Badlands, come un film

Alla partenza di Badlands, Bruno Ferraro nota Lachlan Morton. L’organizzatore, la sera prima, gli ha detto che Morton pensa di concludere la gara in due giorni, a Bruno pare impossibile così gli si avvicina e gli domanda quanto tempo crede di impiegarci, con una semplicità disarmante Morton risponde: «Non so, ci metterò il tempo che ci vorrà». La scena si svolge a Granada, in Spagna. Sono le otto di mattina: «Granada è una città accogliente, ci sono tanti negozi di biciclette e questo è importante. Ho avuto modo di fare un controllo della mia bici prima della partenza: sempre meglio in occasione di gare con questi chilometraggi. La partenza a quell’ora di mattina è ideale, molte volte si parte in piena notte. C’erano persone da tutti i Paesi del mondo, molte che avevo già conosciuto e davvero un bel clima».

In realtà questa atmosfera si disperderà nel giro di breve tempo. «Come si parte, tutto sembra così lontano. Soli quindici chilometri e inizi a pedalare in mezzo alle colline sperdute della Spagna. Siamo a Nord della città di Granada, in luoghi turistici. La particolarità di questa parte del tracciato sta nella luce: una luce bassa che cade sulla polvere e irradia riflessi dorati. Era il tipico paesaggio da Strade Bianche ed eravamo ancora in tanti e abbastanza raggruppati». Al chilometro settanta si transita da Guadix e si inizia a percepire l’aria del Deserto di Gorafe. Ferraro si ferma in un bar per fare scorta di acqua e cibo. «In questo locale c’è Rosalia, un’anziana signora molto attenta ai bisogni di tutti i suoi clienti. Mi ha fatto tenerezza perché, nonostante l’età, era indaffaratissima a fare su e giù dal magazzino per recuperare tutte le nostre vivande. Ad un certo punto, ho detto ad un ragazzo spagnolo: “Secondo me ti conviene dirle che fra poco arriveranno altre cento, centocinquanta persone, almeno è pronta e non deve fare tutto così di corsa”».

Al deserto di Gorafe si arriva nel tardo pomeriggio. «Mi ero documentato sulla zona e sapevo che da pochi anni è un luogo rinomato per il trekking. In sostanza si tratta di un deserto composto da formazioni geologiche scavate da vecchi corsi d’acqua, una specie di altopiano con diverse gole. Si pedala in mezzo al canyon, accanto alla gola del fiume: il percorso è ad anello e il luogo di partenza è lo stesso dell’arrivo. Quando ho terminato questa parte del percorso, il sole stava calando, era appena sotto l’orizzonte».

Da quella luce flebile, tra l’ocra e l’arancione puntinata di sassi dalle sfumature calde, si esce su una strada principale. «Ovviamente al termine del deserto avevamo bisogno di rifocillarci. La scena è stata simpatica perché l’unico bar della zona, dopo tanti chilometri nel nulla, era frequentato da molti vecchietti, intenti a fumare pipe, sigari e sigarette. Noi arrivavamo sfatti, pieni di polvere e sudore, con l’unico pensiero di portare via un sacchetto con del cibo. Ci guardavano tutti molto incuriositi».

Adesso non c’è più luce, il buio invade le strade e Bruno, per recuperare energie ed evitare crisi lungo il tragitto, cerca di dormire qualche ora. «Erano le dieci, massimo dieci e mezza. Mi sono sdraiato su una panchina, accanto a una fermata dell’autobus, fuori dalla città e ho provato a dormire. Non ci riuscivo, probabilmente non ero neppure stanco. Dopo un’ora mi sono alzato e sono ripartito. Era da poco passata la mezzanotte». La strada è in salita, si scala il Calar Alto, 2.168 metri di dislivello. «Ho retto abbastanza bene la prima notte, nonostante il freddo. Il momento più difficile è sempre intorno alle quattro, le cinque, del mattino».

Il giorno successivo è quello del secondo deserto, quello di Tabernas. Tutto cambia rispetto a Gorafe: il paesaggio vira su colori scuri, le pietre tendono al grigio, talvolta appaiono nere come la pece. Si intravedono le classiche sterpaglie di paglia giallognola dei luoghi aridi. «Questa è la zona dove sono stati girati i film western più famosi, anche quelli di Sergio Leone. Ci sono dei saloon allestiti con arredi dell’epoca e vecchie rovine di case. C’è una ferrovia abbandonata: non appena la vedi, pensi a dei banditi che assaltano una diligenza». L’unica ombra che si può trovare è quella che le rocce riflettono a terra: è l’una del pomeriggio e Ferraro si siede per qualche istante accanto a quelle rocce. Riprende fiato. La bicicletta è davvero difficile da spingere. In un locale, poco più in là, foto e ricordi di Terence Hill e di tutti gli attori di quei film: «Pensa, quel bar esisterà da quarant’anni. Chissà quante storie potrebbe raccontare il gestore».

Si entra a Cabo de Gata Natural Park: qui è la natura a trionfare con piante e coltivazioni. C’è anche una vecchia miniera abbandonata, un paesaggio molto suggestivo. «Poi il mare, proprio al tramonto. Difficile anche da descrivere quel momento. Vivi delle situazioni davvero difficili, per esempio quando la bicicletta non scorre nella sabbia e ti chiedi chi te lo abbia fatto fare. Ma quando vedi il mare, la spiaggia con i ragazzi, che scherzano fra loro con una bottiglietta di birra in mano, capisci che hai fatto bene a partire. Hai già nelle gambe quattrocentro chilometri, e ne mancano più di trecento, ma sei contento».

Si prosegue fino ad Almeria, pedalando su una strada che costeggia un parco naturale: lì lo attende un hotel con reception sempre aperta. Ferraro lo ha prenotato tempo prima e ha fatto bene: arriverà alle due e mezza di notte. «Sono entrato in camera, ho pulito i pantaloncini, sistemato le mie cose, cenato con due empanadas di pollo e mi sono fatto una doccia. Mi sono coricato dopo le tre, puntando la sveglia per le sette. L’alba arriva abbastanza tardi ed iniziare a pedalare con le prime luci è l’ideale. Quella notte ho dormito, talmente bene da non sentire la sveglia. Oggi posso dirlo: quella mezz’ora in più di sonno mi ha fatto davvero bene».

Quando riparte, Bruno sa, o ameno spera, che quello sia l’ultimo giorno di gara. Forse il giorno più duro: c’è da scalare il Passo Veleta, nel parco nazionale della Sierra Nevada. La cima si trova a 3.212 metri di altezza. L’aria, sopra i 2.500 metri inizia a rarefarsi e Bruno ha dei piccoli svenimenti. Deve scendere di sella e proseguire a piedi, ma c’è un ostacolo in più: è scesa la notte.

«Ho corso tutto il giorno con l’idea di arrivare al passo prima di sera, non ci sono riuscito. Allora ho cercato di raggiungere un ragazzo che conoscevo e che era davanti a me di poco: salire insieme mi avrebbe aiutato molto, almeno a livello morale. L’avevo praticamente raggiunto, ero lì. Lui invece ha scelto di fermarsi a dormire in hotel prima della scalata: un brutto colpo per me. Dovevo scegliere: proseguire da solo o ripartire il mattino successivo. Ho deciso di proseguire ed ho fatto bene. Proprio in quel frangente ho recuperato posizioni e sono riuscito a concludere quinto».

La scalata inizia alle nove di sera, in cima si arriva alle tre di mattina. La discesa tutto d’un fiato, ancora una salita e la successiva discesa e poi l’arrivo a Granada. Il sorgere del sole sorprende gli atleti con una vista da cartolina sulla città. È finita. «Ti senti strano quando torni in una grande città dopo un’avventura del genere. La bicicletta ricomincia a scorrere su strade di asfalto, vedi negozi di alimentari, di abiti, mezzi di trasporto e ricominci a sentire i rumori della città. Ci metti del tempo a capire. Questo accade anche quando torni a casa. Hai conosciuto un mondo, visto squarci sempre differenti, che sono ti entrati in testa e ora ti mancano. Devi ritrovare gli stimoli per salire in sella e fare ‘il solito giro’, devi inventarteli se necessario. Il ricordo però resta. Sembra un film».

Foto: Bruno Ferraro


Terra! Un giro gravel nelle Langhe

Chi cerca davvero, non sa che cosa cerca. Non so proprio che cosa aspettarmi, mentre accompagno fuori la SuperX. In autunno ci sono scorci di malinconia che, di solito, mi piace stare semplicemente ad osservare. È la mia stagione preferita. In questo ottobre 2020, però, c’è qualcosa di diverso: con due bambini piccoli, la paura di un contagio e l’esperienza alienante dello smart working ad oltranza, il nostro lockdown non è mai finito e l’autunno ci ha sorpresi già stanchi, storditi. Refrattari. Ci chiediamo spesso se siamo realmente noi questi qua.

In autunno ci sono scorci di malinconia che, di solito, mi piace stare semplicemente ad osservare.

Fuori di casa fiuto l’aria: freddo, ricordi di gioventù, di nebbia e pallone, odore di campagna umida e corse campestri, di sudore e terra sembrano scendere verso di me direttamente dalle colline intorno, immerse nella foschia. Sudore e terra. Ci sono idee che, se provi a spiegartele, perdono tutto il loro senso. Bisogna accoglierle e crederci. È una fede. Parto così, senza sapere ma con in cuore la speranza che funzioni anche stavolta: la bicicletta è per me da sempre una risposta, anche quando la domanda non è chiara.

La ciclabile che corre lungo il Tanaro è perfetta per cominciare: regolare, quasi piatta, un fondo ben compatto. Pedalo agile e ascolto il fiume alla mia destra, ne sento l’energia. Ho imparato dagli albesi a convivere con questa forza misteriosa, a rispettarla, a non dimenticarmi mai che c’è.

Dopo un breve strappo su asfalto, a Roddi prendo il sentiero che cavalca la collina e in un istante realizzo che sto facendo la cosa giusta. Ancora non so che cos’è: so solo che ho voglia di sentire quegli odori, affondare le mani – o le ruote? – in qualcosa di concreto, uscirne più simile alla natura che attraverso.
Con vari saliscendi supero il nuovo, grande ospedale. A La Morra risalgo la stretta via che porta al belvedere; la luce d’ottobre mi investe sulla piazza ed esalta i colori delle colline: verde, giallo, rosso, marrone, colori caldi in un mattino che sa già d’inverno.

Per scendere le alternative si sprecano, sia su asfalto che su sterrati di vario tipo. Ma stavolta non voglio sforzarmi di capire ciò che ho in mente. Non scelgo la destinazione, è la destinazione che mi sceglie e io ne vengo inevitabilmente attratto, come risucchiato. Metafisica della bicicletta o assoluta libertà?
Mentre penso a quanto sarebbe bello applicare questo metodo di non-scelta nella vita, giungo nei pressi della cappella delle Brunate: è una piccola chiesetta – mai consacrata – con le pareti esterne dipinte di tanti colori diversi; opera di Sol LeWitt e David Tremlett, gode di una certa notorietà sui social come sfondo per le foto.  Ma non è un giro da selfie questo, per me.

Michael. Meccanico di formazione, si può dire che Michael abbia scelto questa vita per amore. Appena possono, lui e Francesca si dedicano all’enduro (motorizzato e non) e al downhill.

A Barolo, mentre finalmente l’aria si fa tiepida, inizio a capire. Sfilo tra i vigneti in fermento, brulicanti di uomini e donne come formiche operose. Qualcuno canta una canzone che non conosco; è una canzone allegra in una lingua che non capisco, eppure mi sembra di cogliere il sentimento che le fa da sfondo: ho voglia anch’io di cantare. La vendemmia è al suo apice, l’atmosfera è quella di un Natale, gioia e mistero si uniscono mentre abbandono l’asfalto, scendo e spingo la bici su per una capezzagna.

Mio fratello Michael e la sua compagna Francesca, quando li raggiungo, mi confermano coi loro sorrisi che sono nel posto giusto. L’espressione stanchi ma felici me la porto dietro dai temi delle elementari, ma è così che descriverei i loro volti. Invidio la loro abbronzatura e quei segni che hanno addosso – qualche graffio sulle braccia, le mani screpolate. Penso agli ultimi mesi: chiuso in casa davanti ad un computer, a lavorare molto e sentirmi, comunque, sempre incompleto.

Non che qui sia tutto rose e fiori – e viti. Mi informano che stamattina c’erano sette gradi, quando io ero ancora nel mio letto e che si andrà avanti finché si vedrà qualcosa. Mi fermo un po’ con loro, così, per dire che c’ero anch’io quando nasceva questo Barolo. Già, qui nasce il più nobile tra i vini nobili: eppure, in giro vedo ciò che si vede in qualsiasi vigna, ovvero erba e borse con il pranzo, giacche appese qua e là e facce stanche che spuntano tra i filari.
Può sembrare strano, ma molta della fortuna di questo territorio nasce proprio da qui.

Mi raccontano che negli anni ’60, quando il nonno di Francesca ha iniziato l’attività, in pochi avrebbero scommesso una lira su di lui e sulla sua idea. Quella terra valeva poco, allora. Fortuna, sì, ma soprattutto impegno e coraggio. Una fuga dal solito gruppetto che non ci crede e tu, che in un momento di grazia hai detto il tuo sì migliore e te ne sei andato per la tua strada. Oggi, Cascina Rocca è una bella realtà che propone ottimi vini (non solo Barolo), un posto comodo dove fermarsi per qualche giorno di escursioni nelle Langhe e un’atmosfera che è davvero famigliare, perché anche la Terra del Barolo, vista da vicino, è pur sempre terra.

Vitigno. “Il piemontese dice “O basta là”, che è anche un modo di stupirsi educatamente per qualcosa di sproporzionato che ci viene messo di colpo di fronte.” Umberto Eco.

Mi congedo con mezzo grappolo d’uva in mano e con qualche indicazione per non dover tornare sui miei passi. Piccolo avvertimento: da queste parti nessuno ha mai inseguito o perseguito i ciclisti che si avventurano tra i filari, come ho fatto io stesso; valgono ovviamente le regole del buon senso e del rispetto. Quindi, avuto il permesso, mi butto in picchiata sul versante opposto a quello di salita, giù per una capezzagna, con i filari che sfilano a destra e a sinistra, come un pubblico silenzioso e ordinato, con mani verdi che salutano, mosse dal vento.

La statale scorre veloce e insipida sotto gli pneumatici da trentacinque millimetri; tra poco potrei essere a casa, arrivato, ma questo giro non ha ancora finito con me. Al bivio prendo a destra e salgo al castello di Grinzane Cavour. Breve sosta panoramica e si riparte, in salita, verso Diano d’Alba. D’altronde, secondo me, il profilo migliore del castello è quest’altro, quello che si vede dalla strada di Diano, quando è incorniciato tra le montagne e il cimitero, tra la terra verde e marrone e la strada grigia e il cielo e le nuvole. A girare da queste parti capita anche questo, che un normale giro di “allenamento” somigli ad un giro turistico e che, per forza di cose, si debbano ignorare luoghi affascinanti, soffermarsi poco o nulla di fronte a scenari che meriterebbero più d’un pomeriggio. Forse è banale, ma anche così la bicicletta è metafora della vita.

E proprio come nella vita, capisco questa cosa eppure continuo, corro, testa e pancia giù, su per la salita di Diano. Alle mie spalle so che fanno capolino il Monte Rosa ed il Cervino, ma non mi volto, non addolcisco questa fatica che voglio proprio così, dura, brutta, arrogante come pensare di stabilire un nuovo KOM sulla salita di Diano con una bici da ciclocross che pesa dieci chili.

In discesa l’aria rimane tiepida, ogni curva a sinistra permette di scorgere Alba, là sotto, a destra, adagiata nella sua conca. Arrivarci dopo le Langhe mi fa sempre pensare ad una nave persa nel mare in burrasca, che finalmente avvista terra. Anche la città, che ho sempre un po’ snobbato, dopo il lockdown la guardo con occhi diversi, come una compagna che ha visto le mie stesse cose, che nel silenzio ha accolto le mie paure, che mi conosce da sempre ma ora un po’ di più.

Pedalando verso il centro mi fermo in coda nei pressi di una rotonda, un vigile regola il traffico e io devo aspettare il mio turno. Penso alla prima coda fuori dal supermercato, alla guardia che chiamava i numeri per entrare, alla pioggia leggera che mi bagnava e io che apposta non aprivo l’ombrello. “So di chiuso”, dicevo sempre a mia moglie, in quel periodo. Mi annuso. Ho deciso che sudore e terra saranno la mia cura e ho bisogno di continuare. Mi viene in mente che non sono mai stato al Bricco delle Capre, così torno sullo sterrato della collina albese e in poco tempo scendo a San Rocco Seno d’Elvio, quindi risalgo verso Treiso sfilando accanto alle Rocche dei Sette Fratelli, suggestive formazioni marnose che paiono creste di montagne in miniatura. Una voragine paurosa ed affascinante.

La terra è bassa È uno dei modi di dire tipici di questa zona. Vuol dire: bisogna chinarsi, faticare. Ma fa più effetto se non si spiega.

Alternando una dorsale di Langa a tratturi polverosi arrivo a casa di Roberto. “In montagna ci si lega per la vita e per la morte”, diceva Walter Bonatti. Io e Roberto ci siamo legati molte volte per la vita e vorrei che fosse così anche questa volta, sebbene con una corda invisibile.

Il Monviso ci osserva col suo solito cappello di nuvole, mentre sediamo sul terrazzo, io con un panino in una mano e una Coca Cola nell’altra.
Il vino preferito da Roberto è il Barbaresco, ma non si apre un Barbaresco con un panino in mano a metà di un giro in bici, alle due di pomeriggio.
Roberto mi parla del suo motto: “vino autentico”. Niente di speciale, no? «Eh, no» mi dice. «È importante. In un mondo sempre più dominato da assemblaggi, che tentano di soddisfare il cliente in ogni modo, io credo che il vino debba restare vero con sé stesso, parlarti del proprio vitigno, della propria indole. Come dire: questo sono io: se ti piaccio, bene. Il vino è esperienza».  Un giorno Roberto avrà una sua cantina e questa sarà la sua filosofia.

Mi accompagna per un po’ lungo la strada con la sua Columbus azzurra in acciaio, presa da poco; ci salutiamo ad un bivio, al termine della discesa, con la promessa di un giro insieme. So che non succederà. Oggi è come un sogno, un giro che non esiste, un momento vero ma sospeso, rimasto appeso da qualche parte nel tempo.

La strada per Neive è un balcone su una Langa elegante e raffinata; anche qui è chiaro che, senza lavoro, non ci sarebbe nulla. Lo vedo nei trattori che incrocio, nelle loro tracce di terra che entrano ed escono dalla striscia d’asfalto, da e verso pendii scoscesi e pericolosi. Auto lussuose con targhe di ogni provenienza mi sorpassano e, quando sono abbastanza lontane, torno a sentire il mormorio frenetico, tormentato della vendemmia: motori che sbuffano, voci, a volte canti, altre volte bestemmie.

Giorgio, sulla terrazza della Cantina Negro Giuseppe.

Ne parlo con Giorgio Negro, sulla terrazza panoramica della sua Cantina Negro Giuseppe. Qui è un po’ come essere a teatro, solo che gli spettatori stanno sul palco ed ammirano la platea: una platea verde con corridoi precisi e ordinati, silenziosa eppure calorosa, di una bellezza sofisticata e rustica al tempo stesso.
Siamo al centro di questo anfiteatro verde con un rosé in mano, Giorgio mi spiega come suo papà, Negro Giuseppe appunto, avesse giusto questo pezzo di terra, comprato con il lavoro in fabbrica. Mi chiedo se dopo anni in fabbrica avrei voglia di comprare della terra da lavorare, e non piuttosto una casa con piscina. Intuisco quest’idea che la fatica alla fine ripaghi sempre, che non va mai persa o sprecata; la volontà di lottare momento per momento, con fiducia. Dopo tutta la giornata spesa in giro, con i polpacci sporchi di terra e polvere e il sudore che opacizza la barra in carbonio nero della mia bici, finalmente mi sento al mio posto. Dopo tutto il fermento respirato su e giù per le colline, la calma di Giorgio e di questo angolo di Langa, insieme alla luce che cambia nel pomeriggio di ottobre, fanno bene all’anima.

Rimonto in sella, la SuperX è bellissima nella sua veste nera con schizzi di fango e con il suo cerone di Langa.
Rimane Barbaresco, con la sua torre e i suoi turisti, che osservo solo da lontano: ci vorrà un po’, per me, per accettare di nuovo la folla, la calca. Ma dopo oggi, grazie alla bici (e agli amici) so che questo non significa essere solo.

Torno a casa cercando le tracce dell’Ecomaratona, sul sentiero dei partigiani lungo il Tanaro e poi su per la collina di Altavilla. Scollino, riecco Alba, resto per un attimo ad osservarla: mi sembra più vera, onesta, come un vino autentico.

La sera, la terra è stata lavata via dal carbonio della mia bici e dai miei muscoli stanchi. Ma sull’asfalto delle vie rimarrà fino alla prossima pioggia.

Foto: Alessandro Foglia