La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli

Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».

Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».

A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».

Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».

Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».

Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».

Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».

Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli