Alvento a Scuola
Tutto è iniziato vedendo la copertina di Alvento18 e guardando quel sasso, quello di Roubaix, quello vinto da Sonny Colbrelli, conquistando la Parigi-Roubaix. Massimo, insegnante di scuola dell'infanzia, l'ha vista con suo figlio e quel bambino ha iniziato a porsi e a porre domande su quel sasso. «Un sasso è per un bambino piccolo qualcosa di pesante che non bisogna lanciare, si chiedono subito come possa diventare un premio, un regalo. Il compito di un adulto è provare a spiegarlo». Da quel momento, Massimo ha avuto la certezza che le domande di suo figlio sarebbero in realtà state le domande di molti altri bambini. Alla scuola dell'infanzia "Clorofilla" di Milano sono arrivate così alcune copie di Alvento.
«Basta appoggiare una rivista per terra o su un tavolo e lasciare che i bambini la sfoglino. A quel punto saranno le immagini a evocare qualcosa su cui i più piccoli si interrogheranno. Noi seguiamo questo modello nell'insegnamento: cosa dice quella foto, quel disegno, quel colore? Che storia c'è dietro? Da queste domande, si impara». Sì, perché per spiegare la storia di quel sasso serve viaggiare con la mente, arrivare "nell'Inferno del Nord" e spiegare di quelle biciclette che "vanno sui sassi" per poi entrare in un velodromo e sfidarsi in velocità. «Non solo, bisogna parlare di materia, di tatto: di quanto sia pesante quel sasso, del suo essere ruvido o lisciato dalla pioggia. E se un sasso è duro, il fango è morbido e cosa si prova a toccarlo, a pedalarci o camminarci dentro? Qualcuno lo sa, altri vogliono capirlo».
Gli adulti parlano, spiegano, raccontano, i bambini si avvicinano a quelle foto, avvicinano tutte le mani e indicano anche i dettagli minori. «Si arriva a parlare di velocità, di equilibrio, del come faccia una bicicletta a restare in piedi, a non cadere e di cosa facciano i ciclisti per scalare una montagna o per curvare in discesa». Allora i bambini si confrontano tra loro: c'è chi va in bicicletta con i genitori, chi sta imparando, chi sa fare qualcosa che gli altri non sanno fare. L'equilibrio stupisce sempre, come ogni storia: «Il gioco è immaginare dove stia andando una persona in bicicletta, cosa farà una volta arrivata, quanto tempo ci metterà per arrivare, chi incontrerà. Si tratta del concetto di possibilità che la mente dei bambini esplora di continuo. Qualcosa che forse crescendo si rischia di perdere».
Ad un certo punto, si guardano le immagini della Parigi Roubaix femminile, qualche bambino chiede: «La bicicletta è per bambini o per bambine?» e la risposta se la danno loro stessi: «La bicicletta è per tutti, non vedi le foto?». Per tutti e anche, soprattutto, per i più piccoli: basta tornare indietro di qualche pagina e proprio all'inizio della rivista tutti fissano l'immagine di una bambina che va in bicicletta. «Allora si parla dell'essere grandi. Qualcuno spiega che è già grande e adduce a motivazione il fatto che va già in bicicletta, altri si chiedono cosa significhi diventare grandi, adulti, altri ancora aggiungono che si è grandi quando si può andare in bicicletta da soli». Mentre gli adulti si confrontano, anche i bambini si confrontano, così crescono.
Il concetto è quello di autonomia. Cosa accade quando un adulto insegna a un bambino a fare qualcosa? Ad andare in bicicletta, ad esempio. «La nostra idea è che, poi, adulto e bambino siano sullo stesso piano. Certo, l'adulto ha imparato prima, il bambino dopo, ma ora che entrambi sono capaci che differenza c'è?». Questo vuol dire dialogare e ascoltare: «Serve fiducia e disponibilità: “Ora che hai imparato, decidiamo assieme dove andare, cosa fare”. Si parte così ed allora i più piccoli propongono, si mettono in gioco, magari sbagliano. Stanno imparando». Non c'è più solamente una guida e qualcuno che impara, ci sono due persone che stanno esplorando un bosco, un sentiero, una strada. «Credo sia vero che le strade di oggi sono pericolose, non sono, purtroppo, il luogo ideale per giocare o correre in bicicletta, ma per cambiare tutto questo abbiamo un solo modo. I bambini devono conoscerle, raccontare ciò che li diverte e ciò che li spaventa. Fare domande, interrogare quel mondo che non sembra a misura di bambino. Da qui può nascere il cambiamento». Se gli adulti ascoltano, se gli adulti hanno coraggio.
«Consegniamo ai bambini la loro autonomia, consegniamola a piene mani e lasciamo che possano viverla. L'esperienza di pedalare da soli, senza più nessuno che tiene una mano sulla loro spalla, è straordinaria. Sono felici, ridono, gridano, perché stanno scoprendo cosa sanno fare, cosa possono fare. Mentre lo scoprono continuano a interrogare la loro immaginazione e si proiettano in altri mondi, in altre strade, in altre possibilità. È un esercizio difficile ma importantissimo». Un esercizio che può partire da un'immagine, da una bicicletta e portarli chissà dove. Nel loro diventare grandi, a partire da un'aula di una scuola dell'infanzia in una mattinata di ottobre.
I giorni dopo Erratico Gravel
Il giorno dopo è il giorno delle idee, dei pensieri. Così è accaduto anche per Erratico Gravel e tutto ciò che è stato quel fine settimana di inizio ottobre nel Canavese non sta nelle parole. Paolo Ciaberta e Simone Bracco, fra gli organizzatori dell'evento, hanno voglia di raccontare, una voglia che, in realtà, appartiene a tutti dopo giornate così. «Vengono e ti dicono semplicemente che sono felici- spiega Paolo- poi ti spiegano la loro giornata, i momenti più belli e quelli più difficili». Simone nota che questa è una forma di condivisione, come tante altre: «Guardate le storie sui social: è come spartirsi un poco di acido lattico. Spesso le persone non si aspettano queste cose da una bicicletta, rimangono stupite e, quando rimangono stupite, fotografano, spiegano, raccontano. A chiunque».
Già, una delle tante forme di condivisione perché già solo ritrovarsi tutti assieme e pedalare significa condividere. «Fotografando- osserva Paolo- li guardavo quei volti. Era incredibile: più aumentava la fatica, più la terra e il fango addosso, più la fatica, più aumentava la felicità». Perché? È una domanda spontanea. «Perché siamo molto abituati a una fatica mentale che logora e prendere una bicicletta, scegliendo di faticare, quasi purifica, risana, cura. Un'ora, due ore, e le cose prendono un'altra dimensione, quella giusta. Vivibile». Tutti assieme, che significa campioni, esperti, profani e chi ha iniziato a pedalare da un anno, talvolta da meno. Simone parla del rugby: «Il terzo tempo nel rugby è una delle parti più belle. In un evento come questo, il terzo tempo è ovunque: in un ristoro, in quelle chiacchierate, anche nelle paure, nei dubbi. Alla fine, a tavola, si sta tutti assieme e stare a tavola assieme è unico: non importa quello che sai fare, quanti watt sviluppi, quanto tempo ci metti, si pranza assieme».
Lo ha notato anche Patrick De Lorenzi, ironman che ha partecipato a Erratico Gravel: «Lui che con il fisico può fare qualunque cosa, che non ha problemi di resistenza o fatica, ha scritto che Erratico è stata "un'esperienza brutale e meravigliosa". Crediamo renda l'idea, crediamo basti per raccontare la scoperta di una terra attraverso due giorni di divertimento». Qualcosa di simile si può narrare anche passando dal velodromo Francone di San Francesco al Campo.
Simone dice che gli addetti del velodromo, inizialmente, apparivano quasi perplessi, certamente dubbiosi da questa forma di ciclismo "nuova" che poi nuova non è, che affonda le sue radici nelle basi di quello che è una bicicletta. «A loro faceva strano non parlare di podi, di tempi, di classifiche, di barrette energetiche e gel, ma di ristori con cibo tipico e, perché no, un bicchiere di vino. Eppure, alla fine, erano incuriositi, interessati e chiedevano, facevano domande. C'è stato uno scambio e questa essenza del ciclismo li ha colpiti». Probabilmente, chiosa Paolo, il gravel ha aiutato, questa disciplina a metà strada che permette nuovi viaggi, nuove esplorazioni, certamente ad attirarli è stata un'altra questione.
«Spesso, quando pensiamo al ciclismo, pensiamo al ciclismo professionistico e va bene così perché lì cerchiamo l'epica, la straordinarietà delle gesta, qualcosa che non ci faccia sentire tutte le fragilità e le debolezze di cui siamo fatti. Il punto è che come uomini e donne, spesso, siamo distanti da quelle gesta, non siamo capaci di fare certi numeri e dobbiamo ammettere che questo non è un problema. Anzi, è bello anche andare lentamente in bicicletta, fermarsi, non competere con nessun se non con te stesso, se vuoi. Prima o poi, arriviamo tutti a questa scoperta: continuano a emozionarci le gesta dei campioni, ma ci emozionano anche i nostri piccoli miglioramenti, il nostro crescere». Di quella lentezza è fatta, ad esempio, l'osservazione del territorio di cui, a forza di correre, si rischia di non rendersi conto.
«Il Canavese è una terra straordinaria, bosco, sottobosco, natura e strade da scoprire ogni giorno, perché c'è ancora tanto che non si conosce. Ci piacerebbe che questa terra si volesse un bene maggiore, riconoscendo la sua bellezza e andandone fiera. Perché chi passa da qui, anche se distratto, resta meravigliato. Sempre».