di più tecnico. A me è sempre piaciuto lavorare sulle abilità motorie, mi sono focalizzato sul ciclocross e sulla multidisciplina quando ho visto che con il passaggio agli esordienti questi aspetti mancavano. Pensare che da ragazzo davo del ”pazzo” a chi praticava ciclocross d’inverno, li consideravo stacanovisti che non riposavano mai. In realtà, fatto nei dovuti modi e con i dovuti tempi di recupero, è un grosso aiuto sia dal punto di vista tecnico che condizionale».
La parola chiave Fiorin l’ha già usata, è “gioco”: «L’ho capito studiando all’ISEF. La vecchia concezione prevedeva che il ciclista potesse fare solo ciclismo: io, per esempio, ho imparato a nuotare a diciotto anni, non avevo quasi mai toccato una palla, ho imparato le basi del salto in alto e del salto in lungo. Tutto in un’estate, per l’esame di ammissione. Mi sono sempre detto che i miei ragazzi non avrebbero mai dovuto arrivare a quel punto: va bene l’impegno nel ciclismo ma deve essere affiancato dal divertimento e da altre esperienze sportive». Il cambiamento di approccio che Fiorin ha adottato in questi anni, coincide con un personale cambiamento: i primi allenamenti dei ragazzi venivano svolti durante la fase di defaticamento dei propri allenamenti. Parliamo infatti del periodo in cui anche lo stesso Fiorin correva. Successivamente una sorta di squarcio del cielo pirandelliano: lo studio lo porta a capire ciò che veramente è essenziale dare a questi ragazzi e a queste ragazze: «Come nelle gare si indicano le alternative alla traiettoria designata, così nel percorso di crescita bisogna fare in modo che sia sempre presente la possibilità di scelta. Proprio provando e scegliendo, sono nate atlete come Alice Maria Arzuffi e Maria Giulia Confalonieri. L’una specializzatasi nel cross, l’altra nella pista. Entrambe discipline che da noi vengono considerate assolutamente in subordine rispetto alla strada». Qui si tocca la radice del problema: «Si tratta di un fattore storico e di mentalità. Il primo dipende dal fatto che la nostra nazione ha sempre privilegiato il ciclismo su strada. Gli anglosassoni, pur arrivati dopo, ci hanno surclassato in quanto in grado di sperimentare ed innovare. A noi manca questa capacità. Il secondo è anche un problema dei tecnici: è più semplice insegnare quello che già sai. Per insegnare qualcosa di nuovo è necessario mettersi in gioco e magari imparare i fondamentali della pista già in età adulta. Io, ad esempio, non avevo esperienze nel ciclocross. Tutto quello che ho imparato, l’ho appreso da autodidatta, cercando di osservare con senso critico ciò che facevano gli altri e di ”rubare” ciò che credevo fosse giusto. Senza alcuna paura di chiedere spiegazioni».
Sara e Matteo sono i figli di Daniele e anche loro praticano ciclismo a trecentosessanta gradi, dal cross, alla pista, alla strada, alla cronometro: «Sono molto felice della loro passione ma devo ammettere che non è sempre così facile conciliare il ruolo di tecnico con quello di padre. Mi spiego meglio: come tecnico sono un punto di riferimento per i miei ragazzi. Tante volte i genitori mi chiedono di parlare con i loro figli per spiegare determinate cose. L’impatto che ha un tecnico è certamente diverso da quello che ha un genitore. Con i miei figli manca questo passaggio intermedio. Nell’ambito della squadra si sono dovuti abituare a non avere tutte le attenzioni che magari vorrebbero. Sai, talvolta per non agevolarli si finisce per penalizzarli. Questo mi spiace, davvero, ma forse potrebbe anche essere un bene. Se avranno la fortuna ed il desiderio che il ciclismo diventi il loro lavoro e passeranno in squadre importanti, dovranno abituarsi a essere trattati come ”uno fra tanti”: le troppe attenzioni genitoriali, in questo senso, sarebbero deleterie». Daniele Fiorin è franco. Sia nella chiacchierata con noi che con i suoi ragazzi: «La realizzazione personale dei miei ragazzi è la cosa che più mi interessa. Per questo ripeto sempre: la scuola e il lavoro vengono prima. Quando lavoravo con gli juniores, lo dicevo: “Se vi capita un lavoro che può sistemarvi, pensateci bene. Un conto è divertirsi con la bicicletta, l’altro conto è lavorare con la bici. A potersi mantenere grazie al ciclismo sono ben pochi”».
Alla base di tutto cosa c’è? «L’importante non deve essere il risultato in termini assoluti. Quello può essere condizionato da vari fattori: un infortunio o una circostanza sfortunata, ad esempio. Bisogna lavorare sulla prestazione e provare a migliorare se stessi, non il risultato. Come? Come si faceva a scuola quando si lavorava sulla resistenza, nella corsa ad esempio. Devi pensare ai cento metri davanti a te, certe volte anche meno, raggiungerli e poi ripartire da lì. Così riesci a mantenerti positivo, così riesci ad arrivare al traguardo. La stessa cosa accade quando scali una salita: devi pensare al tornante successivo, non al Gran Premio della Montagna in vetta. Altrimenti rischi di scendere dalla sella e ritirarti. Se ti focalizzi solo sul risultato, sarai molto più portato a smettere non appena questo risultato dovesse non arrivare o non arrivare più». Sarà per le sue capacità tecniche, sarà per la sua capacità di far leva sui giusti stimoli, sarà per come riesce ad entrare nella testa dei suoi ragazzi o per quella cura, scevra da giudizi, che mostra ad ogni gara, ma di Daniele Fiorin parlano tutti bene: «Un allenatore, un tecnico, soprattutto con i giovani, deve essere un educatore. Non riesco a immaginare un modo diverso per interpretare questo ruolo. Quando si entra nei meccanismi psicologici, è utile ribadirlo: non sono uno psicologo e, sicuramente, avrò sbagliato diverse volte e diverse volte ancora sbaglierò. Però provo a prendermi cura del benessere psico-fisico dei miei ragazzi. La mente, spesso, è molto più importante delle caratteristiche fisiche. Se si inceppa qualcosa a livello mentale, si inceppa tutto. Serve molta attenzione».
(Crediti foto in evidenza: Fabiano Ghilardi)