Diciamolo pure, la Vuelta sonnecchiava, annoiava, suscitava malumori.
Ci sono volute 13 stazioni di questa via crucis per assistere a una tappa degna di un grande Giro.
Com’è andata lo sappiamo.
Tappa breve, ma molto dura. Durissima.
In circa 135 chilometri quattromila metri di dislivello. Meno, se togliamo le discese.
Partenza in salita come antipasto e amaro Tourmalet per concludere. Si, quello.
Vetta a 2115 metri, dove la NASA nel ’63 vi installò un telescopio.
Non ha il fascino dello Stelvio né l’altitudine dell’Izoard, ma è pur sempre la montagna più pedalata, emblematica e attesa dai francesi e – quest’anno per la prima volta – dagli spagnoli.
Inconturnable, inevitabile, dicono quelli del Tour. Più numerosi e folli dei cugini iberici ai bordi dei suoi tornanti.
In principio era Remco.
Da lui si aspettava una gestione ottimale delle energie, una dimostrazione di forza congrua alla sua tracotanza giovanile. Ci si aspettava qualcosa per poter rosicchiare secondi e provare ad affondare o quanto meno ad aprire una falla, nella corazzata Jumbo.
Ci si aspettava che la mina vagante belga esplodesse.
Troppe aspettative.
All’arrivo avrà un distacco di 27 minuti pieni.
Qualcuno un giorno si renderà conto che per essere un campione servono muscoli, fiato, programmazione e testa. Queste ultime due in evidente dipendenza reciproca.
Remco Evenepoel è giovane. Per fortuna. Purtroppo.
Quindi il suo no comment ai giornalisti nel dopo gara ci sta.
Per lui si è mosso anche il capobranco e patron della squadra Patrick Lefevere per capire cosa è successo al cucciolo di lupo. Ma questa non è certo una news.
Dall’altra parte quelli in giallo. Los tre caballeros, i tre moschettieri, i tre tenori di questa tournée spagnola.
Chiamateli come vi pare, ma sicuramente i più forti. Ai limiti dell’antipatia.
Perché sebbene sembrino chirurghi senz’anima, avvoltoi di Wall Street, sono pur sempre una Squadra. E il maiuscolo è dovuto.
Vingegaard ha vinto. Con fatica certo, ma ha vinto. Il re pescatore – oggi in apnea – ha dedicato il gradino più alto del podio alla figlia che in quel giorno compiva 3 anni. Era un pò emozionato il danese. Della serie: “C’è vita su questo pianeta.”
Kuss è arrivato secondo. Sorridendo. La rivoluzione del gregariato. Come non tifare per lui?
Come non sperare che venga clonato e distribuito a ogni squadra World Tour come regalo natalizio?
O magari innestato al nostro Damiano nazionale. Caruso ovviamente, non quello dei Måneskin.
C’è da chiedersi se gli alti vertici, seduti nelle loro auto dai finestrini chiusi, permetteranno al ventottenne americano di coronare il sogno di una vita sportiva.
Già, perché sembra che in Jumbo ci voglia un lasciapassare unanime e un ok via radio per poter vincere. Sembra non basti un incredibile stato di forma e un curriculum recente di tutto rispetto.

Roglic dal canto suo fa il terzo comodo.
Brillante il suo podio, meno la sua imperturbabile espressione. Lui, il campione del nostro Giro, è fatto così: poche chiacchiere e pedalare.
Forse è per questo che si trova a proprio agio nell’alveare dei calabroni.
Gli altri, in una giornata dal caldo anomalo per la stagione, hanno fatto del loro meglio.
Come da copione. Com’era giusto che fosse.

Un giorno arriverà un italiano a farci sognare in una corsa trisettimanale. Oh sì che verrà!
Attendiamo e preghiamo.
Per adesso notti inquiete.
E stelle gialle che brillano.