MiTo Roglič

Quando Primož Roglič vede lo striscione d'arrivo e magari la strada è in salita, è un po' di tempo che non ce n'è proprio per nessuno: istinto killer. 60 vittorie in carriera, 13 in stagione: oggi alla Milano Torino, verso la Basilica di Superga, c'ha provato Adam Yates a sorprenderlo e a un certo punto sembrava pure farcela.
Poi da dietro è piombato Roglič con quel suo fare che appare quasi freddo, ma che invece è semplicemente ordine, rigore, stile. Lo salta, Roglič, e lo stacca come se lui fosse un velocista in salita, e gli altri al suo cospetto paiono frenati, come oltre ogni limite.

Sabato scorso al Giro dell'Emilia aveva sprintato su Almeida, a un certo punto, preso dalla morsa Quick Step, Roglič se ne infischiava; li batteva dopo aver superato con affascinante eleganza le rampe micidiali del San Luca.

Oggi alla MiTo è stato il turno di Yates, dopo l'ennesima gara ricca di scintille, combattuta, ventagli, attacchi, tattiche. Malcapitato del giorno? L'inglese della Ineos! Sconfitto come succede un po' a tutti in questo momento quando ti giri e di fianco c'è lo sloveno della Jumbo con quella sua azione a tratti ipnotica.
Fra qualche giorno Il Lombardia per uno dei capitoli conclusivi di questa incredibile stagione che non vorremmo mai finisse. Ci sarà la possibilità di sbrogliare la matassa da lontano, perché nessuno vorrà arrivare a tu per tu con Roglič, ma almeno l'arrivo non sarà in salita - sembrano sospirare i suoi avversari.


Il divertimento per De Marchi

Che a De Marchi venga bene vincere con la pioggia è un dato di fatto. Pioveva (anche) qualche anno fa al Giro dell'Emilia. Pioveva a dirotto ieri sul traguardo - e per la verità su tutto il tracciato - della Tre Valli Varesine quando nella volata a due con Formolo («Beh volata è un parolone. Più che altro una moviola degli ultimi 200m» ci dirà scherzosamente) l'ha spuntata lui, il "Rosso di Buja", il "Capitano" come lo chiamano orgogliosi i ragazzi del Cycling Team Friuli, la squadra che lo ha lanciato, la squadra dove De Marchi resta simbolo e punto di riferimento, per carisma e dedizione, trasparenza e sensibilità, per il suo spirito di appartenenza.
Ha vinto poco in carriera (6 successi da professionista), ma benissimo: tappa al Delfinato, 3 tappe alla Vuelta e poi, per l'appunto, Giro dell'Emilia (era il 2018) e Tre Valli Varesine, ieri. Sta vivendo un finale di stagione dove, nonostante il brutto incidente al Giro d'Italia, sta correndo come meglio sa fare: da protagonista. Con la sua squadra di club e con la nazionale. Serio e affidabile, come direbbe lui: un agonista.
Su #Alvento16 lo avevamo intervistato. Un'intervista densa e ricca di spunti che ci ha dato la possibilità di far conoscere l'umanità di questo ragazzo classe '86 che raccoglie risultati importanti quando corre, ma che una volta sceso dalla bici ha tante, tantissime cose da raccontare, arguto e mai banale. E questa che riportiamo è davvero soltanto una minima parte:
«Ci si diverte di meno nel ciclismo? Dipende. Uno può continuare a divertirsi anche se le regole cambiano. Forse abbiamo perso la capacità di essere liberi nel modo di interpretare una corsa. Quando le tappe sono noiose, la responsabilità è nostra: siamo noi corridori a renderle così. I tempi sono cambiati, mi sta bene, ma dovremmo arrivare al punto in cui siamo noi a dirci chi se ne frega oggi corro anche per fare terzo. Quest'anno al Tour of the Alps mi sono trovato in fuga con Nicolas Roche: mancava talmente poco che avremmo potuto tranquillamente mollare, alla fine un secondo o un terzo posto a me e a lui cambia assolutamente niente, però abbiamo deciso di farci inseguire dal gruppo e divertirci, e credo che abbiamo anche fatto divertire. Siamo arrivati che eravamo emozionati come se avessimo vinto».