Bizzarrie del ciclismo lusitano

"Menos doping, mais vinho tinto", meno doping più vino rosso, prova a raccontarla così una ragazza che regge un cartello visto lungo la strada durante una delle prime tappe della "Grandissima", o meglio "A Grandissima", se volessimo dirlo in portoghese, il nome con cui è conosciuto la Volta a Portugal arrivata quest'anno all'edizione numero ottantatré e iniziata qualche giorno fa con il prologo di Lisbona.
La prova iniziale l'ha conquistata il più forte specialista contro il tempo portoghese, Rafael Reis, uno dei diversi corridori che assume un contorno quasi misterioso, perché spesso capita come, usciti da quel contesto, improvvisamente valgano di meno. Reis che di recente ha conquistato il titolo nazionale contro il tempo, dominando la prova davanti a Oliveira e Almeida, concedendo poi il bis ai Giochi del Mediterraneo.
Meno doping e più vino rosso, dicono i tifosi portoghesi che letteralmente impazziscono per la loro corsa di casa; meno doping, già, perché il ciclismo portoghese è nel caos. Alla vigilia, l'UCI ha ritirato la licenza alla squadra di riferimento del nord della regione, la W52/FC Porto, e secondo Cyclingtips senza questa squadra salteranno tutti gli accordi commerciali futuri per portare la corsa in alcune di quelle zone e, sempre come racconta la testata nordamericana, il capo dell'agenzia antidoping lusitana è stato minacciato con tanto di proiettile recapitato a casa; la W52/FC Porto è stata così esclusa dopo alcuni casi che hanno portato alla perquisizione e al ritrovamento di sostanze dopanti. Come spiegato da Cicloweb "sono stati sospesi per traffico di sostanze illecite e utilizzo di “metodi proibiti”"; un'indagine che va avanti da diverso tempo con arresti e perquisizioni di atleti e dirigenti del team. Altre squadre alla vigilia hanno dovuto fermare alcuni corridori e in un clima da crime story si è partiti lo stesso, nonostante si fosse arrivati non troppo lontani da una clamorosa cancellazione.

Si va avanti lo stesso per quella che è la festa del ciclismo portoghese, una corsa sentita dalle loro parti come, o forse anche più, del Tour de France e del Giro d'Italia, una corsa che fu un Grande Giro di tre settimane e che ora si corre in circa dieci giorni; che è nata prima della Vuelta a España e che ha avuto nell'albo d'oro il più grande corridore lusitano della storia, quel Joaquim Agostinho che l'ha vinta tre volte (recordman fino alle quattro vittorie di Chagas negli anni '80 e poi di Blanco più recentemente); quel Joachim Agostinho che morirà dopo aver investito due cani randagi in corsa (era la Volta ao Algarve del 1984), quel Joachim Agostinho, tanto brutto da vedere in bicicletta, quanto efficace, capace di chiudere due volte sul podio del Tour e di vincere pure un Trofeo Baracchi in coppia con Van Springel finendo davanti a Merckx (3° in coppia con un giovane Boifava) che al termine di quella gara venne insultato dalla folla al grido di "Droga! Droga!".
Joachim Agostinho era sgraziato come lo è il più forte ciclista portoghese di oggi, João Almeida: anche lui non fa della bellezza in bici il suo marchio di fabbrica, quanto l'efficacia. Almeida non ha mai corsa la Volta, e nei prossimi giorni sarà al via della Vuelta España in nome di un ciclismo che, purtroppo per loro, vede i migliori talenti (così è anche per Guerreiro, e così sarà per Morgado, segnatevi il suo nome), trovare slancio in campo internazionale emigrando altrove.

Ma la Volta a Portugal è questa: una corsa che di internazionale ha poco, hanno vinto praticamente solo iberici, tanto che in 82 edizioni si contano due successi italiani, Lelli e Serpellini, uno svizzero, uno britannico, uno danese, uno belga, uno polacco, uno russo e uno persino brasiliano e il resto diviso tra Portoghesi (59) e spagnoli (13, tutti arrivati dal 1999 in poi). Una corsa che lancia corridori che poi al di fuori di quelle strade - pensate ad esempio ad Alarcon o ad Antunes, nomi mitologici e vincitori di quattro delle ultime cinque edizioni - fanno fatica (eufemismo) a imporsi.
Una corsa che riesce a stupirti per alcune bizzarrie, come ad esempio il magnifico design del traguardo, due enormi braccia che reggono lo striscione d'arrivo; dove succedono cose al limite come il tifoso che scavalca, con un guizzo degno di un saltatore in alto di un'epoca pre Fosbury, le transenne, mentre il gruppo arriva a tutta velocità a giocarsi la volata - scopriamo, grazie a Leonardo su Twitter, che quello non era un tifoso, ma Candido Barbosa, vincitore di venticinque tappe in questa corsa, tra il 1999 e il 2010, altro nome che al di fuori di qui non si è mai imposto; oppure il capolavoro fatto dal corridore spagnolo Xavier Canellas, un gesto che è ormai leggenda.

Nella tappa di qualche giorno fa con arrivo in salita a Covilhã appariva attorno al suo nome la scritta DSQ, squalificato. Squalificato perché? Ha tagliato il traguardo - sorridente e divertito - con un cappello di paglia al posto del casco, sembrerebbe per protesta contro la direzione di corsa, per aver corso con un caldo quasi insopportabile. Tutto questo è Volta a Portugal.
Corsa difficile da non amare. Pensate all'uruguaiano Mauricio Moreira, che, vista l'esclusione dei W52 Porto, arrivava alla vigilia come il favorito assoluto. Forte in salita, si difende molto bene a cronometro, dotato di spunto veloce, attualmente, a poche tappe dal termine, è al secondo posto della classifica generale alle spalle del compagno di squadra Frederico Figuereido, altro mattatore assoluto quando si corre in Portogallo.
Un nome che potrebbe apparire esotico quello di Moreira, ma su cui qualche squadra del World Tour potrebbe scommettere per il prossimo anno, a patto di fidarsi delle stravaganti notizie che coinvolgono il ciclismo lusitano. Un circo meraviglioso, tra casi di doping e vino rosso, tra passaggi in mezzo agli incendi e caldo insopportabile. Una corsa da andare a seguire e raccontare almeno una volta nella vita.

Foto da: volta-portugal.com


Cosmopolitismo

Forse potrà sembrare qualcosa di poco conto. Come un gingillo di qualche tipo che, piazzato in casa, assume un significato solo per chi ce l'ha messo, perché gli fa venire in mente "quella volta in cui" o qualcosa del genere, pur non essendo particolarmente bello.
Leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" c'è chi storcerebbe il naso, ma leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" bisogna poi andare a interpretare lo spazio tra le righe o semplicemente ascoltare le parole di Sivakov: «Sono felicissimo, un successo mancava da troppo tempo. Ne avevo bisogno».
Arriviamo dalle settimane delle corse travolgenti al Tour de France, è vero, con una forza d'urto tale di emozioni che tutto il resto ci sembra sopraffatto da diventare così piccolo. L'eclettico gigantismo ciclistico di van Aert, il dinamico regolare rigorismo di Vingegaard, l'effervescente avanguardismo spavaldo di Pogačar, ingredienti che ci hanno riempito gli occhi e colmato le giornate di luglio. Di tutto luglio.
Poi è arrivata la Vuelta a Burgos - e altre corse d'agosto e altre ce ne saranno, per fortuna - ed è tornato al successo Pavel Sivakov. Non vinceva da tre anni esatti e in carriera ha vinto così poco da non crederci. Da ragazzo era un gioiello capace di splendere raccogliendo successi da prima pagina e quando cadeva - purtroppo cade spesso - si rialzava il giorno dopo per compiere l'impresa. Ci riferiamo a quel suo magnifico anno 2017 quando conquistò il Giro d'Italia Under 23, quello Ciclistico della Val d'Aosta e poi, quando si pensava potesse infilare una tripletta con l'Avenir, si accontentò (per modo di dire) di vincere in fuga da lontano la tappa di Albiez-Montrond.
Sivakov, che in quella stagione pareva un piccolo despota di quelli che fanno e disfano a proprio piacimento, alla Ronde de L'Isard - altra corsa a tappe di riferimento per la categoria - non passò un giorno senza attaccare da lontano: iniziò nella prima tappa - cancellata per condizioni meteo avverse; dominò la seconda con arrivo a l’Hospice de France lasciando Lambrecht a 1’17”; per finire l'opera da tramandare nella quarta frazione quando si prese il lusso di vincere come i dominatori del ciclismo passato. In maglia di leader attaccò in discesa a oltre cinquanta chilometri dalla conclusione vincendo davanti a Knox, Antunes e al terzetto belga Lambrecht, Cras, Vanhoucke con quasi un minuto di vantaggio; il settimo arrivò a oltre quattro minuti.
Vuelta a Burgos, corse a tappe, Pavel Sivakov e fuga da lontano. Uniamo i puntini. Ha attaccato da lontano per conquistare la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola; ha attaccato, Sivakov, con quella mascella da divo dei film d'azione; è cresciuto, e che possa essere definitivamente esploso non è la breve (e piccola) corsa che ce lo deve dire, quanto forse quella più grande (la Vuelta, se lui ci sarà) tra un paio di settimane, o forse ce lo dovrà spiegare la INEOS se deciderà di fare di lui quell'atleta che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare lontano da stratagemmi tattici volti a incatenarlo, ma lasciandolo libero di interpretare la corsa, magari attaccando un po' quando gli pare e sente, come il ciclismo di queste ultime stagioni, quello dei Pogačar, van Aert o van der Poel, ci sta insegnando.
Scorre il tempo, e noi ci sentiamo placidi sognatori a pensare una cosa del genere; scorre a volte lento come un temporale estivo che si avvicina e sembra non sfogare mai la propria forza sulla sua testa, scorre lenta la crescita di Pavel Sivakov, nato in Italia, prima russo e ora francese, cresciuto in una squadra svizzera e adottato da una inglese che ha spesso fatto dell'intransigenza tattica il suo mantra. Scorre il tempo di Pavel Sivakov, ma prima che possa schioccare le dita e dirsi già perso, lo attendiamo dove tutti pensavamo di trovarlo qualche stagione fa. In mezzo al mondo, in cima al mondo. Alla prossima Vuelta (Carapaz permettendo ) capiremo cosa sarà diventato, se uomo di classifica, se gregario di (extra) lusso, se attaccante ritrovato. L'importante però è vederlo di nuovo lì davanti.