The Dirty Job

Words: Filippo Cauz
Voice: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Sint-Jansvliet è una piazzetta al margine del centro di Anversa. Più che una piazza sembra un viale troncato, largo e corto, nel quale il traffico ha lasciato il posto alla socialità. In mezzo c’è un campetto da pallacanestro, circondato da un perimetro di alberi che separano l’area centrale della piazza, dedicata al mercato settimanale, ai negozi dei bassi palazzi che si affacciano. Piccoli ristoranti, un kebab, un altro specializzato in toast francesi, sull’angolo più esterno la grossa scritta Duvel richiama gli assetati verso un bar. Sint-Jansvliet è una piazza come ce ne sono a centinaia in tutte le città e i paesi delle Fiandre, del Belgio, della Francia… se non fosse che uno dei suoi lati sarebbe segnato dal grande viale che scorre parallelo alla Schelda, il fiume delle Fiandre. Ma da Sint-Jansvliet non si vedono né il fiume né la strada che lo costeggia, la visione è riempita da un grosso cubo color ocra, che ricorda una vecchia centralina elettrica, o forse una fermata della metropolitana d’epoca. E in effetti si tratta di un varco per scendere sotto terra, è l’ingresso del tunnel pedonale di Sant’Anna, o semplicemente De Voetgangerstunnel.

Fu nella seconda metà dell’800 che gli abitanti di Anversa cominciarono a interrogarsi su come connettere le due rive della Schelda, dopo che il rilancio della città voluto da Napoleone l’aveva portata ad espandersi anche sulla riva sinistra. Inizialmente si pensò a un ponte, ma ogni progetto finì per essere scartato: Anversa è una città che vive del traffico fluviale, un ponte avrebbe rappresentato un ostacolo eccessivo. Fu così che si arrivò allo scavo del tunnel di Sant’Anna, inaugurato nel 1933 e rimasto intatto come allora. Due caselli d’ingresso, 572 metri di piastrelle di ceramica bianca. E a congiungere le due bocche della galleria con la superficie, le scale mobili. Quattro rampe di listarelle di legno che si muovono incessantemente sin dagli anni ’30, sottolineando il battito cardiaco sottocutaneo della città di Anversa con il loro incessante tlac tlac. Le scale mobili furono una novità assoluta allora, e questo esemplare di Anversa è qualcosa di ancora unico al mondo, un slancio nel futuro del passato.

Ho ripensato a lungo alle scale mobili di Aversa lo scorso 12 dicembre, il giorno in cui la città delle Fiandre ha ospitato la sedicesima edizione dello Scheldecross, la gara di ciclocross cittadina. Era un appuntamento importante per questa stagione, perché segnava il rientro in corsa del fenomeno dei nostri tempi: Mathieu van der Poel. In una situazione normale, in un qualsiasi sabato delle Scheldecross, il tlac tlac di quelle scale mobili si sarebbe fatto assordante. Meccanismi vecchi di decenni sarebbe stati messi ancora una volta a dura prova dal trasferimento, andata e ritorno, di migliaia di spettatori. Tanti e tutti assieme all’andata, nel tarda mattinata in cui il sole d’inverno prova a scaldare e non ci riesce. Più alla spicciolata al ritorno, i primi alle cinque, gli ultimi alle otto di sera, stremati dal freddo ma esagitati dal tasso alcoolico. Lo scorso 12 dicembre però non è successo nulla di tutto ciò: le scale mobili sono rimaste deserte, nessuno ha dovuto percorrere il tunnel, risalire, e camminare le poche centinaia di metri che separano da Sint-Annastrand, la spiaggia di Sant’Anna, che a chiamarla spiaggia per noi ci vuole una certa fantasia, ma per la gente di Anversa questo è. Col parco circostante nei cui terreni si snoda il percorso dello Scheldecross, con le lingue si sabbia che immettono all’ultimo rettilineo costeggiando la Schelda.

Lo Scheldecross si è corso come ogni anno. Mathieu van der Poel ha vinto come ogni anno. Ma l’ordinarietà si conclude qui. Il resto sono scale mobili deserte, parchi deserti, spiagge deserte, e uno spettacolo sportivo che si svolge a sola misura delle telecamere, con il pubblico chiuso fuori, chiuso a casa dalla pandemia che ha reso questa stagione del ciclocross, così come qualsiasi altra cosa, un evento unico.

Quella di Anversa è una gara in città, una rarità del calendario, e forse proprio per quello risuona ancora più forte il silenzio, in un contesto già di suo affollato e rumoroso. Ma il pubblico alle corse di ciclocross non manca mai. E non sarebbe mai mancato nemmeno quest’anno. Non a Lokeren o a Gieten, dove la stagione si apre prima ancora dell’autunno. Non sulle pendenze del Koppenberg, dove le strade del ciclocross si incrociano con quelle del Giro delle Fiandre. Non a Niel, dove sin dall’autunno del ’63 i crossisti sono chiamati a celebrare la chiusura della fiera locale come se fosse una giostra medievale. Non a Namur, che i fiamminghi chiamano Namen, dove è necessario mettersi in fila come in montagna per risalire i pendii fangosi appigliandosi a corde fissate agli alberi. Non al Druivencross di Overijse, ritenuto la madre di tutti i cross, che ha segnato l’ultima corsa prima del mondiale. Non al Duinencross di Koksijde o a Zonhoven, unica corsa per la quale è necessario allestire due sound-system: uno al traguardo e uno in mezzo al Kuil, il pozzo di sabbia simbolo della corsa, dove il dj si attiene esclusivamente a musica tecno a tutto volume mentre dal palco vengono sparate lingue di fuoco nel cielo.

Koksijde e Zonhoven che sono due corse talmente amate e partecipate che quest’anno non sarebbe stato possibile organizzarle nemmeno a porte chiuse. Il 2020 nei loro albi d’oro sarà segnato da una riga vuota, seppellito sotto una manciata della sabbia che rappresenta l’elemento distintivo di entrambe le prove. Annullate proprio nella stagione culminata con il campionato del mondo più sabbioso dal 2012. Su una curva del circuito iridato uno sponsor ha finito persino per piazzare del pubblico finto. Sagome e tribune di cartone già viste durante alcune gare invernali; ai campionati nazionali belgi a Meulebeke c’erano persino dei boati registrati al passaggio dei corridori. Di certo le immagini sempre più raffinate di droni e telecamere mobili hanno colto tanti dettagli della corsa, regalato impressionanti scorci marittimi, ma non hanno potuto mostrare nessun pubblico. In sottofondo non ci sono stati applausi, boati o cori, e ancora una volta è stato un weekend senza musica.

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Fino al 2020 sembrava impossibile scindere il ciclocross dalla musica, perché la musica è festa, ballo, rito orgiastico che si sposta un fine settimana dopo l’altro in ogni provincia delle Fiandre e non solo. “Baraonda, fracasso, musica popolare, festa, il mondo alla rovescia, disordine, talvolta tumulto”, così lo storico Fernand Braudel raccontava le fiere fiamminghe del medioevo. Così si sarebbe potuto definire ogni appuntamento ciclistico invernale, dove la gara scorreva fuori dal tendone del bar, circondandolo e abbracciandolo, e la festa si consumava lì in mezzo, a suon di birra e ballo. Sembrava inimmaginabile un ciclocross silenzioso, in cui scatti e inseguimenti non fossero accompagnati dai ritornelli di “Jodeljump”, “Boven op de berg”, “Manuela”, “Ik moet zuipen”… talvolta persino da “Dancing queen” o da “You’ll never walk alone”, sino ad arrivare all’apoteosi finale, all’ultimo giro scandito da “Viva de cyclocross”, dalla “Tom Boonen” di DJ Goldenboy, dal travolgente ballo di “Links Rechts”. Sembrava impossibile, e invece si poteva, è successo.

Anche nel 2020 si è corso ad Anversa, e il tendone del bar nemmeno c’era. Il giorno dopo si è corso a Namur, in un assordante silenzio. E si è corso a Niel, a Gavere, a Essen, a Zolder, a Baal, a Hamme. Si è corso in ogni provincia delle Fiandre, proprio come negli stessi mesi si è corso in Svizzera, in Francia, in Italia, in Repubblica Ceca, in Spagna. Sarà un caso, o forse no, che le due gare più spettacolari della stagione si siano disputate su due circuiti inediti, lontani dagli abituali pellegrinaggi dei tifosi: Herentals e Dendermonde.

Silenziosamente, ma si è corso. Sfidando persino gli stessi equilibri economici degli organizzatori, i cui guadagni vengono sì da sponsor e dirette televisive, ma soprattutto dal pubblico. Alle gare di ciclocross gli spettatori pagano un biglietto e svuotano i portafogli in cibo e birra. Gli stessi sponsor allestiscono tendoni riservati a VIP e invitati che ospitano oltre mille persone. Sembrerebbe quasi che mancassero tutte le ragioni per correre, ma non è così.

Si è corso come una processione religiosa, come per compiacere gli dei del ciclismo e nulla più. Immaginate se durante il confinamento si fossero celebrate le messe ugualmente, ma senza i fedeli. Ogni sacerdote a porte chiuse dentro la sua chiesa, da solo. Nel ciclocross è successo, sta succedendo. La religione della bicicletta ha avuto la forza di superare anche questo inverno a partire dalla regione dove il culto è celebrato con più sacralità, la terra dove i campioni diventano semidivinità.

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Il ciclismo vive di grandi eroi, di nomi unici, dell’impellenza quotidiana del passare alla storia. Quando vengono a mancare questi grandi eroi, nel ciclismo si apre una voragine. È una lacuna che ha rischiato di gravare sul ciclismo moderno in questo secolo, almeno nella sua accezione più popolare, il ciclismo su strada maschile. Forse per il dolore della scomparsa di Pantani, forse per la caoticità dell’affare Armstrong, forse per la polarizzazione da tifo che ha riguardato i vari Boonen, Gilbert, Cavendish, Valverde o Sagan… In un ciclismo pieno di campioni è mancato l’uomo solo al comando, l’eroe in grado di sollevare un popolo transnazionale, umano. Nel ciclocross tutto questo non è accaduto. 

Le corse nel fango sono state trascinate nella modernità a colpi di pedale da una creatura divina, o forse diabolica. Sven Nys da Baal, simpaticamente soprannominato cannibale, ha preso un ciclocross confinato in un angolo e lo ha traghettato nel mondo. Sven è stato l’idolo dei bambini in Belgio e nei Paesi Bassi, il modello per tutti i corridori, la figura più fascinosa nel resto del mondo. E quando si è chiusa l’era di Nys, quando si pensava che il ciclocross dovesse tornare nelle secche, ecco arrivare l’ancora di salvezza: una rivalità. Non una qualsiasi, un duello globale tra due campioni che promettono di segnare un’epoca, e che questo scontro lo vivono per tutte e quattro le stagioni dell’anno.

Eppure non è stato un passaggio facile. L’esplosione dei numeri e dell’interesse registrata nell’era Nys subì un momentaneo rallentamento al momento del passaggio di testimone: i costi non smettevano di lievitare, ma i guadagni avanzavano a rilento. Certo, in campo femminile si volava altissimo, inaugurando una piccola età dell’oro che è tutt’ora in corso. Tra le donne questo sport non ha mai vissuto un livello così alto. Tra gli uomini è stato necessario invece uno scatto in avanti, dopo quella prima flessione, e lo scatto è avvenuto nel momento in cui i due rivali hanno acquisito una dimensione globale.

Per quanto accomunati dallo stesso curriculum e da una crescita che ha condiviso i medesimi sentieri sin dalla più tenera età, è difficile non notare come Mathieu van der Poel e Wout van Aert siano due corridori diversissimi. Da una parte c’è un concentrato di talento assoluto quale è Van der Poel. Un talento rintracciabile già risalendo la scala del suo DNA, con papà Adrie, plurivincitore di classiche e tappe, che è forse il ciclista più simile all’attuale Mathieu, e nonno Raymond Poulidor, il secondo più forte interprete del Tour de France tra gli anni ’60 e ’70. Van der Poel che fonde grazia e potenza con l’armonia di un animale selvaggio: quando spinge a tutta pare un bisonte lanciato libero in una prateria, semplicemente inarrestabile. Dopo il mondiale dello scorso anno, il giornalista nederlandese Thijs Zonneveld descrisse la sua vittoria con la drasticità di un meteorologo: «Si poteva solo fermarsi a fissarlo, nello stesso modo in cui si guardano i temporali». Dall’altra parte c’è quel concentrato di tenacia che prende il nome di Wout van Aert, un monumento vivente alla resistenza. Più le corse si fanno dure, più il destino si accanisce contro di lui, più Van Aert eccelle. E’ come se doversi trovare a litigarsi ogni risultato contro il ciclista più talentuoso di quest’epoca abbia fatto di Van Aert un supereroe, una sorta di infrangibile Iron Man a pedali.

Guardarli battersi è una gioia per gli occhi, è il più grande spettacolo offerto dal ciclismo degli ultimi anni. E poco importa che la rivalità nel ciclocross sia ormai completamente sbilanciata, con Van der Poel che nelle ultime tre stagioni ha vinto 65 gare sulle 70 a cui ha partecipato. Nelle 35 volte in cui i due si sono scontrati nello stesso intervallo di tempo, van Aert è riuscito a precedere il rivale i sole cinque occasioni. Certo, si potrebbe rilanciare con le corse su strada. La stagione 2020 ha visto van Aert quasi superare il rivale, se non altro almeno affiancarlo dopo che il rapporto sembrava segnato anche cambiando il terreno di scontro. Ma l’immagine conclusiva è il photofinish del Giro delle Fiandre: i due sono pressoché affiancati, ma davanti c’è Van der Poel. A dividerli però c’è una manciata di centimetri, mezza spanna al massimo. Ma i numeri non bastano a descrivere una rivalità, non sono i risultati a tenerla in vita.

Ci riuscirebbero meglio i chilometri: sono solo 36 quelli che separano Herentals, paese natale e residenza della famiglia Van Aert, da casa Van der Poel, a Kapellen. Mezz’ora di automobile nelle campagne a nord-est di Anversa, puntando verso il confine con i Paesi Bassi, ma senza raggiungerlo, perché per quanto indossi la maglia oranje, anche Mathieu è nato e ha sempre vissuto nelle Fiandre. La rivalità più accesa e intrigante del ciclismo mondiale è un derby. Una sfida che ha respinto senza appello tutti i possibili terzi incomodi ed è ormai ampiamente travalicata nel ciclismo su strada. È quest’ultimo aspetto a rendere ancora più straordinaria la rivalità tra van Aert e van der Poel: li accomuna una concezione globale del ciclismo, che li porta a sfidarsi su ogni terreno e in ogni stagione, a partire dall’inverno fiammingo. Il pubblico del ciclismo non aspettava altro da anni, soprattutto dopo l’ultima stagione su strada che ha proiettato ulteriormente le loro due stelle nel firmamento, e forse ridotto un po’ le distanze tra i due. Già, perché i numeri nel ciclocross ormai parlavano chiaro, tutti tranne uno. Restava un solo elemento di parità tra i due, un solo campo in cui il derby non aveva ancora emesso una sentenza, ed era il conteggio più importante di tutti, quello dei titoli mondiali.

Per risolvere l’ultima disputa, Van Aert e Van der Poel hanno tirato il fiato a breve al termine della stagione su strada, nonostante fosse stata un’annata follemente spremuta in pochi mesi che aveva spremuto a fondo tutti i partecipanti. Eppure tra fine novembre e metà dicembre si sono ributtati nel fango. Per divertirsi, per fare il proprio lavoro, per lanciarsi verso il momento che più di ogni altro suonava come una resa dei conti. Non vi è motivo di dubitare del fatto che Van Aert e Van der Poel continueranno a fare ciclocross nei prossimi anni, ma è ormai evidente che la spinta delle loro squadre è verso le corse su strada, che portano più visibilità a livello mondiale, più interesse, più ricchezza. Non sarebbe la stessa cosa se si rimanesse nel raggio dei pochi chilometri da casa loro, dove la carriera dei campioni del fuoristrada è più remunerativa di chi corre nella stagione calda, ma benché i due siano divisi da 36 chilometri, la loro ambizione è il mondo. Per questo sono tornati, si sono battuti senza risparmiarsi e trovandosi a livelli vicinissimi come non capitava da tempo, e infine si sono preparati per salpare verso l’ultimo arrembaggio.

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Ostenda è la città di mare delle Fiandre. E’ situata esattamente a metà dei soli 60 chilometri di costa del Belgio, al Mare del Nord deve le sue fortune e le sue sventure. Fondata nel nono secolo sull’isola palustre di Testerep, già nel giro di un paio di secoli l’innalzamento delle acque obbligò gli abitanti a spostare la città nell’entroterra. La lotta contro le inondazioni fu una presenza costante nella città, che fu costretta a costruire dighe e fortificazioni per difendersi dal suo mare, quello stesso mare che anche quando era quieto nascondeva rischi, perché era la via da cui giungevano assalti e razzie provenienti dai regni circostanti. Eppure il Mare del Nord era allo stesso modo una ricchezza: per tutto il medioevo Ostenda si affermò grazie ai commerci del suo porto e alla pescosità delle acque, sino a guadagnarsi il soprannome di Koningin der badsteden, la Regina delle città di mare. Alla fine del 1800 i reali belgi decisero di convertire il vecchio forte costruito dagli inglesi ad Ostenda in un complesso sportivo, che diventava un prolungamento ideale del colonnato delle Gallerie Reali affacciato sulla spiaggia. L’ippodromo mantenne il nome attribuito al forte, Wellington, e diventò uno dei principali impianti d’Europa, tanto da ospitare anche le prove di ippica alle Olimpiadi del 1920. Il suo declino arrivò in epoca moderna, quando si trovò più spesso destinato ad altri scopi più consoni alla nuova vocazione turistica della città: concerti, tornei di golf, gare di sci di fondo. E nel 2021, il campionato del mondo di ciclocross, la sfida più attesa, quella che in Belgio è stata definita “l’ora più bella di tutto l’inverno”.

Limitare un mondiale di ciclocross, per quanto ridotto nel programma come in questa occasione, soltanto all’ora conclusiva suona un po’ estremo. In questo caso forse anche ingiusto nei confronti di chi come Lucinda Brand, Fem van Empel e Pim Ronhaar a Ostenda ha conquistato una maglia iridata, spesso al termine di corse dure e spettacolari. Ma il mondiale del 2021 ruotava tutto intorno al duello, al derby, a quello che in tanti hanno identificato come il campionato del mondo più atteso di sempre. Benché ad attenderlo, sulla ventosa spiaggia di Ostenda, non ci fosse quasi nessuno.

E poteva andare peggio, poteva rimanere completamente deserta la spiaggia, se il campionato del mondo non fosse stato salvato per due volte nell’arco di pochi mesi. La decima rassegna iridata ospitata dal Belgio aveva rischiato a lungo di non potersi disputare per ragioni economiche. Al loro secondo mondiale, gli organizzatori si sono trovati da dover passare dai 60mila spettatori che parteciparono ad Hooglede-Gits sino agli zero del 2021. 60mila biglietti di ingresso in meno, se non di più considerata l’attesa per l’edizione di quest’anno, e un numero ancora più grande di litri di birra venduti in meno. Sono dovuti intervenire il governo delle Fiandre e la municipalità locale per coprire i costi della rassegna, ma persino il loro sforzo sembrava inutile davanti alla nuova impennata di contagi, che ha rischiato di lasciare la stagione senza l’appuntamento più atteso, facendo tremare gli appassionati sino a una settimana prima della gara. Eppure, ancora una volta, si è corso.

2’900 metri di circuito, diviso tra i 600 metri di sabbia del lungomare, i 1300 metri di erba, i 400 metri dell’enorme ponte d’acciaio con pendenze al 21%, i 400 metri della pista in cenere dell’ippodromo e i 200 metri asfaltati del rettilineo finale. Un conteggio da cui mancano i passaggi in cui i corridori si sono spinti a pedalare direttamente sull’acqua, chi per cercare un fondo più stabile, chi per ripulire la bici appesantita dal fango, chi come Van der Poel semplicemente per rinfrescarsi le gambe surriscaldate. Un passaggio quasi biblico nel mare gelato, che ha ricordato in maniera plastica quanto nel ciclocross sia importante saper galleggiare, indovinare traiettorie che si possono soltanto immaginare e scegliere così la via più azzardata per mantenere il proprio mezzo in equilibrio e lanciato in velocità. Nove anni fa, Van Aert e Van der Poel incrociarono per la prima volta le proprie ruote in un mondiale sulla sabbia, era la corsa juniores di Koksijde e fu la prima maglia iridata di Van der Poel. Riguardare le immagini di quella corsa oggi è uno strano cortocircuito temporale. I due appaiono effettivamente come i ragazzini che erano: Van der Poel più sviluppato aveva già lineamenti simili a quelli odierni, mentre il volto di Van Aert aveva ancora le linee arrotondate dell’infanzia. Nove anni più tardi, con volti da adulti, un filo di barba e contratti milionari in tasca, la sfida si è rinnovata sulla stessa sabbia, 25 chilometri più a nord.

Si sentiva un suono strano al via dello scontro finale. Laddove abitualmente sarebbe stata una bolgia di tifo e musica, questa volta ci si aspettava un sacro silenzio, caricato dalla spinta dell’impetuoso vento del nord. Invece il sottofondo sonoro era il più naturale possibile, era il garrire di centinaia di gabbiani famelici, che volteggiavano come avvoltoi sulle teste del gruppo e sulla gigantesca maglia iridata gonfiabile che l’organizzazione aveva collocato all’imbocco del rettilineo di partenza. Un suono naturale, ma anche un grido di battaglia. L’urlo di chi sa che la sua presenza davanti alle onde che si infrangono ha un solo scopo: mettere a fuoco l’obiettivo e lanciarsi in picchiata per predarlo. E nel ciclocross del 2021, questo è l’urlo di due uomini soltanto, a cui basta un passaggio soltanto sulla sabbia per far capire che non ce ne sarà per nessuno, che la maglia iridata sarà di Wout o sarà di Mathieu.

Da quel primo mondiale sulla sabbia, Van Aert e Van der Poel sono cresciuti facendosi ombra a vicenda, ma gli anni hanno messo in chiaro le caratteristiche che li differenziano, e se Van der Poel ha quasi sempre avuto dalla sua le gambe e il colpo d’occhio, Van Aert aveva saputo ribaltare destini già segnati grazie alla testa. Sulla spiaggia di Ostenda però il vento non si è limitato a sollevare in turbinii gli schizzi delle onde, ma ha spazzato via anche qualche certezza. Partito a tutta, Wout van Aert sembrava in una di quelle giornate in cui riesce a piegare il destino che abitualmente flirta col rivale, addirittura aveva spinto Van der Poel a un raro errore di traiettoria e alla conseguente caduta. Ma quando il vantaggio del belga stava incrementando ecco che il soffio del vento da sottofondo tonante è diventato il fischio sottile dell’aria che fuoriesce da una foratura, arrivata giusto dopo il passaggio dall’area tecnica. Troppo tardi per cambiare ma ancora in tempo per ricominciare a prendere il fato a cazzotti. Perché quando Van Aert riesce finalmente a sostituire la propria bici, il rivale è davanti ma è ancora a vista, la preda da azzannare attende solo la furia del cacciatore. Ma le onde si rompono e il vento soffia.

Dopo soli 57 minuti e 58 secondi di gara, Mathieu van der Poel si laurea per la quarta volta campione del mondo di ciclocross. Non è una cifra da record, ma è il numero che lo affianca a Roland Liboton, una delle leggende della disciplina, categoria nella quale ormai Van der Poel può albergare senza timore. Ma le statistiche interessano solo alcuni commentatori, i due protagonisti non paiono troppo propensi a considerarle. Il loro interesse è mettere la ruota davanti al rivale, non davanti alla storia, eppure è proprio questa continua sfida che alza sempre di più l’asticella spingendoli a raggiungere e talvolta superare i risultati ottenuti dai più grandi ciclocrossisti di sempre. Michel Wuyts, telecronista del ciclismo sul canale sportivo fiammingo Sporza, ha osservato come questa nuova generazione di corridori non si occupi nemmeno più dei record: «A loro interessa divertirsi e vincere, solo questo conta. Ai numeri penseranno forse più avanti, quando il record dei sette mondiali di Eric De Vlaeminck sarà a portata di mano, ma ora no».

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La luce sta già affievolendosi dietro a un cielo che non ha mai cambiato più di tanto le sue tinte di grigio quando i due rivali, accompagnati dal terzo classificato Toon Aerts, salgono sul palco per le premiazioni. Davanti a loro non c’è praticamente nessuno. Qualche giornalista, qualche meccanico, i volontari, i fotografi, ma soprattutto i gabbiani. Lo spettacolo finale ha per testimoni il Mare del Nord e la lunga spiaggia, che si fa più estesa col progressivo abbassarsi della marea pomeridiana. Sul podio non si vedono ne’ il sorriso di Van der Poel ne’ la smorfia di disappunto di Van Aert, coperte entrambe da mascherine a tinte iridate, sembrano dei corpi estranei rispetto al mondo circostante. Nove anni dopo la loro prima sfida iridata, Mathieu e Wout si trovano nelle medesime posizioni. 

Van der Poel sarebbe dovuto crollare dopo la caduta, invece ha trovato le energie per migliorare giro dopo giro e agguantare la vittoria con una concentrazione da campione. Anche nove anni fa, quando era soltanto un diciassettenne predestinato, era partito soffrendo e si era ripreso nel corso della gara. E’ un po’ stranito dall’assenza di pubblico, il mondiale gli è sembrato una gara come tutte le altre e confessa che avrebbe preferito festeggiarlo con amici e parenti. Ma con la stessa leggerezza che accompagna ogni sua dichiarazione, ammette anche di averlo apprezzato: c’era meno stress, sembrava DAVVERO una gara come tutte le altre. 

Van Aert avrebbe dovuto esaltarsi nell’inseguimento e invece ha trovato si è scoperto vuoto e vulnerabile, per una volta si è reso conto già durante la corsa che Van der Poel non era più raggiungibile. Ha perso quella che il suo commissario tecnico Sven Vanthourenhout ha chiamato “la preponderanza mentale”. Ma non sarebbe cambiato nulla con il pubblico intorno, riconosce Van Aert, perché i tifosi avrebbero semplicemente spinto entrambi. A Van Aert sono mancati due volti, li ha cercati tra tutte le persone che lo hanno circondato dopo l’arrivo, ben sapendo che si trovavano chiusi in un appartamento a poche centinaia di metri di distanza. Erano la moglie Sarah e il figlio Georges, nato meno di un mese prima, a cui Wout ha dedicato ogni sua attenzione mentre tutti si dedicavano all’attesa per la grande sfida. «Campione del mondo o no, gioia o delusione, qualunque emozione vuoi provarla con le persone che ami» ha detto Van Aert nelle intervista post-gara. Dopo un crollo mentale, dopo una sconfitta netta. Una corsa senza vita intorno che è riuscita ancora una volta a parlare di umanità.

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La stagione del ciclocross si allunga di qualche settimana dopo il Campionato del Mondo. Ci sono ancora alcune classifiche da definire e alcune corse da assegnare, ma per tanti la stagione finisce qui. La sabbia di Ostenda è stato il teatro delle ultime esibizioni per Van der Poel, Van Aert e Pidcock; dal giorno successivo tutti hanno cominciato a guardare alle sfide successive, alle corse su strada di una primavera ormai vicina. Come per il ciclocross, anche il ciclismo su strada si prepara a correre comunque, indipendentemente dalla presenza o meno del suo pubblico naturale, distaccato da un mondo stravolta da una mutazione improvvisa e troppo veloce. Gli dei del ciclismo chiedono che le processioni continuino, tanto che il grande derby, la resa dei conti, il duello finale di Ostenda di finale non ha quasi nulla. Nel giro di qualche settimana si ricomincerà a parlare di Wout e Mathieu, di Wout CONTRO Mathieu, e quella di Ostenda diventerà una di tante battaglie, non l’esito di una guerra. 

La costernazione dello sconfitto diventa quasi una speranza, mentre il sole tramonta sul Mare del Nord Van Aert ammette che è il bello del ciclismo: «C’è sempre un’altra corsa. Ora lavorerò ai prossimi obiettivi. L’anno venturo ci sarà di nuovo il ciclocross, e io ci proverò di nuovo». Come lui ci riproverà Mathieu Van der Poel, ma entrambi sperano di non riprovarci da soli, che la prossima corsa, la prossima sfida, torni ad avvolgersi in un tessuto multicolore di volti e grida. Che si torni a ballare a Overijse, ad arrampicarsi a Namur, a brindare a Niel, a pedalare a Koksijde o a Zonhoven. E che il tlic tlac delle scale mobili di Anversa torni a farsi un ruggito sotto il peso dei tifosi dell’uno o dell’altro, che in fondo sono tutti tifosi di entrambi, perché un duello si fa in due, e una festa si fa in tanti.