Motovelodromo Fausto Coppi, Torino

In qualche cassetto di fotografie di qualche vecchia casa torinese si ritrovano fotografie di quando, in Corso Casale, al Motovelodromo "Fausto Coppi", le voci e le mani a rumoreggiare nell'aria erano tutte per il momento d'oro del football americano ed i rugbisti, con le loro mete, erano di ispirazione per le nuove generazioni. Un signore anziano narra di aver incontrato Fausto Coppi, qualcuno, più audace, racconta di aver corso con l'Airone. Magari, come è accaduto a Benedetta Lanza, un vicino di casa, in una mattina come tante altre, si lascia andare ad una confessione: «Sai che ho aggiustato biciclette per trent'anni in quel Motovelodromo?». Non lo sapeva Benedetta, pure se il quartiere è lo stesso e mattine di autunno, ancora buie, prima di andare a lavoro, ne ha viste tante, mentre anche quel signore saliva in auto. Diari dei ricordi che, casualmente, ogni tanto riaprono coloro che oggi hanno dai sessant'anni in su. I più giovani parlano dei mercatini dell'usato che si svolgevano ad inizio degli anni 2000 proprio laddove una volta le biciclette sfidavano il vento. Memorie, memorie storiche che hanno in comune un luogo e tante vite, tante quotidianità, giornate andate, tanto tempo fa, al Motovelodromo. Ma nelle scuole, nei licei, cosa resta di tutto questo? Perché quei ragazzi non erano ancora nati negli anni venti del novecento e questa storia la possono conoscere solo attraverso qualche libro, se sono curiosi, appassionati forse. Ma è giusto così? Il tempo passa e non può fare nulla, le persone, invece, sì. «Ad una certa età è possibile restituire- ci dice Fabrizio Rostagno- ed è un verbo molto bello, perché si avvera solo ad un certo punto della vita: quando hai tante fortune ed anche tante sfortune ma, in ogni caso, tanti giorni alle spalle. Perché anche gli studenti del 2024 abbiano la stessa memoria, pur declinata in un tempo diverso, è necessario restituirgliela ed il modo per farlo è restituire a tutti il luogo storico in cui si è costruita ovvero il Motovelodromo "Fausto Coppi".

Parliamo di due ettari e mezzo di terreno in centro a Torino, di un immobile storico, ma non è pensabile restituire nulla se non rendendolo attuale, dinamico, animato». Fabrizio Rostagno è ora CEO di Sport4Good, società che si occupa del restauro architettonico del bene, e presidente della SSD a RL Motovelodromo di Torino, Benedetta Lanza, invece, è responsabile delle relazioni con il territorio e della progettazione sportiva con carattere sociale, la cosa più importante da dire, però, è che, senza un bando del comune di Torino per la concessione per sessant'anni del Motovelodromo, questa storia non sarebbe mai esistita. E in Corso Casale sarebbe rimasto un cumulo di ricordi, attaccato ad un luogo abbandonato di cui la memoria non si è presa cura. Era il mese di dicembre del 2019 e Fabrizio, torinese doc, proprietario di vari circoli di padel, nessuno dei quali a Torino, partecipava al bando, quasi per gioco. La realtà spiazza ed invade i disegni degli esseri umani: quel bando lo vince. Il possibile nasce in quel momento.

La successione di eventi è mirabile, nonostante una pandemia di mezzo: il bando Muoviamoci della Compagnia San Paolo, assieme all'impegno di Rostagno, permette il restauro della facciata storica. L'idea centrale è quella di rispettare la storicità del luogo, di valorizzarla e di iniziare l'attività sportiva al più presto. Passano mesi e per le tante volte in cui Benedetta Lanza, che inizia a collaborare nel giugno del 2020, si chiede se mai ce la faranno, altrettante volte Fabrizio le ripete di essere sicuro di farcela: «Per me è una visione: quando hai una visione, spesso non c'è nulla e gli altri possono anche non crederti, ma la visione resta, lì, nel cassetto. Se trovi qualcuno, anche solo poche persone che riescono ad immaginarla con te, ne trai una forza enorme e diventi sicuro. Insisti». Tra giugno e luglio del 2021 la firma, chiavi in mano, così si inizia a ristrutturare e si riaprono le porte al pubblico, da ottobre: campi da padel e da beach volley, i primi spogliatoi sono container, si ristruttura la curva, nasce l'idea del bar e del ristorante e le scuole del territorio iniziano a trascorrere al Motovelodromo le ore di educazione fisica. Anche se è novembre, fuori fa freddo, eppure quei ragazzi sono così felici. Nell'aprile del 2022 viene ristrutturata la pista, le bici tornano a girare, si tengono i centri estivi ed il bando Con.bi.na, dalle parole conoscere, bicicletta e natura, porta cento ragazzini a pedalare lungo il fiume con guide ed istruttori che raccontano le varie caratteristiche della flora e della fauna. A dicembre del 2022 gli spogliatoi veri e propri prendono il posto dei container, nel febbraio del 2023 è il turno del ristorante, a luglio nasce la piscina estiva, la possibilità di praticare triathlon, in una piscina regolamentare di 25 metri. E servirebbero dei puntini di sospensione, anche se non ci piacciono, perché le tribune sud e nord sono ancora in divenire. «Succede lo stessa cosa che accade nelle nascite: qualcosa che non c'è, all'improvviso, arriva. In questo caso, la meraviglia è stata vedere un posto in completa rovina rinascere, cambiare di pezzetto in pezzetto- spiega Benedetta- e aggiungere un pezzettino diverso ogni giorno, nuove potenzialità ogni settimana», La parola giusta è ispirazione e Fabrizio Rostagno se ne intende di ispirazioni. Dice che partono da un qualcosa che lui ha sempre saputo fare bene: copiare. Ride di gusto e aggiunge: «Anche a scuola, eh».


Rostagno si occupava di impianti fotovoltaici nel 2001, ben prima che il loro business prendesse piede. Il "pionierismo" è in quell'indole: quando conobbe il padel in Spagna, ne vide i numeri, le potenzialità e lo portò in Italia e poi a Torino oppure quando a Copenaghen, dopo essere stato con i figli a Legoland, capitò in questa sala, a pedalare con i simulatori. L'ha replicata al Motovelodromo: con i garmin, gli schermi e sette postazioni, per allenarsi come ci si allenerebbe a casa ma con una socialità maggiore. La sua legge è fare le cose bene, badare alla sostenibilità economica, in primis, altrimenti è tutto vano, poi guardare a realtà più grandi, magari ai velodromi con 12000 persone, al Nord Europa, voler arrivare lì e pensare che arrivarci sia possibile, partendo da quel manufatto fisico che è la bicicletta e da tutto ciò che implica il ciclismo, almeno in questo caso. E andare, parlare, narrare, quel che è stato e quel che sarà. Un libro scritto da Beppe Conti contiene la storia del Motovelodromo, un altro nascerà con i racconti delle persone che l'hanno vissuto. Poi accogliere, ascoltare le domande, cercare le risposte: in questo modo migliaia di ragazzi hanno assistito alla presentazione di Lidl-Trek in occasione dello scorso Giro d'Italia, nonostante la pioggia ed il tempo inclemente. Perché Fausto Coppi è un ricordo, bellissimo ma pur sempre ricordo, mentre il Giro d'Italia c'è e passa sempre. Un inno all'importanza dello sport, al suo valore sociale, all'inclusività, alla cultura, quando lo sport è in un libro, in pagine e parole. Benedetta Lanza aggiunge: «Non è facile ma stiamo cercando di coinvolgere sempre più le scuole e con i docenti di educazione fisica, piano piano, ci stiamo riuscendo, con un reciproco adattamento alle necessità gli uni degli altri. Gli istituti scolastici più vicini vengono a trovarci. A gennaio, sono stati qui i licei: gli studenti che avevano materie da recuperare, da potenziare, si sono dedicati a quello, altri hanno potuto staccare, godersi la libertà e dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio hanno sperimentato ogni tipologia di sport che pratichiamo in questa struttura». Al Motovelodromo si iniziano a svolgere anche le discipline aeree ed è grazie a quel pionierismo di Fabrizio, su cui ora pesa una grossa responsabilità, quella della storia trascorsa che, forse, sarà sempre più grande e più importante di quella futura, ma poco importa.


«Stiamo lavorando su una scuola di ciclismo, strutturata, in cui tutti i ragazzi possano accedere, affinché corrano in un luogo sicuro e la sicurezza deve essere un cardine. La responsabilità è aprire il Motovelodromo e renderlo accessibile a tutti, far crescere anche la parte agonistica, per questo abbiamo coinvolto Fabio Felline, con una squadra corse dai 6 ai 12 anni. Bisogna lavorare ad un tessuto che permetta al ciclismo di continuare a crescere, di sperimentare e farsi conoscere da chi non pedala, da chi non ha mai provato. Il territorio è dalla nostra parte, penso a Superga, alle nostre colline: lì si può diffondere la cultura e raggiungere chi ancora non l'ha». C'è la Gran Fondo Torino, la Milano-Torino a scatto fisso, il Giro d'Italia con le biciclette storiche, che ha portato una ventata d'antico in questa modernità, ci sono gli eventi di triathlon, la Nightri, il 21 giugno, nella notte, dalla sera alla mattina, senza contare i tornei internazionali di padel, a squadre, in carrozzina, ed ancora eventi di sensibilizzazione, nelle scuole, anche a tema sicurezza stradale. L'apporto della Federciclismo è fondamentale, come l'apporto di coloro che hanno praticato il ciclismo come lavoro perché «solo parlando la stessa lingua è possibile capirsi al meglio e se vogliamo che il ciclismo torni al centro abbiamo l'obbligo di rivolgerci a chi quella lingua, per restare nella metafora, la conosce bene». Sembra strano ma accade: quando le classi arrivano al Motovelodromo, in qualche giorno d'inverno, c'è sempre qualche ragazzo che ammette di non utilizzare la bicicletta, qualcuno, addirittura, spiega di non essere capace di andare in bicicletta: «Stupisce- spiega Benedetta- perché per la mia generazione pedalare è come camminare, però è bello che accada e che imparino qui. Anche questa è cultura sportiva». Allo stesso modo è cultura sportiva l'idea di provare a diffondere tutti gli sport: «Spesso si va dove è più facile: credo che in molti abbiano scelto uno sport non basandosi sulla totalità degli sport praticabili, bensì su quelli più accessibili. Noi vorremmo ampliare questo panorama, fare in modo che tutti possano almeno provare, anche solo un anno, poi è possibile cambiare». Si arriva così al ruolo sociale della bicicletta ed ai corsi di manutenzione organizzati con il sostegno del ministero, piuttosto che a quelli per diventare guide cicloturistiche: «Torino è una città molto legata all'automobile, ma vediamo tutti come il mercato dell'automobile inizi ad essere in difficoltà: io sono certo- afferma Fabrizio Rostagno- che la bicicletta possa aiutare anche in questo senso, creando posti di lavoro».

All'interno del Motovelodromo, il bar, a propria volta, propone e organizza eventi, Fiab collabora e le associazioni non vedenti si mettono in gioco con esperienze belle, significative: provare a guidare un tandem, aiutare un non vedente, mettersi nei panni di chi non può vedere e lasciarsi accompagnare. Altra parola chiave è accoglienza, comprendere quanti più professionisti nel progetto, senza gelosie, senza egoismi. Forse, ci dicono, qualcosa di simile non poteva che accadere a Torino, «forse questo è proprio il posto giusto, per la bellezza e per l'importanza riconosciuta alla bellezza, perché siamo vicino al centro e, per i numeri, questo è fondamentale, ma anche accanto alla natura. C'è unicità, autenticità e continuiamo a credere nell'unicità e nell'autenticità, è il nostro carattere di piemontesi e di torinesi. Il nostro essere sabaudi fa in modo che ci voltiamo spesso a guardare il passato, lo consideriamo e quando iniziamo a fare qualcosa cerchiamo di farlo con cura, con spirito di appartenenza». I problemi restano, la burocrazia è sempre molta e a volte gli ostacoli paiono insormontabili, Fabrizio e Benedetta hanno capito che l'unica via per farcela è restare concentrati sul progetto, dedicandosi a quello e pensando a quel che è possibile realizzare. Alcuni momenti hanno la capacità di far dimenticare ogni cosa e di metter ancor più in risalto il bello: Fabrizio pensa a quella madre, davanti alla scuola di suo figlio che, conoscendolo, lo ha avvicinato per dirgli «grazie, perché il Motovelodromo mi ha cambiato la vita». La sua bambina lo frequenta. Oppure, ancora, alla conoscenza di Fabio Wolf, ai progetti che riguardano disabilità e sport in cui lo ha coinvolto e ad una pedalata spensierata, verso Mantova, dove hanno trascorso la notte in tenda. Sono stati contenti, ed a ripensarci lo sono ancora. Probabilmente è anche questo il segreto della restituzione, il motivo per cui provare a restituire esperienze e passioni fa stare bene.


Voce del verbo ripartire: intervista a Martina Alzini

Non appena, dall'altro capo del telefono, giunge la voce, le prime parole ci spiazzano e per qualche istante rimaniamo in silenzio: «Diversi giornalisti mi hanno scritto e intervistato nell'ultimo periodo e, se vuoi che ti dica la verità, resto sempre abbastanza sorpresa, non ne capisco il motivo. Di solito le interviste si fanno a chi vince, a chi ha tanto da raccontare. Nell'ultimo anno, io non ho vinto nulla, anzi, ne sono uscita esausta e posso assicurare che non sto esagerando: è la realtà. Mi sembra di non avere nulla da dire, oppure, forse, ben poco. Talvolta ho la sensazione di ripetere le solite cose, altro non posso raccontare perchè io ho vissuto questo». A parlare è Martina Alzini, ventisette anni, di Legnano, casacca Cofidis Women Team: in una pausa, interveniamo, le spieghiamo perché l'abbiamo cercata, le diciamo che, alla fine, sono le persone a contare e nulla può sostituirle. Probabilmente non la convinciamo del tutto e lo capiamo bene, perché chissà quante volte l'avrà sentita questa storia. Ad una conclusione arriviamo solo mentre scriviamo questo pezzo, riascoltando la registrazione dell'intervista e anche questa non è particolarmente originale ma tant'è: chi crede di aver meno da dire, chi parla poco, di solito è proprio chi avrebbe più da condividere. «Di non voler a tutti i costi tirarsi fuori da soli dalle risacche in cui, qualche volta, ci costringe la vita: penso sia questa la cosa più importante da raccontare. Io sono caduta in quest'errore, quasi chiedere aiuto ci faccia apparire deboli. Lo dico a voce alta: chi ha la forza di farsi aiutare è forte, molto forte. Anzi, la dimostrazione della forza di carattere è proprio in questo. Dovremmo imparare a non aspettare di soffrire per chiedere una mano. Sono affiancata da uno psicologo, perché a fine stagione ero mentalmente svuotata. Non c'era più luce, dentro e fuori».
La motivazione è andata calando nel 2024 e ad un certo punto Alzini si è confrontata con la difficile condizione di non trovare un motivo per continuare a fare quel che, comunque, continuava a fare, fedele alla professionalità richiesta ad una ciclista: «Non provavo più alcuna emozione e non c'è nessun responsabile, non c'è una colpa di qualcuno, era uno status mio. Forse ho gestito male le mie energie: dapprima il pensiero fisso rivolto a Parigi, all'Olimpiade, successivamente la forte motivazione legata al Mondiale su pista, poi mi sono fermata, la mia mente ne ha risentito». Martina Alzini sottolinea più volte quel "non è colpa di nessuno" e spiega che, probabilmente, si è ingenerato un equivoco che vorrebbe chiarire: «Può essere che la mia reazione a caldo non sia stata la migliore. Sbagliamo tutti, sbaglio anche io. Non so se mi sono spiegata male, oppure non sono stata compresa, ma non è questo il punto. Il fatto è che, spesso, è passata l'idea che avessi qualcosa contro qualcuno. Non è così. Anzi, voglio ringraziare Marco Villa per avermi messa alla prova e perché se, fra tutto ciò che non ha funzionato quest'anno, posso sentirmi fiera di "essere uscita dal nido" l'opportunità è venuta da lui. Mi spiego meglio: è normale che le cose negative facciano più notizia di quelle positive, però nel 2024 non c'è stata solo l'esclusione dall'Olimpiade di cui tutti mi chiedono. Ho corso in Australia, ho corso la Coppa del Mondo in Canada e siamo arrivate seconde dietro la Gran Bretagna, ed al Mondiale, oltre alla conquista del bronzo nel quartetto, ho sperimentato la Corsa a punti, una specialità differente in cui vorrei fare bene. Volevo di più, certo, volevo un'altra medaglia e quel "no" all'Olimpiade sto imparando ora ad accettarlo e metabolizzarlo, lo ammetto, ma sento che diventerà un punto di forza. Non sono più una ragazzina, atleticamente non sono così giovane e "uscire dal nido" a ventisette anni non è scontato. A me è capitato». A Parigi, non appena seppe che sarebbe stata riserva, scrisse qualche riga e, al fondo di questa riflessione, aggiunse un pensiero per tutte le atlete e gli atleti nella sua stessa condizione.

Martina Alzini (ITA) - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2022

«Fa parte del mio carattere, anche fuori dallo sport, credo nell'aiutare gli altri perché quando si è in difficoltà è questo che si desidera: qualcuno che porga una mano. E se lo desideriamo per noi stessi, perché non dovrebbe volerlo anche quella persona che, magari, ci è vicina e sta attraversando un brutto periodo? Alla fine siamo tutti esseri umani ed i bisogni, spesso, sono gli stessi. Si chiama empatia ed in questa società può pure sembrare un problema, perché in pochi la vivono. Io sono fatta così e, ora posso dirlo, resterò così anche se può far male. Non cambio questo lato di me. Tra l'altro, nel ciclismo difficilmente si va da qualche parte da soli. In nazionale è accaduto a tutte ed a tutti di essere esclusi in certe occasioni e non c'è nulla per cui protestare. Quando succede, bisogna solo mettersi nella condizione per cui non ricapiti; lavorando ancora di più, impegnandosi, cercando di migliorare». Alzini è una ragazza solare, la battuta e lo scherzo sono parte del suo pane, anche quando si va in profondità, così, d'improvviso ride di gusto, fa ridere anche noi e racconta uno scherzo organizzato dalla sua squadra, la Cofidis, durante il primo ritiro con Julie Bego, appena diciannove anni. A Bego era stato detto che sarebbe stata in camera con "la più "vecchia" e severa del team, un'atleta sempre seriosa, poco incline alla risata o al divertimento": quella ciclista era Martina Alzini che, in accordo con lo staff, nei primi giorni di condivisione della camera ha retto il gioco. Julie Bego era preoccupata, qualcuno dice "terrorizzata". Un giorno parla con Alzini e si confessa entusiasta dell'inizio della stagione del ciclocross: «Ma come? Ti perdi il periodo di off season, forse la parte più bella della stagione e sei così felice?». La risposta di Bego è quella che fa capire a Martina Alzini di trovarsi davanti ad una fuoriclasse: «Io la penso al contrario, senza bici soffro. Tu sei "vecchia", forse per questo la pensi diversamente, magari un domani cambierò idea anche io». Una porta in faccia, un'onestà disarmante, una genuinità che non ammette repliche, nessun timore reverenziale. «Julie è vera e quando si è così viene tutto naturale, mi somiglia: non so fingere. Sono cresciuta insieme a Marta Bastianelli, ascoltando i suoi consigli e provando a farne tesoro, quando vedo una ragazza nuova e giovane in gruppo penso spesso alle sue possibilità, al suo talento, a dove potrà arrivare e se qualcuna viene a bussare in camera mia, alla sera, mi appaga l'idea di poterle essere d'aiuto, in qualche modo».
Al Tour de France Femmes, in realtà, è arrivata una piccola boccata d'ossigeno: una volata in cui si è risentita bene ed una top ten che doveva restituire morale, al termine di un periodo in cui Alzini non riusciva più a dormire e faticava in allenamento. Questo il motivo del pianto liberatorio, appena tagliata la linea del traguardo. Qualcuno non ha compreso quelle lacrime, di più, qualcuno le ha giudicate, criticate, anche con commenti sotto i suoi post social: «Ero estremamente vulnerabile e quelle parole non pensate mi hanno fatto riflettere. Perché si cerca sempre di screditare senza conoscere la storia delle persone? Mi chiedo se le persone sanno cosa si prova a stare in gruppo nel 2024: non devi pensare, perché se pensi tiri i freni e ti fermi. Posso capire che per qualcuno quella top ten non significhi nulla, ma prima di dirlo, prima di scriverlo, perché non si prova a fare uno sforzo di immedesimazione? Se hai un ampio pubblico che ti segue, quella critica può scivolare via in mezzo a tanti commenti, diversamente può davvero fare male. Io credo che, a patto di scegliere di fare attenzione alle parole, si possa davvero dire quasi tutto ed ogni pensiero sia legittimo, ma le parole vanno pesate prima di parlare, altrimenti meglio tacere». Le critiche, spiega Alzini, sono normali nel suo lavoro, con l'esposizione mediatica, certo hanno un peso differente a seconda di chi le fa, perché «dal divano siamo tutti bravi a esprimerci. I pareri vanno bene, i giudizi penso, invece, richiedano una certa conoscenza del mondo di cui si parla».
La stagione 2024, a fronte dei risultati che sperava migliori, le ha restituito la capacità di apprezzare le piccole cose, ad esempio il sesto posto colto con Martina Fidanza nella disciplina della madison in Australia. Non tanto per il risultato in quanto tale, quanto, piuttosto, per l'esperienza e per il ricordo che le ha lasciato: non a caso sostiene che, nonostante tutto o forse proprio per questo il 2024 sia l'anno in cui è cresciuta di più ed è cambiata di più, soprattutto in una parte insondabile, l'interiorità. Per il 2025, relativamente alla strada, vorrebbe lavorare sull'aspetto aerobico e migliorare sulle salite, essere più resistente; in pista, invece, il traguardo è quello di affinare la tecnica nelle gare di gruppo, come la Corsa a punti, per essere competitiva. A voce bassa, però, il desiderio più importante: «Vorrei tornare ad alzare le braccia al cielo. Non ho una gara preferita, non ho una corsa che sogno più di altre. Solo non vedo l'ora di riprovare quella sensazione, quella felicità». Cofidis è l'ambiente ideale per inseguire questo traguardo, una squadra storica e «se si resta nel mondo del ciclismo per così tanti anni, un motivo ci sarà: significa che c'è studio, c'è programmazione». Martina Alzini si dice fiera della propria italianità, allo stesso tempo, però, tiene gli occhi ben aperti: «Noi italiani saremo sicuramente più bravi a fare un piatto di pasta, su questo non ho dubbi, su altro, tuttavia, di strada da fare ne abbiamo e sarebbe il caso di guardare all'estero e trarre spunto: per esempio dalla tutela del lavoratore che c'è in Francia, dal modo in cui si cerca di agevolare l'ingresso e la permanenza nel mondo del ciclismo». Il periodo di riposo a fine stagione le ha permesso di trovare tranquillità, il cui sinonimo per una ciclista è organizzazione, ovvero costruire la propria forma fisica senza cambi di programma: «Il ciclismo si è estremizzato molto, ma noi siamo umani e "forte" ovunque non possiamo andare. Serve un compromesso: lavorare molto evitando di "fissarsi" su quel che non va perché è dannoso: svuota, prosciuga».
Martina Alzini non riuscirebbe a sopportare la routine di alcuni lavori, perché è una ciclista e come tale è una viaggiatrice del mondo con la valigia in mano, però di casa sente la mancanza. Non tanto del luogo fisico, nemmeno di un locale o di un oggetto, quanto piuttosto di una situazione: le sere sul divano con il gatto che ha adottato, trovandolo, di fatto, in mezzo ai rifiuti. Proprio il suo lavoro non le consente di tenere un cane, ma, appena può, si reca al canile e ne porta a passeggio qualcuno. Ora che trova conforto e sollievo nei dettagli e nei particolari, tiene fra le cose più care la solitudine di un allenamento, le acque del lago placide ed il sole. «E questo autunno è stato davvero pieno di sole»