Storie di terre e di pedali: intervista a Giovanni Ellena

Giovanni Ellena era a pochi chilometri da Alassio, a Laigueglia per la precisione, quando nel 2006 entrò in sala per la prima riunione da direttore sportivo. «Entrai in questa sala e tutti si voltarono a guardarmi. Sono timido, introverso, puoi immaginare come mi sia sentito. Ero un direttore sportivo che non era mai stato professionista, solo dilettante. Alcuni colleghi mi avevano conosciuto durante un corso organizzato dalla federazione nel 2002 e avevano apprezzato questa mia timidezza, questo mio essere silenzioso. Ma io avevo paura, una paura incredibile. Però quando salivo in macchina mi passava, terminavo le corse quasi senza accorgermi».

Giovanni smette di correre perché deluso, da se stesso, dalla propria genetica, sa di non poter essere un campione ma vuole lavorare, fa il lavoro più distante da ciò che è: l’agente di commercio. Torna nel ciclismo per questioni affettive, perché quando accompagna dei ragazzi in allenamento, e poi alle gare, si rende conto che non vuole essere da nessun’altra parte se non lì. «L’unica volta in cui presi sette a scuola fu un tema di geografia: non perché fossi particolarmente bravo in geografia, ma perché conoscevo l’argomento, perché sapevo cosa dire. Io qui mi sento al mio posto ma allo stesso tempo mantengo l’idea di essere l’ultimo arrivato con una continua voglia di imparare. Non c’è nulla di filosofico, è quello che ti permette di restare in piedi».

Ellena parla dell’allenamento di ieri: offre un panino con il prosciutto a Natnael Tesfatsion, lui lo rifiuta. «Essendo ortodosso, a mio avviso poteva mangiare il prosciutto, così sono andato in camera da lui e ho cercato di capire. Ieri sera ho letto, mi sono documentato. Il maiale ha due unghie, per loro questo ricorda il diavolo. Vedi? Devi studiare e farti un esame ogni mattina. Altrimenti rischi di essere offensivo, di essere blasfemo».

Questo approccio volto alla comprensione è il grande credo di Ellena. Pochi giorni fa, Giovanni si è recato a prendere Andrii Ponomar, uno dei nuovi acquisti della Androni Giocattoli Sidermec, in aeroporto. «Non ha parlato per due, tre giorni. Non credo sia timido, è solo figlio della sua terra, forse un po’ freddo. Siamo stati a Torino a fare una visita cardiologica. Al ritorno l’ho guardato e gli ho detto: “Ma hai visto Zootropolis? Quel medico assomigliava da matti a Flash, il bradipo”. Gli si è accesa una lampadina ed è scoppiato a ridere: “Flash! Flash!”. Adesso, ogni volta che mi vede sorride e mi dice “Flash”. Per dire quanto basti poco. Ognuno ha una sua chiave per aprirsi».

In questi giorni Ellena ha aiutato anche Santiago Umba con le pratiche del volo, l’altra notte alle tre era sveglio per preparare tutte le carte, ma non solo. «In sostanza l’ho messo in sella in collegamento Skype. C’era suo papà che lo filmava sui rulli ed io gli spiegavo come fare. Secondo me può fare molto bene anche in volata, ha i numeri». Questi sono i ragazzi su cui Androni ha sempre scommesso. «Le cose sono cambiate radicalmente dai tempi di Rujano e di Serpa. Loro sono arrivati qui già adulti, sapevano già bene cosa fare. Con Sosa e Bernal è stato diverso: loro sono cresciuti con noi, erano ragazzini. Significa lasciare la propria terra e ritornarci, forse, due volte l’anno. Quanto è difficile? Sosa viveva in una cascina in mezzo ai campi, in una casupola. Ora vive con Egan Bernal e altri connazionali in un albergo-ristorante nel canavese. Il proprietario di questo ristorante ha delle galline: lui si sente a casa, la mattina scende e dà da mangiare alle galline».

Piera, la padrona di casa, racconta che Sosa la aiuta ad alzare le tapparelle del locale. «Il problema è che lui le alza anche al lunedì e noi al lunedì siamo chiusi». Così questi ragazzi vivono nel canavese ma si sentono in famiglia, cenando in cucina davanti a un camino, con le persone che gli vogliono bene. Poi c’è Wladimir, componente del fan club di Bernal, che ha un murales a casa con Egan in maglia gialla a Parigi. «Wladimir aveva detto a Egan che il giorno in cui avesse vinto il Giro d’Italia o il Tour de France, avrebbe dipinto la casa del colore della maglia. Bernal appena ha vinto lo ha chiamato ricordandogli la scommessa. Tu pensa che sapendo che avrei cercato di mediare, quella sera a cena non mi hanno nemmeno invitato. Che personaggio! Quando Bernal ha vinto al Tour de l’Avenir, Wladimir era sui tornanti: lo hanno sentito gridare da tre tornati più sotto. Ti rendi conto della passione?».

Dopo la notizia dell’esclusione dal Giro d’Italia, Giovanni Ellena non ha parlato per tre giorni. In ritiro, dopo diversi mesi a casa, ha ripensato a tutta la sua carriera, l’ha rivista al rallentatore, gli venivano in mente solo domande, tante domande. Si è ricordato degli inizi, di quel 2006, di quella signora della federazione che gli disse: «Ti auguro di durare molto, ma questo non è il tuo ambiente». Ripensa alla struttura di preparatori che Androni aveva messo in piedi negli anni, ai tecnici e ai preparatori che ora sono affermati professionisti. A tutto ciò che era possibile. Ripensa a quando, appena quarantenne, sbagliava approccio e cercava l’amicizia dei corridori: oggi sa che non va bene e non lo fa più. «C’è un bel rapporto con loro, ma non sono loro amico: se devo rimproverare un ragazzo lo faccio, se devo escluderlo per il bene della squadra lo faccio. Si tratta del mio lavoro e l’amicizia farebbe male».

Fra le tante domande, una lo assilla particolarmente: «Giovanni, sei sicuro che questo sia il tuo lavoro?». Una domanda che fa paura, una domanda che non mostra ai ragazzi, invitandoli a credere che un giorno saranno come Sosa, come Bernal, una domanda a cui poi deve darsi risposta. Ed Ellena quella risposta se l’è data qualche sera fa. «Ho una bella famiglia, una moglie, due figlie e un cane che adoro. Quando accadono queste cose pensi a loro. Ti dici che forse potresti anche fregartene e vivere più tranquillo. Quante cose si dicono? Quante? Sono bugie. Io sono venuto qui e non ho saputo fare nulla di diverso da quanto facevo prima. Sono fatto così e questo lavoro so farlo solo in questo modo. Non so se sia giusto. So che diversamente non saprei lavorare».

Foto: Luigi Sestili