Quella prima volta in Belgio

Il Cycling Team Friuli si affaccia nel mondo del ciclismo dal 2005 e negli anni ha scalato le gerarchie di quello che una volta avremmo definito dilettantismo - mentre oggi quel tipo di definizione lascia il tempo che trova: tra Continental, squadre Under 23, team di sviluppo, appare quasi obsoleto parlare ancora di dilettanti come categoria che prepara al salto tra i professionisti, ma questo è un altro discorso. Il Cycling Team Friuli, col tempo, è diventato un punto di riferimento in Italia di quella categoria trait d'union con il professionismo, quella categoria fondamentale per insegnare ai ragazzi quello che verrà.

Ha scaldato i motori qualche stagione fa lanciando al piano superiore uno dei nostri corridori preferiti - e più alvento di tutti - ovvero Alessandro De Marchi, vero simbolo della CTF della prima ora e ha proseguito nelle stagioni successive con i fratelli Bais (Davide e Mattia), Alessandro Pessot (oggi parte dello staff della squadra), Nicola Venchiarutti, Matteo Fabbro, Giovanni Aleotti, Andrea Pietrobon, Jonathan Milan, Fran Miholjevic e nel 2024 farà salire nella categoria maggiore Nicolò Buratti e Alberto Bruttomesso, per la verità quest'ultimo arrivato solo pochi mesi fa con l'obiettivo di prepararsi al meglio per il grande salto con il Team Bahrain Victorious, squadra di cui il CTF da un paio di stagioni è a tutti gli effetti il team di sviluppo.

Negli anni, i ragazzi guidati da Roberto Bressan e Renzo Boscolo, e in ammiraglia da Alessio Mattiussi e Fabio Baronti, si sono sempre distinti per far crescere gradualmente i propri atleti preparandoli al professionismo facendogli maturare esperienza all'estero, soprattutto nell'est Europa, ma dal 2023 qualcosa è leggermente cambiato. Attività al di fuori dell'Italia, sì, ma un po' più su di quella che ormai è la consolidata tradizione degli ex bianconeri friulani.

Abbiamo ascoltato uno dei tecnici della squadra, Alessio Mattiussi, fresco proprio della trasferta in Belgio alla Youngster Coast Challenge, e in procinto di ritornare lassù al Nord per disputare una della gare più attese del calendario Under 23: la Gent-Wevelgem che si correrà in una giornata piena zeppa di ciclismo da quelle parti, una sorta di mini-mondiale: quel giorno infatti, domenica 26 marzo, su quelle strade correranno anche gli juniores e ovviamente le due massime categorie rappresentate da donne e uomini élite.

Quest’anno un passo importante: per voi è la prima volta in Belgio.

Come Cycling team Friuli sì: lo scorso anno invece Buratti andò a correre proprio la Gent-Wevelgem con la maglia della Nazionale. Per questo 2023 abbiamo deciso di cambiare: noi di solito andiamo a disputare le corse nell’est Europa ma abbiamo sempre avuto il pallino di andare in Belgio, ma organizzare quel tipo di trasferte non è per nulla facile. Ci siamo riusciti grazie anche al supporto del Team Bahrain, e così abbiamo corso Youngster Coast Challenge e poi correremo la Gent.

Uno dei miei cavalli di battaglia, che porto avanti da sempre, è: per essere davvero competitivi tra i professionisti, nelle categorie giovanili bisogna andare al nord e quindi in Francia, Olanda e Belgio e scontrarsi contro le squadre che fanno abitualmente quel calendario e misurarsi su quel tipo di percorsi. Questo tipo di esperienza in che modo può servire ai ragazzi per essere poi pronti al piano di sopra?

Lo abbiamo visto sin dalla recon della Gent: un approccio diverso al modo di correre, percorsi vari e ricchi di ostacoli, l'imbocco dei muri è totalmente differente da un inizio salita in Italia. E poi ti trovi il pavé in mezzo ai paesi o all'improvviso nelle strade di campagna e ciò ti costringe ad alzare la soglia dell’attenzione: capitano imprevisti, cadute e forature. Questo porta a un interpretazione della corsa differente: ti tiene sempre sull’attenti, ti sollecita, un modo di correre più nervoso: dall'ammiraglia tutti chiedono di prendere davanti i muri o quei tratti particolari dal punto di vista tecnico, e il risultato è che il gruppo si allunga e si alza in maniera decisa il ritmo della corsa.

E senza dimenticare il vento.

In Italia, Slovenia, Croazia, dove corriamo spesso noi, puoi capitare la giornata di pioggia e vento, ma lì è all’ordine del giorno e infatti alla Youngster - dove per altro siamo stati fortunati con il meteo, niente pioggia e vento solo a tratti - in un momento in cui tirava un po’ di vento, le squadre development, Lotto e Uno-X su tutte, hanno provato ad attaccare aprendo i ventagli. È questa la chiave: o stai davanti e impari a correre in quella maniera, oppure se fuori dalla corsa.

 

Cosa ha dato ai tuoi ragazzi questa prima esperienza in Belgio?

Per loro è stato importante andare su qualche giorno prima. Di solito per far fronte al budget si va sempre a ridosso della corsa, mentre noi grazie al supporto della Bahrain siamo rimasti su per una settimana da lunedì a venerdì, abbiamo provato i percorsi e abbiamo vissuto quasi come un team World Tour: cinque giorni di trasferta, ricognizione di tutta la Gent e questo ti porta a capire già cosa vuol dire imboccare davanti un punto cruciale come il Kemmelberg ad esempio. Abbiamo provato il vero pavè belga e lo abbiamo fatto in bici, anche per capire i vari setup da usare: le ruote più adatte all’occasione, che rapporto utilizzare sui muri, perché la scelta è vasta, ma ti devi chiedere: qual è il più efficace? Anche per evitare cadute di catena e altri imprevisti. E poi è stato fondamentale fare la Youngster Coast Challenge prima della Gent-Wevelgem per farci un'idea di quello che troveremo domenica sia a livello di avversari che di percorso.

E qualche loro impressione?

Che si sgomita tanto per le posizioni.

Anche a livello di staff avete fatto un’esperienza tutta nuova. Vi siete avvalsi del supporto di qualcuno?

Lo staff era composto da me, Fabio Baronti e Alessandro Pessot, ma con noi c’era Borut Božič che ha corso molti anni anche in Belgio e ha portato la sua esperienza in questo tipo di percorsi, ci ha aiutato nell’analisi della gara, spiegandoci soprattutto quali sono i punti caldi di corse di questo genere.

Come si vive dall’ammiraglia una corsa così?

Da una parte con tranquillità, perché il meteo venerdì è stato clemente: non ha piovuto e ci sono stati pochi tratti battuti dal vento. Dall’altra tensione. Bruttomesso ha forato proprio su un ventaglio e quindi c’è stata un po' di concitazione: quello è stato il momento più critico, forse. Poi però dai muri in poi è stato molto emozionante: se generalmente le “nostre” corse si accendono nel finale e l’adrenalina sale nei chilometri che portano all’arrivo, qui la gara si anima da metà corsa con l'imbocco dei primi muri.

Ho visto un video del Kemmelberg dove i vostri ragazzi erano davanti, tutti nelle prime posizioni, c'era Olivo, Buratti… poi cos’è successo, troppo forti Segaert e Vangelhuwe?

I ragazzi hanno messo in pratica ciò che ci siamo detti e sul Kemmelberg, punto cruciale della corsa, erano davanti, nelle prime posizioni del gruppo, poi a causa di una caduta un paio dei nostri hanno messo il piede a terra e così ci siamo ritrovati a inseguire. A fine Kemmelberg il gruppo era allungatissimo prima del Roderberg, che si affronta praticamente subito dopo, e i Lotto hanno fatto un'azione di squadra, di forza, e da lì sono usciti Vangheluwe e Segaert (che poi si giocheranno il successo: vincerà Vangheluwe della Soudal Quick Step Devo, NdA), mentre a noi è mancato veramente pochissimo per agganciarli e mettere dentro uno dei nostri in quella che poi si rivelerà la fuga decisiva.

Il livello poi era molto alto.

Con nove squadre Development alla partenza, direi proprio sì. È stata un'esperienza importante, una gara riferimento.

E si torna al discorso fatto prima: per diventare un professionista a tutti gli effetti devi passare da qui, banalmente si dice: è una scuola.

Il nostro obiettivo infatti è quello di dare la possibilità ai ragazzi di misurarsi in queste gare e di affacciarsi poi al World Tour con delle basi solide da cui partire. Come team sviluppo della Bahrain dobbiamo riuscire a presentare loro corridori pronti e per farlo devono misurarsi su terreni di diverso genere. Più corse a tappe possibili, più esperienze al Nord possibili e, passami il termine, dobbiamo essere in grado di fornirgli un “prodotto completo”.

Anche perché il tempo "della scuola" finisce proprio in questa categoria, poi diventa un mestiere.

E nel World Tour il tempo per imparare è poco. Se arrivi che ti mancano le basi ti trovi a inseguire, e le squadre non aspettano.

 

Alla Gent-Wevelgem si alzerà l’asticella, sia come livello, che come obiettivi per voi, dopo l'esperienza alla Youngster Coast Challenge.

Le squadre saranno quelle viste alla Youngster Coast Challenge quindi il livello è il medesimo: molto alto. Se l'altro giorno si arrivava in volata come prevedibile, la Gent è più dura e verrà fuori anche più selettiva dell’anno scorso, perché hanno messo la doppia scalata al Kemmelberg con meno chilometri di distanza l'uno dall'altro e a una ventina dal traguardo. Aspettando anche di capire il meteo, noi non nascondiamo che saremmo agguerriti, ma soprattutto che andiamo lì per fare qualcosa di buono.

Per chiudere: da friulano ti chiedo di due miei corregionali che seguo con particolare attenzione: Bryan Olivo e Nicolò Buratti. Stagioni e profili diversi: Buratti doveva passare, non è passato, ma ha in mano un contratto per il 2024. Olivo ha qualità importanti e lo si attende a un passo successivo dal punto di vista del rendimento. Che obiettivi hanno in stagione?

Buratti dovrà principalmente fare esperienze importanti e formative come queste in Belgio ad esempio, in vista del salto con la Bahrain nel 2024, ma soprattutto dovrà riconfermarsi, che è la cosa più difficile, perché hai addosso gli occhi di tutti e ci sono le normali pressioni. Ma dalle poche gare sin qui disputate ha dimostrato di esserci. Alla Youngster era davanti per giocarsela e lo sarà anche domenica alla Gent.

Olivo lo scorso anno ha avuto un problema al ginocchio che lo ha tenuto fermo per tre mesi. Io ora lo vedo molto cresciuto e maturato, e come hai fatto notare bene tu all’imbocco del Kemmelberg era davanti. Se vogliamo dirla così, queste gare lo motivano un sacco, un po' anche perché lo riportano ai tempi di quando correva nel ciclocross e sono un tipo di corse in cui può dire la sua. Lui deve soprattutto riuscire a sbloccarsi: è forte su pista, va bene a crono, ma ora deve trovare il suo giusto spazio anche per capire come vincere su strada.

 


La Promenade de Pogačar

Una giostra si affaccia sugli ultimi cento metri della Parigi-Nizza. Otto tappe, quasi millecento chilometri, alcuni dei migliori corridori del mondo, un paio di arrivi in salita e altrettante tappe molto mosse: il tutto per arrivare a un’attrazione per bambini. Non è l’unica giostra sulla Promenade des Anglais, ma sicuramente la più bella: ombreggiata da alcune palme e pini marittimi, piena di lucine e colori, sulla quale si può salire – sogno di un bambino dai lunghi capelli castani – col gelato in mano.

Due gemelle bionde, entrambe vestite con una minuscola giacchetta di jeans e le scarpine rosa, sono in sella a un cavallo bianco dalla sella celeste. La giostra si sviluppa su due piani: il primo a livello del terreno e un secondo, molto più piccolo e limitato, verso il tetto della giostra stessa, verniciato da scene frugali o nature morte. Si arriva al piano rialzato grazie a due scale di legno, che nella loro semplicità risaltano tra orpelli disposti ovunque. Non sono molti i bambini che si avventurano al piano rialzato: esso contiene molti meno animali e diverse sirene con la coda biforcuta, che spaventose si susseguono lungo tutto il perimetro della giostra. Solo un bambino siede da diversi minuti lassù e sembra divertirsi come un matto, da solo.

La Parigi-Nizza non è andata in modo diverso. Un solo corridore può abitare il piano rialzato di quella giostra che è il ciclismo: Tadej Pogačar ha di nuovo sbaragliato la concorrenza in una corsa a tappe di breve durata. L’ultimo insuccesso (per così dire, arrivò comunque sul podio finale) in questo tipo di corse risale al Giro dei Paesi Baschi nel 2021. Quest’anno ha preso parte a 15 giorni di corsa: sette vittorie, più due classifiche generali. Prima di Pogačar , l’ultimo corridore ad aver registrato nove vittorie prima di metà marzo fu Tom Boonen nel 2006.

Qualcuno lo chiama “il bimbo” per i lineamenti rotondi e il sorriso fanciullesco, ma il modo in cui ha distrutto la Parigi-Nizza non ha nulla di infantile o improvvisato. Disdetta la partecipazione alle Strade Bianche per cause logistiche, fa il diavolo a quattro già nelle prime due tappe, perlopiù piatte, dove riesce a prendere preziosi secondi di abbuono. Lavora ai margini perché sa che la Jumbo-Visma di Vingegaard è favorita nella crono-squadre: i calabroni vincono, ma senza dominare. Nel primo arrivo in salita della Corsa del Sole (è un soprannome meteorologico come La Primavera per la Milano-Sanremo: con essa torna la bella stagione) Pogačar scherza col resto del gruppo. È una salita da Pogačar , circa 7 chilometri al 7%, quelle che durano una ventina di minuti in cui lo sloveno sembra alieno.

È Vingegaard ad attaccare per primo. Se ne vanno in due, i soliti due. Il danese chiede il cambio, Pogačar non accetta, lo affianca per alcune decine di metri come a dire beh? Tutto qua? Poi si rimette a ruota, guarda la telecamera e sorride a bocca chiusa, quasi fosse a passeggio la domenica dopo pranzo. Vingegaard si spegne abbastanza presto e Pogačar batte Gaudu allo sprint.

Tre giorni dopo, sul Col de la Couillole, un momento significativo è ai –6. Vingegaard esce fortissimo da un tornante e rilancia l’andatura alzandosi sui pedali, ma appena si siede è Pogačar a fare la differenza. Nello stesso momento, in fondo a quel gruppetto, Aurélien Paret-Peintre cade: è una strana riproposizione, forse, dell’effetto farfalla nella teoria del caos. Il vento frontale consiglia a Pogačar di non insistere nell’azione, ma allo sprint di nuovo non ha rivali. È la messa in scena di un copione: glaciale nella programmazione, sovrabbondante e quasi eccessivo nell’esecuzione.

Riesce ad andare via davvero, invece, nell’ultima tappa, rapsodica altalena tra le colline attorno Nizza. Il Col d’Eze è divenuto, negli ultimi anni, l’ascesa finale tipica della Parigi-Nizza: a volte è stato addirittura sfruttato un altro versante per una cronoscalata. È una salita conosciutissima dai tanti professionisti che vivono in zona e ci si aspetta un attacco lì.

Chi sta mangiando ostriche nel privé all’arrivo posa la conchiglia per indicare il maxi-schermo, chi passeggia per la Promenade des Anglais anziché sedersi sulle famose panchine azzurre corre alle transenne per prepararsi al passaggio della corsa. Un uomo regge l’Equipe e il suo titolone a tutta pagina sul rugby (la Francia ha rifilato 53 punti all’Inghilterra a Twickenham) con una mano e con l’altra guarda la corsa con lo smartphone. Si sono svuotati The service course e il Café du cycliste, due ciclo-bar che vanno per la maggiore per la pausa a metà pedalata. Questa parte di Nizza, che sembra un po’ il lungomare di Rimini e un po’ il rinnovato e finto quartiere Isola a Milano, ecco anche questa Nizza trattiene il fiato per Tadej Pogačar sul Col d’Eze. Attacca.

Simon Yates lo vede partire, proprio al suo fianco, senza nemmeno che si alzi sui pedali. Non pensa nemmeno di accelerare per provare a stargli dietro. Con Gaudu, Vingegaard e Jorgenson prova a dare cambi, a inseguire con quanto ne ha, ma nemmeno quattro contro uno riescono ad avvicinarsi, a riprenderlo. Pogačar scollina per primo e la picchiata verso Nizza è perfetta: la giostra, la folla e la bandiera a scacchi attendono solo lui.

Un azzeccato paragone tra corse ciclistiche e circo fu portato avanti da Vasco Pratolini inviato al Giro d’Italia 1947. Il grande mattatore delle giostre, un Gino Bartali rinominato Buffalo Bill, non era in gran forma e le batoste che subiva da un Coppi lanciatore di coltelli avvolsero la corsa di un manto triste, decadente. È una sensazione simile a quella che traspare dalle parole di Romain Bardet dopo il dominio di Pogačar alla Parigi-Nizza: «Non continuerò a correre a lungo se ciò comporta esclusivamente dover prendere mazzate come questa». Eppure, ancora per diverso tempo su queste giostre si parlerà sloveno. È un circo, il ciclismo moderno: una esibizione attira tutto l’applauso del pubblico e gli altri attori sbirciano da fuori il tendone.

Foto: Aurelien Vialatte


Vittoria Bussi: quando sull'Etna si fa sera

Appena sull'Etna si fa sera, Vittoria Bussi, dopo una giornata di lavoro in bicicletta per preparare il record dell'ora, telefona a sua madre, poi a Rocco, il suo compagno, e la prima domanda è sempre quella: «Quanti problemi hai risolto oggi?». Se lo chiedono reciprocamente, da due settimane a questa parte, da quando lei è lassù, in altura. Bussi spiega che ogni giorno incontra un problema in ciascun ambito: l'allenamento, l'equipaggio, il meteo, i contatti da tenere, le preoccupazioni di casa, talvolta il fisico messo a dura prova. A questo si aggiungono gli imprevisti: la neve, la volpe sul vialetto d'ingresso dei locali in cui soggiorna, il vento, la corrente che salta e lo scantinato in cui si cerca di ripristinarla per continuare a rispondere alle mail, a programmare viaggi e a prenotare voli. Il tutto da sola, nel silenzio, non vedendo nessuno per ore ed ore: «Starò qui ventuno giorni, perché so che mi fa bene, che serve per il traguardo che voglio raggiungere, ma l'altura, almeno durante la prima settimana, mi causa un vero e proprio malessere fisico. Confesso che, quando torno a casa, passo il primo giorno a piangere, a liberarmi della corazza che devo portarmi addosso: di donna forte, sicura, come si chiede ad una atleta».

Qui mancano i rumori di Roma, quel caos che diventa parte di chi ci vive, un suono da ricercare ovunque, ma anche Torino, dove Bussi abita, pare difficile da immaginare. Vittoria, in realtà, ha dovuto abituarsi a Torino, che sembrava una "città silenziata" rispetto a Roma: «Ho scoperto che mi piace guardare l'arco alpino. Che passo minuti a osservarlo e, se la quotidianità non incombesse, resterei ore così. Quei monti sono un punto fermo». Un punto da cui, col passare del tempo, è sempre più difficile staccarsi, andare via perché, a trentacinque anni, si è già viaggiato molto, si sono già visti molti luoghi e si sente necessità di fermarsi da qualche parte, di un ambiente familiare.

«Me ne sono andata lontana già da ragazza, per il dottorato, in Inghilterra: era necessario, ma comunque difficile. E oggi, dopo molti anni, anche quando non sono in altura, devo ancora andare altrove per trovare un velodromo in cui allenarmi: in Svizzera, in Norvegia o chissà dove. Forse per questo sento così tanto bisogno di casa. Per questo, dal giorno in cui sono arrivata, conto i giorni che mancano per tornare». Qualche settimana fa, alla dogana con la Francia, l'hanno fermata delle motostaffette della polizia francese: le hanno fatto smontare tutto, mostrare la bicicletta e i materiali che aveva. Minuti e minuti: «Non credevano che fossi una ciclista perché sostenevano che i ciclisti hanno una squadra e non fanno tutto da soli. Non credevano neppure che fossi lì per allenarmi: "Perché non si allena in Italia?". Dal loro punto di vista, avevano pienamente ragione: probabilmente quello è stato uno dei giorni in cui ho avvertito maggiormente il senso di ingiustizia per queste lontananze che devo sempre impormi».

Una lunga traversata in traghetto, poi la macchina e si sale. Avrebbe voluto chiedere a sua madre di accompagnarla, non l'ha fatto perché ha pensato che quella solitudine non le avrebbe fatto bene, ha portato solo i suoi gatti, «l'unico legame con casa che c'è qui», e, al mattino e alla sera, passa tempo a spazzolarli: «Sai che, quando parti in solitaria, tutti ti chiedono se davvero sarai solo e perché hai scelto di fare un viaggio da solo? Perché è difficile, come essere indipendenti, come diventare grandi. La prima volta in cui mi è accaduto è stato quando è mancato mio padre: non c'era più nessuna coperta a proteggermi, dovevo essere adulta e imparare io stessa a proteggere gli altri. Anche mia madre. Probabilmente impari in quei momenti a mostrarti più forte di quella che sei, a lasciarti andare quando nessuno ti vede». Spiega Vittoria Bussi che la solitudine dell'altura è fra le più difficili, quasi straniante.

Qualche sera fa, è scesa dall'Etna per andare a prendere Edoardo Frezet, fotografo del progetto, che resterà con lei per diversi giorni, e ritrovare la città, le persone nei bar e nei ristoranti, le ha lasciato una sensazione particolare addosso, nonostante la sua romanità si nutra dello stare assieme agli altri. Si è quasi sentita in imbarazzo: «Devi imparare a stare con te stesso ed è un apprendimento difficile perché ti conosci e vedi anche parti di te che non ti piacciono. Quassù non ho molte convenzioni sociali da seguire, ma quando ritrovo le persone mi chiedo se sarò a posto, se andrò bene». Sorride e racconta di quando Edoardo stava iniziando a fotografarla sui rulli, in una giornata di brutto tempo: «È stato un flash: "Aspetta, io non mi sono depilata". Sembrava un problema, non lo era e voglio che le foto di questo record siano vere, restituiscano l'immagine di una donna nella quotidianità e dei giorni in cui non c'è tempo, dei giorni in cui facciamo tutto di corsa e a sera siamo stanche e spettinate. La realtà di una donna e di un'atleta è anche questa».

 

Le giornate di Bussi iniziano alle otto e mezza: riscaldamento, attivazione e verso le dieci si esce a pedalare. Non sopporta la neve e quando la trova ghiacciata, sul vialetto che percorre con la bici in spalla. Si sfoga, parlando da sola in romanesco e quasi si vergogna, quando qualcuno la sente: «Anche questo, forse, molti non lo direbbero. Lo dico perché sono casereccia, sono così, e mi piacciono le cose naturali. Sto detestando questa neve, la cancellerei se potessi, e gliene dico di tutti i colori, come con le cose che non sopporto». In camera ci sono sempre libri e fogli perché sull'Etna si scopre il proprio corpo, i propri muscoli, come reagiscono. Il primo ritiro non va mai bene, il secondo meglio, il terzo, di solito, è quasi perfetto. Complicato, però, spiega Bussi, essere una sportiva ha anche questo significato: «Non accettare ciò che altri ti dicono passivamente, voler scoprire perché le tue gambe fanno più male oggi di ieri, sapere perché hai dolore, sapere come variare l'allenamento in base all'altitudine. Essere ciclista significa esplorare quell'indipendenza a cui le circostanze, talvolta, ti obbligano e vederne il lato buono, quello che ti fa andare avanti e ti cambia. Se diventa questo, essere ciclista è un atto estremo di libertà».

Come crescono le persone, anche se già adulte, così fanno i progetti. Ora c'è un periodo preciso per tentare il record, l'autunno, e anche il velodromo in cui si proverà si sta definendo. La prima opzione è in Argentina, la seconda in Norvegia, in un velodromo di nuova costruzione che vorrebbe iniziare la sua storia con il record dell'ora di Bussi, la terza in Svizzera, a Grenchen, ma, per quest'ultima, il costo è eccessivo, quindi è necessario pensare ad altro.

Nel bar, in città, in cui Vittoria ed Edoardo si sono collegati per questa intervista, inizia ad arrivare gente, le voci si mescolano e Bussi, guardando l'ora, progetta le prossime cose da fare, i prossimi problemi da risolvere in vista di quel giorno. Sì, in realtà, il record dell'ora inizia molto prima di quell'ora.

Foto: Edoardo Frezet


La gioia che garantisce il talento

Non sappiamo di chi sia stata l'idea di questa foto. Forse di Annemiek van Vleuten, probabilmente di Puck Pieterse, magari, semplicemente, di qualcuno che, vedendole vicine, in Piazza del Campo, ha pensato che in un'immagine così potessero essere racchiuse molte cose. Semplici quasi quanto il gesto dello Shaka che fa la mano di Pieterse: un gesto tipico della cultura hawaiana, che è un saluto, una forma di gratitudine, un modo di vivere il momento e trasmettere felicità, anche un poco rock, se vogliamo. Il loro modo di correre in bicicletta, alla fine, è tutto questo e avere la stessa visione (intesa non solo come ciò che si vede, ma come quello che si pensa) in fatto di bici e in ogni altro campo, permette di riconoscersi e di parlare un linguaggio comune, oltre ogni altra differenza.

Vogliamo dire che Van Vleuten e Pieterse, in quella Piazza, sarebbero state vicine anche se nessuno le avesse fotografate, anche se non si fossero fermate a parlare. Pieterse avrebbe potuto dire, e forse lo ha detto, a van Vleuten: "Sai che, quando scatto, non penso a nulla? Sento qualcosa dentro di me e vado" e van Vleuten avrebbe potuto rispondere solo che anche a lei accade lo stesso. Allora Annemiek avrebbe potuto raccontare, e forse ha raccontato, a Puck che, per andare forte in bicicletta, lei ha sempre spinto, a tutta, senza paura e Puck avrebbe potuto rispondere che per lei è proprio così. Forse Puck Pieterse, allora, avrebbe chiesto se, con il passare del tempo, non cambiano queste sensazioni. Sì, perché van Vleuten ha quarant'anni, Pieterse solo ventuno. La Campionessa del Mondo avrebbe forse risposto che il ciclismo la affascina ancora come a vent'anni e nella sua mente è lo stesso, raffinato dalle esperienze: il passare degli anni cambia solo il tempo che serve per allenarsi e per ottenere risultati, la fatica che si fa, ma lo spirito del ciclismo è sempre quello. Avrebbero potuto dire e forse hanno detto molte altre cose, compreso il fatto di essere entrambe olandesi, di essere entrambe dotate di un talento importante e di come si affronta la quotidianità con questo talento fuori dal comune. Forse van Vleuten è più abituata a questo, Pieterse si abituerà.

Poi c'è la cosa più importante di cui avrebbero potuto discutere: di come si fa ciò che si fa e del perché si decide di farlo. Pieterse ha saputo che avrebbe potuto correre sulle strade sterrate della Toscana solo pochi giorni prima della gara: ha accettato perché era un'opportunità da non lasciarsi scappare. Sarebbe stata contenta di arrivare nelle prime trenta, è arrivata sesta e ha corso con padronanza, con attenzione, incarnando l'istinto che la contraddistingue. Anche van Vleuten ha sempre posto particolare attenzione all'opportunità, al piacere di essere in corsa, anche quando non ha vinto: è tornata a lavorare, a potenziare, perché vuole vincere come d'abitudine, ma sabato, nel dopo gara, ha continuato a focalizzarsi sul piacere di aver corso e, ancor di più, sul piacere del gesto atletico di altri, quello di Puck Pieterse ad esempio.

In quella foto, in quel gesto dello Shaka, è racchiuso il racconto di come arrivano, il più delle volte, le cose belle, le più grandi vittorie, di come si fa qualcosa di grande. Certo attraverso l'impegno, la dedizione, la fatica, il sacrificio ma pure attraverso il piacere, la gioia, che è, poi, la molla affinché ci siano tutti gli altri comportamenti di cui abbiamo parlato. Per Pieterse era una prova su strada importante, perché era una gara importante e perché il talento si manifesta nel mettersi alla prova, si scopre, si disvela, trova nuove forme. Più di tutto era importante perché era una possibilità di divertirsi, di improvvisare sul tema, e di quel divertimento porta traccia ogni muscolo. Lei è legata al fango, alla terra del ciclocross, al pensiero di una medaglia olimpica in Mountain Bike: non sa se e quando ci sarà una continuazione su strada.

Nonostante spesso si dimentichi, il punto è proprio che non sempre c'è un motivo, un disegno nel proprio procedere, e il bello, tante volte, si fa solo perché piace. Per fortuna. Probabilmente è così che si vive un talento come quello di Pieterse e van Vleuten nella vita di tutti i giorni. Certamente è così che in quella Piazza sarebbero state vicine, anche lontane.


Tra le storie della SD-Worx: intervista a Elena Cecchini

«Ho abbracciato Demi, poi ho cercato Lotte tra la folla dell'arrivo. "Lotte, sei felice?" le ho chiesto e lei mi ha risposto sinceramente: "Sì, Elena, sono felice". Credo fosse importate quella domanda, di certo importante è stata la risposta». Elena Cecchini parte da Piazza del Campo, a Siena, alla Strade Bianche per raccontare la sua squadra, SD-Worx. Ancora meglio, parte da quello sprint a due, tra Vollering e Kopecky, vinto proprio da Vollering.

Ci spiega di Lotte Kopecky, della sua introversione e di tutte le volte che, l'anno scorso, la cercava con gli occhi al traguardo, dopo una volata: «Facevo fatica a vederla felice, soddisfatta, a meno che non vincesse e, dentro di me, pensavo che fosse il mio lavoro il problema, che non fosse abbastanza. Nel tempo, abbiamo parlato e ho capito che Lotte aveva esattamente il mio stesso timore: non riusciva ad essere pienamente serena perché temeva di aver deluso la squadra». Non è un inverno facile per la belga: la notizia dell'arrivo di Lorena Wiebes, indubbiamente, l'ha fatta pensare, le ha messo dubbi, quasi come si sentisse sostituita, «poi ha compreso di non essere una velocista pura e che Lorena poteva solo aggiungere qualcosa, non togliere. Ma è da comprendere, chiunque avrebbe reagito così». Una timidezza con cui non è facile convivere per Kopecky, soprattutto da quando la sua popolarità è esplosa dopo la vittoria del Fiandre. Quella sera, non è potuta rientrare a casa perché la sua abitazione era letteralmente assediata da fotografi e giornalisti e con questa fama deve fare i conti ogni giorno e la squadra allestisce conferenze stampa apposta per lei, per raccogliere lì tutte le domande.

«Mi spiace che l'impressione generale sia stata che io e Demi non fossimo soddisfatte di com'era andata la gara. Eravamo solo spaesate perché non ci eravamo parlate prima» ha confessato Kopecky a Cecchini, in pullman, in una riunione post gara. L'accordo era che Vollering avrebbe attaccato prima e Kopecky successivamente, ma che le due avrebbero collaborato fino alla fine. Danny Stam, uno fra i direttori sportivi di SD Worx, la sera prima era tornato a parlare con Vollering: «Ma se io sono davanti- aveva detto lei- non ha senso che Lotte attacchi, non ti pare?». La risposta era stata pronta: «Ha senso, perché sole non resterete comunque e, se non collaborate entrambe, la gara la vincono le altre». Ed, in effetti, chiosa Elena Cecchini, Faulkner è andata davvero vicino alla vittoria. Sta di fatto che, quell'impressione sbagliata avuta dalle persone, stava rovinando l'atmosfera. Cecchini è intervenuta per questo: «Non state male perché non vi siete parlate. Avete fatto qualcosa di straordinario, andate oltre».

Racconta Cecchini che l'anno in cui Demi Vollering è arrivata in SD-Worx, condividevano la camera e, da subito, lei l'aveva soprannominata "la Principessa": «Sì, perché era molto giovane e l'aiutavamo molto, anche nelle cose più semplici. Anche nel portare i vestiti in lavanderia. Ricordo che detestava quel soprannome. Il nostro rapporto è cresciuto anche così e con questo è cresciuta anche Demi». Una ragazza semplice, genuina, molto emotiva che piange per le vittorie e nel tempo libero fa yoga, meditazione oppure va nella natura, sta in montagna e fa lunghe passeggiate. «Il primo anno, con Anna van der Breggen come capitana, per lei è stato il più semplice, dopo ha dovuto prendere la squadra sulle spalle e assumersi molte più responsabilità. Per molti è diventata "la rivale" di van Vleuten e, ogni tanto, me lo dice: "C'è chi sta aspettando che Annemiek lasci, perché non avere più una rivale come lei cambierà molto. Io voglio che resti, voglio che sia forte e batterla mentre è forte». Demi può farlo, ne sono certa". Elena Cecchini fa una pausa, noi stiamo per formulare un'altra domanda, ma lei riparte, per una precisazione.
«Capisci perché non c'è stata decisione dall'ammiraglia? Se un direttore sportivo avesse indicato un nome piuttosto che un altro, il timore era quello di rompere un equilibrio di fronte a due campionesse di questo tipo perché l'una o l'altra avrebbe potuto avvertire come ingiusta la decisione per il lavoro fatto. Ti assicuro che basta davvero poco, quando ci sono situazioni di forte pressione, per creare una frattura». Cecchini racconta di quanto creda nel valore del dialogo e di quanto parli sempre molto con le compagne di squadra: «Quello che facciamo, e quindi il risultato che otteniamo, è strettamente connesso al modo in cui ci sentiamo, a quello che pensiamo di noi stessi o alla considerazione che gli altri hanno di noi».
In questo, la presenza di Anna van der Breggen in ammiraglia è un punto fondamentale perché anche la campionessa olandese sta continuando a crescere in ammiraglia. Spiega Elena Cecchini che l'anno scorso, quando si trattava di fare rimproveri o osservazioni, van der Breggen era più restia, si sentiva ancora molto ciclista, molto compagna di squadra, quest'anno ha preso sicurezza in ogni cosa, anche nella guida dell'ammiraglia: «Difficilmente sarà Anna a venire a dirti qualcosa, ma perché fa parte del suo carattere: parla poco e al momento giusto. Se, però, chiedi un consiglio, puoi essere certo che il suo punto di vista non mancherà e sarà dritto al punto, schietto». Come prima della Strade Bianche, quando van der Breggen ha parlato alla squadra.

Ronde van Vlaanderen 2022 Women - Tour des Flandres - 19th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 158,6 km - 03/04/2022 - Elena Cecchini (ITA - Team SD Worx) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

«Arrivate agli ultimi quindici chilometri, vi sentirete sfinite, penserete di non farcela più, in quel momento, dovete pensare che anche le vostre rivali stanno così. Resistete, perché è l'unica cosa da fare e perché anche le altre stanno resistendo». Poche parole e un'attenzione costante: lasciare sempre fuori la campionessa che è stata e rapportarsi con un ruolo nuovo. «Ho sempre avuto la sensazione che dietro la sua tranquillità, ci fosse la visione chiara che il ciclismo fosse una parte importante della sua vita, non il tutto. Oggi il suo ciclismo ha ancora un'altra forma, una forma che sta conoscendo giorno dopo giorno».
Si arriva così a Lorena Wiebes, l'altra punta di diamante del team: Cecchini la definisce semplicemente "uno spasso". Wiebes praticava ginnastica artistica prima di arrivare al ciclismo e la sua conformazione fisica lo racconta. Anche qui la parola d'ordine è "genuinità": «Fuori dalle gare, la trovi a guardare serie televisive, film, ha sempre un modo molto naturale di porsi, ma, in quanto allo sprint, è molto competitiva e può insegnare tutto». In SD-Worx l'apporto di Wiebes ha riguardato soprattutto il lead out, il lancio delle volate, qualcosa in cui Cecchini ammette che la squadra doveva perfezionarsi.
Lorena Wiebes parte dalla linea d'arrivo e torna indietro, fino all'ultimo chilometro, per descrivere il lead out: «Se ai 150 metri devo essere a questa velocità, in un determinato tratto, vorrà dire che ai 400 metri la velocità e la posizione dovranno essere queste». E così via: con sicurezza e fiducia nella ruota che la precede, ma anche con l'idea di mettersi alla prova, di "cavarsela" se la squadra non può fornire interamente il proprio contributo.
In tutto questo, c'è Elena Cecchini, gregaria, a disposizione. «Mi è successo di chiedermi se riuscissi effettivamente a soddisfare tutte le aspettative della squadra. Ci sono momenti in cui puoi mettere tutta te stessa, ma le gambe non girano come vorresti, cosa puoi fare? Dirti che più di così non potevi proprio dare, che meglio di così non potevi prepararti. Bisogna dirselo spesso e, magari, invece di chiedersi se si è pronti, dirsi: "Sì, con quello che ho fatto, sono pronta per forza. Vada come vada”».


Per Faulkner è ancora tutto possibile

C'è un momento, sulle pendenze arcigne di via Santa Caterina, alla "Strade Bianche", dopo oltre trenta chilometri di fuga solitaria, in cui per Kristen Faulkner è ancora tutto possibile. Lo sguardo è fisso in avanti, per immaginare Piazza del Campo, e per terra, per restare focalizzata su ogni metro, senza lasciarsi distrarre troppo da quel pensiero, non si volta quasi mai, anche se sente che, dietro di lei, la situazione è esplosa. Prima lo scatto di Demi Vollering, poi quello di Lotte Kopecky: il duo della SD-Worx va via troppo veloce, si avvicina sempre più e, se rientra sulla testa della corsa, su Faulkner, è evidente a tutti che non ci sarà molto da fare per l'americana.

L'ultimo momento in cui tutto può accadere è proprio quello in cui Kopecky e Vollering la braccano da vicino e Faulkner, pur davanti, percepisce che ne hanno di più, che possono superarla in qualunque momento e far scoppiare la bolla di un desiderio che è sospesa nell'aria da minuti e minuti. Sente le loro ruote che macinano strada e mangiano metri, secondi. Non ci si può voltare, il Campo è sempre più vicino. Le serve una forza di volontà incredibile per non girare la testa e non pensare di dare respiro alla fatica, anche quando è certa che, ormai, non ci sia più nulla da fare per la vittoria.

Succederà l'inevitabile, mentre l'acido lattico le morde i muscoli. Eppure Faulkner, terza al traguardo, continuerà con lo stesso sguardo, come se quel desiderio fosse intatto. Ed, in un certo senso, è intatto. Sì, i desideri spazzati via sono desideri da riprendere per mano per accompagnarli "alla prossima volta". Parlare di Faulkner, oggi, significa parlare di questa cosa qui: delle volte in cui abbiamo la forza di continuare a credere alla nostra pedalata, l'unica possibile, mentre gli altri ci passano in tromba e se ne vanno.

Foto: Sprint Cycling Agency


Sportful Social Ride

Siamo stati ospiti di Sportful nelle giornate che hanno preceduto la Strade Bianche, abbiamo avuto l’onore di pedalare nella Social Ride, al venerdì mattina, di fianco a campioni come Paolo Bettini, che ha disegnato i 43 chilometri circa del percorso, e Cristian Salvato.

Chi scrive si è staccato presto, dicevano: “sarà un giretto tranquillo, andiamo piano”, non è andata proprio così, nel senso che chi scrive, ma evidentemente non pedala abbastanza, dopo pochi chilometri si è staccato a causa del ritmo insostenibile e ben poco si è gustato dello splendido panorama intorno.

Non fa alcuna differenza ai fini del racconto se è stato l’unico a perdere contatto: lo hanno aspettato, va dato atto, nel punto ristoro organizzato da i ragazzi di VeloEtruria di Pomarance, dove c’è stato un attimo di relax a mangiare panini con la salsiccia o con la nutella assaggiando birra e vino per poi ripartire nel su e giù tra sterrati e asfalto che ci ha ricondotto nello splendido scenario di Stigliano, provincia di Siena, attraversando anche uno dei settori che l’indomani avrebbero percorso i corridori nella Strade Bianche.

Chi scrive ha provato a un certo punto pure a prendere un po’ di vantaggio accelerando leggermente in salita, venendo però scherzosamente richiamato all’ordine da Salvato: “hei ragazzo, però ci vuole un po’ di coerenza quando si pedala, se prima ti sei staccato, ora mica puoi andare in fuga”.

Abbiamo assistito in diretta anche alla caduta - per fortuna senza conseguenze e ormai diventata virale - di Paolo Bettini, leggenda in bici e mega disponibile quando a tavola ci ha riempito di aneddoti sul ciclismo dei suoi tempi, tra gare in Belgio, senatori, volate vinte davanti a Cipollini e strade sbagliate alla Tirreno Adriatico. A parte l'estemporanea fatica della pedalata - ma voi direte: "è il ciclismo, bellezza!" - giornate a loro modo indimenticabili.


Mettersi in gioco: intervista ad Arianna Fidanza

All'orario prefissato, quando le telefoniamo, Arianna Fidanza è in aeroporto dopo la caduta nei chilometri conclusivi di Le Samyn des Dames: sta per tornare a casa per accertamenti riguardo una possibile frattura del setto nasale.
«Te la senti? Possiamo rimandare, se vuoi».
«No, no, chiacchiero volentieri».
Partiamo. Vorremmo parlare subito di domenica, della sua azione alla Omloop van het Hageland, ma il pensiero va per forza di cose alle cadute: «Per fortuna, non so perché, ma quando sono in corsa non ci penso, altrimenti credo che le cadute, soprattutto negli ultimi anni, mi avrebbero bloccata a livello psicologico nelle volate. Quando pensi, perdi l'attimo. In ogni caso, a ventotto anni, nonostante si sia ancora giovani, non si sprinta come a diciotto: me ne sto rendendo conto». La giovinezza di Arianna Fidanza sta tutta in quel "mettersi in gioco" che ripete diverse volte durante il nostro dialogo.
«Vuol dire essere disposti a fare scelte "scomode": la fuga di domenica, ad esempio. Vuol dire non sedersi nelle situazioni: il cambio di squadra. Forse sarebbe stato più facile rinnovare con BikeExchange, perché abbandonavo qualcosa che conoscevo per qualcosa di completamente nuovo. Vuol dire essere disposti a ricominciare “senza se e senza ma". Vuol dire, soprattutto, cercare di vedere chiaramente quel che si vuole e non farsi spaventare dalla fatica aggiuntiva, in termini fisici e mentali, che serve per raggiungerlo. Non rinunciare». Già, la fuga di domenica. Fidanza non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, tuttavia un cambio di programma all'ultimo e gambe che stavano particolarmente bene, l'hanno portata a seguire l'azione di Allison Jackson. Una fuga a due, difficile, per cui ripartirebbe subito: a costo di spingere a tutta, come ha fatto e come bisogna fare in queste occasioni.
Ad un certo punto, lei e Jackson si parlano, Fidanza le mette una mano sulla spalla: «Vedevo che sugli strappi faticava. Sapevo che l'azione l'aveva promossa lei e ho voluto parlarle: "Stai tranquilla, non cerco di staccarti. Andiamo assieme all'arrivo, poi vediamo cosa succede”. Lei ha capito, mi ha ringraziato. Da qui la mano sulla sua spalla». La fuga è stata ripresa, «forse avrei potuto aspettare la volata, ma Wiebes è più veloce di me. Ho voluto prendere in mano la situazione, non subirla. A prescindere dal risultato». Ha aiutato anche l'ambiente, il Belgio: una nazione che ha conosciuto bene quando correva in Lotto Soudal e per cui prova un'istintiva affinità. Una terra in cui sogna di poter vincere una gara importante.
In tutto quello che è cambiato, qualcosa è rimasto e non era scontato. «Ho sempre avuto una forte sensibilità e, nonostante tutto, le difficoltà non l'hanno scalfita. Anche in corsa: provano a dirmi di "spendere di meno", ma non ce la faccio. Sento di voler fare e, per come sono fatta, devo fare, altrimenti non sono a posto con me stessa». Quella stessa sensibilità che, dalla nascita della sorella Martina, l'ha portata a dirsi che avrebbe voluto proteggerla "dalla sofferenza che si prova". Oggi, dice che in molti casi è stata proprio Martina a proteggere lei, ma l'intenzione è sempre la stessa: «Quando siamo in corsa, mi chiedo sempre: "Dov'è mia sorella?". Ora corriamo in un'unica squadra, ma accadeva anche quando eravamo in squadre diverse. Se hai una sorella in gruppo, la cerchi. Hai preoccupazioni doppie, per ogni dettaglio, ma anche doppio sostegno. Negli ultimi anni, Martina ha vinto più di me, qualcuno mi ha chiesto se ci fosse gelosia, invidia. No, anzi, dirò di più. Lei ha uno spunto veloce migliore del mio: vorrei mettermi a sua disposizione per aiutarla a vincere».
Un legame forte, come quello con la famiglia. E, proprio con la famiglia, ha a che vedere, quella che definisce, la cosa più difficile del suo lavoro: partire quando a casa qualcosa non va. In quei momenti, vorrebbe scordarsi di essere una ciclista. Cosa di cui, racconta, non si scorda praticamente mai, perché non è un lavoro di cui ci si possa dimenticare, neppure per poco, nemmeno in vacanza, forse.
«Ho bisogno di staccare, di focalizzarmi su altro, e, per farlo, mi basta davvero poco, non cerco molto. Però penso sempre al fatto che il mio mestiere è il ciclismo. Questa estate, avrò fatto dieci giorni di vacanza, forse, eppure pensavo spesso: "Avrò perso la forma? Come dovrò fare per recuperarla?". La mente mi riporta sempre lì».
Poche settimane fa, la vittoria a Costa De Almeria, parte di un percorso che le ha permesso di tornare ad alzare le braccia al cielo, perché proprio quest'anno, in Ceratizit, è avvenuto uno dei più grandi passi avanti che Arianna Fidanza si riconosce: «Mi sento cresciuta a livello atletico, soprattutto perché sono tornata a sentirmi nel vivo della corsa. Quello che volevo quando ho deciso di rimettermi in gioco».
L'aereo, il volo ed il ritorno a casa. Ma Fidanza, fra tutte le altre corse, aspetta soprattutto il Belgio perché in Belgio vuole fare realtà del suo sogno più grande.


Diario dal Teide: il ritorno a casa

Appena rientrata a casa, dopo il ritiro di quindici giorni al Teide, accendendo le luci, Elisa Longo Borghini rivolge l'attenzione al calendario: siamo agli inizi di febbraio, ma la pagina esposta è ancora quella di dicembre. Sì, tra una cosa e l'altra, l'ultima volta che è stata a casa era proprio il 27 dicembre. Accanto alla porta, c'è un pupazzo raffigurante un alpaca, ancora addobbato con un cappello di Natale: «L'ho subito tolto e ho girato le pagine del calendario, quasi per aggiornare la casa al periodo, a me. Per una ciclista è la normalità, eppure fa strano appena rientri. Questa casa e questo paese, Ornavasso, restano la mia boccata d'ossigeno, un posto a cui appartengo. Quando sono in viaggio e mi trovo in luoghi molto belli, spesso, provo a chiedermi se mi piacerebbe cambiare città, appartenere ad un altro paese, magari, in astratto, migliore. Sarà che qui sono nata, ma ogni volta la risposta è negativa». E anche quando, scherzando, le dicono che sembra abitare fuori dal mondo, lei, ridendo, risponde: «È la mia città».

A casa non è restata molto, in realtà, perché, proprio lunedì, è ripartita per gli Emirati Arabi, per la prima gara della stagione che sarà anche la prima edizione dell'UAE Tour femminile. Le valigie, mentre parliamo, sono già pronte, le ha preparate appena a casa. Da queste prime gare non si aspetta molto, vuole solo capire come sta e come stanno le avversarie. Dice che è lo sguardo il modo migliore per capirlo: «Al netto della pedalata, quando non stai bene, sei anche più impacciata nel muoverti in gruppo, nel fare cose semplici. Perdi la lucidità che rende tutto normale. Puoi cercare di nasconderti e nasconderlo, ma le avversarie sanno cosa guardare». A Longo Borghini, poi, muoversi in gruppo piace e l'anno scorso confessa di essersi divertita a tirare le volate a Elisa Balsamo. Sì, usa proprio questa parola: la diverte trovare il varco giusto, limare, guadagnare posizioni, intuire le mosse dei treni rivali: «Non ho l'abilità di una velocista, ma mi caricava questo ruolo. Solo la prima volta ho avuto paura di sbagliare tutto, poi Balsamo ha vinto e io ho pensato che avrei voluto un'altra volta per riprovarci». Nel 2023 ci sarà Ilaria Sanguineti a ricoprire questo incarico, ma è stata un'esperienza. Restano le sensazioni.
Come quelle particolari che ha provato quando ha visto Anna van der Breggen all'ultima gara e quando la vede in ammiraglia. Dice che il suo percorso e quello di van der Breggen sono stati abbastanza paralleli e sapere che lei è ancora in gruppo e l'olandese non più l'ha fatta pensare. Estremamente fredda in corsa, quanto genuina fuori: «È una di quelle persone da guardare quando si ha la tendenza a sollevarsi troppo da terra, perché non è mai cambiata, anche se per tutti è un simbolo del ciclismo. La sera prima della tappa di San Marco la Catola, al Giro d'Italia 2020, ci siamo scritte: "Domani bisogna fare corsa dura". Io ho vinto la tappa e lei quel Giro». Sorride, anzi, ride di gusto parlando di numeri: «Ho un legame particolare con il terzo posto. Se non vinco e sono in forma, sono puntualmente terza. Va bene, non mi lamento, ma confesso che, qualche volta, accorgendomi di essere terza, ho pensato che sarebbe bello variare. Ogni tanto, almeno. Non so, un secondo posto se proprio non riesco a vincere».

In quel gruppo che si trova spesso a scrutare attentamente, c'è anche Gaia Realini, sua compagna di squadra. Se dovesse scommettere su qualcuno, scommetterebbe su di lei e «non lo dico perché è in Trek, è una forte scalatrice e non ha molte pressioni. Non fosse stata in squadra con me, l'avrei segnata fra le atlete da attenzionare». Qualche attimo di silenzio e, poi, una parentesi colloquiale, un inciso, senza apparenti motivi, quasi una necessità: «Sai che della bicicletta mi piace proprio tutto. Quando vado veloce, poi, provo una sensazione incredibile. Sarà l'adrenalina, però non ho mai provato qualcosa di simile. Penso che, fuori da questo mondo, non ci sia nemmeno qualcosa di simile».
In un armadio, a casa dei genitori, ha ancora custodita la prima maglia azzurra, quella di un ritiro, quando aveva quindici anni: «Era solo una maglietta, ma io non la vedevo come una maglietta. Fra tutte le ragazze che avevano provato ad essere lì, io c'ero. Rappresentavo l'Italia. Quell'Italia nei cui confronti sono molto critica, perché non è come la vorrei, come potrebbe essere. Però sono profondamente italiana, anche nelle piccole cose e lo rivendico. Racconto l'Italia quando parlo con colleghe di altri paesi». Già, a quell'azzurro, però, è legata anche una delusione, probabilmente la più grossa: la mancata convocazione all'Olimpiade del 2012. Quella che «non dimenticherò mai».
«Sia chiaro: le scelte tecniche avevano tutta la loro coerenza, io, però, quel posto lo meritavo. Non era un capriccio. I risultati parlavano per me. L'ho saputo al Giro d'Italia, ho faticato a guardare quei Giochi Olimpici. Su quel divano, mi dicevo: “Nel 2016 non darò a nessuno la possibilità di non convocarmi. Farò talmente bene che mi dovranno portare per forza"». Ci sono stati mesi in cui non ha pensato a quei quattro anni che mancavano alla prossima Olimpiade e questo l'ha aiutata ad aspettare. Fino al giorno in cui la convocazione è arrivata: «Cos'ho provato? Sì, ero felice per quell'Olimpiade, ma il 2012 non riesco a dimenticarlo. Quando ti tolgono qualcosa che senti di meritare, non puoi sostituirlo con altro come nulla fosse. Non te lo restituisce nessuno».
In quei giorni a casa ha pedalato, è andata in posti a cui è legata, ma, purtroppo, ha provato per l'ennesima volta una sensazione brutta, che le nostre strade restituiscono spesso: «Parlo degli autoveicoli che sfiorano la bicicletta e sembra ti tocchino. Parlo di quando ti senti in pericolo mentre fai il tuo lavoro. Sono bastati due giorni perché capitasse di nuovo». Longo Borghini si chiede quando qualcosa cambierà e, purtroppo, si trova a constatare che servirà molto tempo, forse troppo tempo. Spiega che l'unico modo è quello di parlare ai bambini perché in futuro le strade saranno loro e spetterà a loro il compito di renderle diverse.
«Alessandro De Marchi ha dichiarato che chi guida non si rende spesso conto di avere fra le mani un mezzo che è simile a una pistola carica. Di più: non si rende conto che la strada è un luogo di convivenza, di condivisione. Questo è un qualcosa su cui dobbiamo riflettere tutti, perché anche noi ciclisti dobbiamo incrementare l'attenzione, non voglio nascondermi. Il fatto è che un pedone o un ciclista restano comunque parte debole, fragile. Parte da tutelare». Parlarne, sensibilizzare, può aiutare, poi c'è la responsabilità individuale.
Anche nel ciclismo qualcosa andrebbe cambiato, ci dice Longo Borghini. Pensa a un fatto in particolare, a quella dizione: "ciclismo femminile": «Siamo cicliste, siamo sportive. Siamo persone che lavorano con quella bicicletta, che fanno sacrifici su quella bicicletta. Perché continuiamo a parlare di "ciclismo femminile" come fosse qualcosa a parte? Le parole fanno parte della realtà e i nomi che diamo al circostante spesso rispecchiano i nostri atteggiamenti. Adesso le cose sono cambiate, ma, quando è nata la squadra femminile di Trek Segafredo, ricordo come capitava che ci guardassero i professionisti. Sembravamo quasi un mondo a parte, qualcosa con cui capire come relazionarsi. Credo il lessico abbia avuto un ruolo in questo. Nello sci, ci sono solo sciatori e sciatrici. Perché non impariamo?».
Imparare, ovvero chiudere il diario, e ripartire. Ci sarà modo di tornare ad ascoltare e a scrivere.
Buon viaggio, Elisa!


Quando si alza il vento

Era una linea, dritta, come una squadra di sentinelle. Si erano messi uno di fianco all'altro lungo il pendio, una di quelle scene che capita di vedere sui crinali nei tapponi di montagna dei grandi giri. Invece era Hoogerheide, nel Brabante Settentrionale, e se uno fosse riuscito a prolungare lo sguardo oltre agli alberi, agli edifici, ai piloni dell'elettricità, avrebbe visto il mare. Adrie van der Poel, che ha collocato questo paesino sulla mappa ciclistica mondiale, prima nascendovi e poi tramutando la corsa locale di ciclocross nell'appuntamento internazionale del Grote Prijs Adrie van der Poel, lo descrive proprio così il Brabante: «da una parte ci sono i boschi, i villaggi, dall'altra basta andare sempre dritti e si arriva al mare».
Tutta quella gente sul crinale non aveva però alcun interesse a vedere il mare. Al massimo potevano respirarne una zaffata quando si alza il vento, o ringraziarne l'influsso che ha regalato un'anomala giornata di sole, ma lo sguardo era puntato molto più vicino, su un oceano di teste e cartelli, berretti colorati, pon pon iridati, e su una riga che li tagliava, a zig zag, ripetutamente. A vederla arrivare, quella marea, pareva sì un fiume, ma in piena. Venivano giù lungo Huijbergsweg, la via che taglia questa porzione di Hoogerheide, dal fondo, dove ogni campo era stato convertito in parcheggio, fino alla rotonda che immetteva al circuito. E alla rotonda si congiungevano con un'altra onda di piena, più piccola, che drenava la zona più a sud lungo Ossendrechtsweg, per unire le forze e invadere la pianura, il bosco, il crinale. Sui botteghini i cartelli erano già chiari a fine mattina: verkoopt, tutto esaurito. Quarantamila persone, forse cinquantamila se ci si aggiungono tutte le altre presenze non passate dalla cassa, sono una cifra abnorme, gigante, persino eccessiva per questo parco, per questo villaggio che fa suppergiù seimila abitanti. Ma troppo forte era il richiamo di un mondiale che tornava "a casa" dopo l'edizione a porte chiuse del 2021, di una sfida tra i due fenomeni locali – e globali - che aveva tutto il sapore dello scontro finale. Ce n'era a sufficienza per farsi marea, e per sfidare il naufragio, con o senza mondiale.
Già perché negli esondanti vialetti del parco di Hoogerheide, nei tremanti tendoni, nei sovraffollati prati che le linee sempre più numerose del crinale potevano studiare con minuzia, la corsa è diventata un contorno. C'è da scommetterci che buona parte dei presenti non abbiano visto un minuto delle gare, non abbiano quasi appreso i risultati se non fosse per il boato che ha accompagnato l'ennesimo sprint di Van der Poel, che sarebbe stato boato uguale se per una volta l'avesse spuntata Van Aert, perché quando si ha il grido in gola quello si fa, si grida. Quella linea dritta, quelle linee dritte, hanno preso ora dopo ora le sembianze della curva di uno stadio, un calorosissimo gruppo ultras che era venuto fino a Hoogerheide per urlare il proprio amore per il ciclismo, solo per il ciclismo (o forse anche per la birra). E proprio come dicono i più convinti tra gli ultras, "della partita non ce ne importa niente". Lo dicono con altri termini, ma il concetto è quello. Non importa la gara, non importa il vincitore, né i piazzati, né gli ultimi arrivati. Importa solo l'abbraccio: mettersi in linea e gridare amore con i propri corpi, diventare marea. E alla fine è evidente chi ha vinto a Hoogerheide 2023: hanno vinto tutti.