Tutte le facce della salita

La tappa di oggi è in quel gesto dei corridori annunciato ieri sera: la decisione di devolvere i premi di giornata per sostenere le vittime della tragedia della funivia di Stresa. Azione brillante, da sottolineare.
E poi all'improvviso è tutta negli ultimi 6,5 chilometri che portano al traguardo dell'Alpe di Mera, quando Almeida la innesca, macinando il rapportino, tirando fuori la lingua come un cagnaccio assetato. Perché la salita quando è vera salita non ti permette di bluffare, ti leva la maschera, ti strappa di dosso quella corazza che fino a quel momento usavi per celare ogni sensazione.
La tappa di oggi si risolve nell'attacco di Yates, poco dopo, che riprende Almeida lo lascia lì a cercare i suoi perché e si invola verso il successo. Impassibile, col cerotto sul naso, dal busto in su pare la riproduzione in scala ridotta all'osso di un colosso di pietra. Uno dei suoi tecnici lo aveva detto: «Yates uscirà fuori nella terza settimana», una precisione così, vista di rado.
La tappa di oggi è negli sguardi di Bernal. Quando vanno via Yates e Almeida sembra finita, ma in realtà gestisce. Castroviejo e Martínez gettano litri di sudore per lui e si infiammano per aiutarlo, senza atti plateali stavolta. Bernal pare uno straccio inizialmente, poi lo sguardo si incattivisce e mira dritto verso il tornante successivo. Torna in sé fin quando, tagliato il traguardo, lancia sorrisi e occhiolini.
La faccia di Caruso è quella di chi è a due tappe da qualcosa difficile da spiegare e che non diciamo. Perché per "un gregario grande così" , come scrisse una volta qualcuno parlando di lui, quello che sta facendo è incredibile. «Ho trentadue anni e non sono così vecchio. C’è ancora qualche cartuccia da sparare» si raccontava tempo fa. Lui che sosteneva e pensa ancora che «un capitano vince soltanto se ha una squadra forte che lo aiuta, che lo scorta, che lo protegge. I gregari migliori devono andare forte quasi quanto il capitano, altrimenti nei momenti decisivi quest’ultimo rimane da solo». Lui, gregario, che si è ritrovato capitano dopo che Landa ha visto infrangere i suoi sogni sull'asfalto.
La faccia di Vlasov è quasi indecifrabile, forse sono quei tratti leggermente orientali o l'accento con inflessioni lombarde, fatto sta che, come lo leggi? Risponde agli attacchi, poi cede, poi barcolla, poi rimonta: se qualcuno ha preso i tempi negli ultimi chilometri forse scoprirebbe che alla fine Vlasov è stato persino il più veloce.
La tappa di oggi è nella prepotenza della pedalate finali di Almeida, sì sempre lui, quello delle boccacce, quello che non molla mai cascasse il mondo, quello che lo scorso anno ha vestito due settimane la rosa e che qui pareva solo in soccorso di Evenepoel. Ancora una volta maledice un traguardo che si avvicina troppo presto o forse le sue gambe che si risvegliano troppo tardi.
La tappa di oggi è in Foss che non si vede mai da doverti immaginare i suoi connotati, eppure è sempre lì, oppure in Covi, oggi 13° dopo tutto quello che di buono ha combinato al Giro a suon di fughe: il futuro per lui assume un nuovo significato.
La tappa di oggi è nella salita finale che Jacky Durand aveva descritto come simile all'Alpe d'Huez: non c'entra nulla, caro Durand, ma è sentenza vera. Perché al Giro puoi bluffare, puoi provare a nasconderti per non farti prendere, ma non puoi far nulla davanti alla forza di un'ascesa e a tutte quelle facce che ti costringe a mostrare.

Foto: BettiniPhoto


Dopo la fine c'è sempre un nuovo inizio

Nella vita di un corridore sono più i giorni tristi che quelli felici, si dice spesso, lo raccontava ieri anche Davide Cassani. Sono più le cadute che la gloria, le sconfitte che le vittorie, e una corsa di tre settimane è un compendio di rinascite e cedimenti, ascese e tonfi, di insegnamenti, motti e morali. È un viaggio che, quando giunge al termine, ne fa iniziare un altro. È una tappa che riparte, una nuova corsa che ti aspetta in calendario, una nuova idea da far diventare aspirazione.
Arrivi in fondo e c'è una fine che ti spinge verso un nuovo inizio: quando termini un cammino, vedi la luce in fondo al tunnel, completi un progetto, giungi in cima a una salita; persino quando raggiungi uno scopo e ti poni altri limiti. Quando spingi e vedi la linea del traguardo e poi la tagli sai che il viaggio al termine del giorno ti darà altro a cui aggrapparti, poi altro ancora. Ciclo della vita, sequenza da decifrare. Per ripartire, per provare a rinascere.
Per Remco Evenepoel e Giulio Ciccone ieri, il viaggio al Giro 2021 è terminato: non c'è stata una diciottesima tappa. Una curva a gomito il giorno prima con corridori che si disperdevano sull'asfalto, e giù per terra Ciccone, sul guardrail Evenepoel.
Questo Giro per loro è stato l'inizio, idea di ascesa verticale verso la gloria, un traguardo dopo l'altro da tagliare, fatica mascherata da proclami, gioie che si mescolavano a dolori, dopo un 2020 di quelli da strapparne le pagine e dargli fuoco. Infortuni gravi, drammi familiari, e sulle strade italiane la convinzione che la loro ricerca sarebbe ricominciata.
E Remco filava a questo Giro. Filava nei primi giorni tanto che c'è stata una tappa, quella con arrivo ad Ascoli, dove tutti pensavamo che il ragazzino belga dal motore che scomoda paragoni indicibili, avrebbe persino vestito la maglia rosa - semplice errore di calcolo. Poi a Campo Felice qualche pedalata da dietro, a Montalcino la crisi nervosa, sullo Zoncolan gli scricchiolii, poi Giau e infine Passo di San Valentino, martirio e dolore.
La caduta in discesa: sofferenza in un gomito gonfio come una mela acerba; il dolore: nessuna frattura per fortuna e la tappa portata a termine perché Remco non è solo sacro talento, ma un leone che si batte fino alla fine. Volevano fermarlo già il giorno prima, ma lui è ripartito, testardo, cosciente dei propri mezzi, voglioso di rinascere. L'altro ieri una sorta di oblio rotto solo da quell'immagine che lo vedeva tagliare il traguardo con una smorfia che esprimeva dolore fisico, palesava quello dell'anima. «Lo abbiamo spinto fino al traguardo - racconta Keisse, che di anni ne ha 18 in più e divideva la stanza con lui a questo Giro - aveva così tanto dolore che non riusciva a tenere stretto il manubrio». La prima vera batosta di una carriera che sin qui lo ha visto brillare come un genio delle arti a cui tutto riesce così bene. E ieri Remco non è partito, così come Ciccone.
È salito sul palco firme, Ciccone, poi nulla da fare. Anche l'abruzzese i primi giorni fulgeva, saltellava con quelle gambe nervose e tirate, sorprendeva scalando la classifica, poi una brutta botta, la febbre e una notte insonne. Infine il ritiro. Per entrambi tutto si è fermato tra Sega di Ala e Rovereto. Per entrambi tutto ripartirà con una nuova convinzione.
Per entrambi una fine anticipata in corsa, espiazione di chissà quale peccato. Ma negli occhi una scintilla. La prossima corsa arriverà presto e con quell'aria da leoni che entrambi si portano dietro è facile immaginarceli presto già di nuovo competitivi, o comunque in sella, per una rinascita che sa di rivincita. Perché a ogni fine fa seguito sempre un grande inizio e questo Giro d'Italia gli ha insegnato qualcosa anche (o soprattutto) nell'amarezza della sconfitta.

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