Attendere prego: sul Tourmalet ci sono loro

Diciamolo pure, la Vuelta sonnecchiava, annoiava, suscitava malumori.
Ci sono volute 13 stazioni di questa via crucis per assistere a una tappa degna di un grande Giro.
Com’è andata lo sappiamo.
Tappa breve, ma molto dura. Durissima.
In circa 135 chilometri quattromila metri di dislivello. Meno, se togliamo le discese.
Partenza in salita come antipasto e amaro Tourmalet per concludere. Si, quello.
Vetta a 2115 metri, dove la NASA nel ’63 vi installò un telescopio.
Non ha il fascino dello Stelvio né l’altitudine dell’Izoard, ma è pur sempre la montagna più pedalata, emblematica e attesa dai francesi e - quest’anno per la prima volta - dagli spagnoli.
Inconturnable, inevitabile, dicono quelli del Tour. Più numerosi e folli dei cugini iberici ai bordi dei suoi tornanti.
In principio era Remco.
Da lui si aspettava una gestione ottimale delle energie, una dimostrazione di forza congrua alla sua tracotanza giovanile. Ci si aspettava qualcosa per poter rosicchiare secondi e provare ad affondare o quanto meno ad aprire una falla, nella corazzata Jumbo.
Ci si aspettava che la mina vagante belga esplodesse.
Troppe aspettative.
All’arrivo avrà un distacco di 27 minuti pieni.
Qualcuno un giorno si renderà conto che per essere un campione servono muscoli, fiato, programmazione e testa. Queste ultime due in evidente dipendenza reciproca.
Remco Evenepoel è giovane. Per fortuna. Purtroppo.
Quindi il suo no comment ai giornalisti nel dopo gara ci sta.
Per lui si è mosso anche il capobranco e patron della squadra Patrick Lefevere per capire cosa è successo al cucciolo di lupo. Ma questa non è certo una news.
Dall’altra parte quelli in giallo. Los tre caballeros, i tre moschettieri, i tre tenori di questa tournée spagnola.
Chiamateli come vi pare, ma sicuramente i più forti. Ai limiti dell’antipatia.
Perché sebbene sembrino chirurghi senz’anima, avvoltoi di Wall Street, sono pur sempre una Squadra. E il maiuscolo è dovuto.
Vingegaard ha vinto. Con fatica certo, ma ha vinto. Il re pescatore - oggi in apnea - ha dedicato il gradino più alto del podio alla figlia che in quel giorno compiva 3 anni. Era un pò emozionato il danese. Della serie: “C’è vita su questo pianeta.”
Kuss è arrivato secondo. Sorridendo. La rivoluzione del gregariato. Come non tifare per lui?
Come non sperare che venga clonato e distribuito a ogni squadra World Tour come regalo natalizio?
O magari innestato al nostro Damiano nazionale. Caruso ovviamente, non quello dei Måneskin.
C’è da chiedersi se gli alti vertici, seduti nelle loro auto dai finestrini chiusi, permetteranno al ventottenne americano di coronare il sogno di una vita sportiva.
Già, perché sembra che in Jumbo ci voglia un lasciapassare unanime e un ok via radio per poter vincere. Sembra non basti un incredibile stato di forma e un curriculum recente di tutto rispetto.

Roglic dal canto suo fa il terzo comodo.
Brillante il suo podio, meno la sua imperturbabile espressione. Lui, il campione del nostro Giro, è fatto così: poche chiacchiere e pedalare.
Forse è per questo che si trova a proprio agio nell’alveare dei calabroni.
Gli altri, in una giornata dal caldo anomalo per la stagione, hanno fatto del loro meglio.
Come da copione. Com’era giusto che fosse.

Un giorno arriverà un italiano a farci sognare in una corsa trisettimanale. Oh sì che verrà!
Attendiamo e preghiamo.
Per adesso notti inquiete.
E stelle gialle che brillano.


Una bicicletta e le montagne come punti cardinali: la storia di Valeria Curnis

Valeria Curnis fa partire un vocale, sono minuti e minuti, a parlare è Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo alla Isolmant-Premac-Vittoria, appoggia il telefono sul tavolo, prende un foglio, una penna e si appunta i dettagli salienti. Poco prima, il suo messaggio a Fidanza, alla vigilia di una cronoscalata: «Come mi regolo con l'alimentazione?». Fidanza parla, Curnis scrive. Altre volte, in allenamento, Giovanni Fidanza, in bicicletta, le dice: «Devi fare così in gara, cattiva ti vogliamo». Lei ascolta, lui le «entra sulla ruota e sgomita», poi, mentre Curnis perde l'equilibrio, lui la riprende per il taschino e ripete: «Proprio così». Accade quando si cambia rotta e si riparte.
Valeria Curnis, fino a qualche anno fa, sciava, cercava le montagne e la neve: «Non riuscirei a vivere in un posto in cui non si vedano i monti, è questo il punto. In un modo o nell'altro, ho bisogno di vederli e di andarci. Di scivolare sulla neve, in discesa, di alzarmi sui pedali di una bicicletta, in salita. Ma le montagne sono un punto fermo, qualcosa che, nella mia vita, orienta anche tutto il resto». Già, la bicicletta, che oggi è al centro, ma solo fino a qualche anno fa era una parte del tutto. Un mezzo che non conosceva, che utilizzava affidandosi all'istinto, al desiderio di un momento, talvolta ad uno sfogo. Poteva essere una vecchia Graziella oppure la Fisher con cui, da casa dei nonni, andava a scalare il Selvino, a freddo, senza alcuna preparazione. Un casco giallo, una vecchia maglia gialla, troppo grande per lei, del Tour de France e via che si va. «Credo fossi la ciclista più imbarazzante di tutta la Lombardia. Anzi, ne sono certa». Valeria Curnis ride a più non posso, si prende in giro, prende fiato e, ridendo, racconta: «Anche oggi, che corro in bicicletta, faccio cose strane per una ciclista. Sono in divisa ore prima della partenza, talvolta anche con i guantini, ma quelli si tolgono in fretta, per fortuna. Mi lego i capelli, mentre tutte le cicliste usano una fascetta. Forse dovrei acquistarla pure io, eppure, non so perché, ma ho la sensazione che non lo farò».

Quando le chiediamo se questo essere "nuova" non le abbia mai creato difficoltà, Valeria Curnis risponde certa di no, poi aggiunge: «Non mi manca la fiducia nei miei mezzi, quando ho fatto questa scelta, quella di diventare ciclista, credevo che potesse derivarne qualcosa di buono e lo penso sempre più, ma, nei primi tempi, temevo di sbagliare. O meglio, sapevo di poter sbagliare però mi sembrava che un mio errore, proprio perché "nuova", sarebbe pesato di più sulla bilancia. Adesso rido delle piccole stranezze che ho descritto e, poi, fanno sorridere anche la squadra, non sono inutili». Torna seria ed è seria in quest'ultima considerazione che la porta dritta a quando ha lasciato lo sci, per un insieme di cose, soprattutto per la mancanza di soddisfazione che ormai si era impossessata di quel tempo sulla neve.

In quei giorni, suo padre, appassionato da sempre di ciclismo, autore di una tesi sul telaio, le regala una Pinarello in carbonio, bella, sicuramente più adatta per le sue sgambate. Racconta Curnis che suo padre aveva capito bene che il suo mondo avrebbe perso l'equilibrio senza uno sport da praticare, così è arrivata quella bicicletta e sono iniziate le prime Gran Fondo, in cui la fatica la fa da padrona, ma la sensazione è la stessa di quando andava via in bicicletta dopo una giornata storta a scuola, cercando una soluzione. «Allo sci sono tornata tempo dopo e ho avuto il timore di essermi dimenticata come si facesse, invece una volta sulla neve sono scivolata sugli sci come sempre. Ho voluto diventare maestra di sci e, sostenendo i test, temevo di non riuscire a fare i tempi giusti. No, era rimasto tutto come prima, meglio di prima, forse. Ora il ciclismo mi prende le giornate e non posso praticare, ma sono maestra di sci, lo sono diventata, e questo non me lo porta via nessuno».

In sella porta la genuinità delle novità, la capacità di vedere i dettagli, tutte le cose che per le altre atlete sono ovvie e per lei sono speciali. Prendete quel giorno a Romanengo, dopo la cronometro in cui arrivò settima, «i tempi delle prime due erano imbattibili, con le altre, tuttavia, me la sono giocata": Valeria Curnis era già contenta. Una sua collega le si è avvicinata: "Sei andata a ritirare il premio? Guarda che devi andarci tu". Non se lo aspettava, non ci pensava nemmeno: "Quella busta l'ho ancora intatta a casa e resterà così. Uno dei giorni in cui mi sono sentita più fiera di me». Sì, perché dall'essere contenta, al ritorno, dopo la cronometro, Valeria Curnis era proprio felice.

Felice era anche a Roma, il 25 aprile, al Gp Liberazione, dopo il Covid, dopo un periodo difficile, pur in una gara non adatta alle sue caratteristiche, con continui rilanci e cambi di velocità, mentre suo padre alla partenza le diceva: «Mi sembri un gladiatore». Anche quando si è ritirata, era felice perché sapeva che, accanto al Colosseo, era tornata. Pure a Siena, nel giorno della Strade Bianche, Valeria ha provato qualcosa di unico: «Lo giuro, mi sentivo morire. Da quando ho iniziato a correre in bicicletta ho sentito spesso come se morissi, per la fatica che attanaglia. Eppure proseguivo, continuavo a pedalare. Non voglio farmi fermare da nessuno, lo dico e lo ripeto». Emotiva, ma capace di contenere quella emotività, «come dice Fidanza, serve un interruttore mentale: tranquilli prima della gara, perché tutta l'energia va scaricata in corsa con uno sforzo così lungo». Alle prime gare le capitava di avere 160 battiti al minuto prima della partenza; «fortuna che si partiva in leggera discesa, sennò chissà il fuori soglia». Incredula di fronte alle grandi campionesse delle due ruote, però capace di farsi rispettare, di non mollare la ruota su cui è: «Il rispetto è un conto, ma se ti fai intimidire è finita, devi fare quel che sei capace di fare, quel che fanno tutte in gruppo. Bisogna essere toste». Molti desideri nella sua testa, uno in particolare: «Servirebbero più gare internazionali per le donne, la crescita passa anche da lì. Vorrei se ne parlasse di più».
Si è abituata ai sacrifici del ciclismo, che sono più grandi che nello sci. Nel ciclismo, spiega Curnis, conta davvero tutto: un'ora di sonno in più o in meno, un pasto, una bevanda, un'uscita, l'atleta è anche l'insieme di tutte queste cose, di quelle che fa e di quelle a cui è capace di rinunciare. «Credo non mi abituerò mai completamente al riso e al pollo a pasto, ma sono sicura che continuerò a mangiarlo e, giorno dopo giorno, mi diventerà sempre più familiare. Sai perché? In parte per la ripetizione del gesto, in parte perché anche il riso ed il pollo mi permettono di essere una ciclista».

Essere una ciclista ovvero stare in gruppo, fare fatica, magari per la squadra, perché fatta per altri ha un valore maggiore, un significato in più, come osserva, soprattutto stare in gruppo e tenere le posizioni, capire come si muove il gruppo. Giovanni Fidanza glielo ha spiegato così, un giorno in cui Curnis voleva saperne di più: «Immaginalo come il mare con le onde. Non devi guardare solo la ruota davanti a te, piuttosto è opportuno capire i moti generali del mare, le sue onde. Per questo bisogna vedere molto avanti, poi, puoi decidere anche i tuoi movimenti». Valeria Curnis ci ha pensato e le è sembrata una definizione azzeccatissima. Valeria Curnis lo ha fatto e quelle onde sono diventate un'abitudine. Una gran bella abitudine.

Foto: per gentile concessione di Valeria Curnis


La fucilata di Glasgow

Quando Mathieu van der Poel è partito, a poco più di ventidue chilometri dalla conclusione di una gara che non dimenticheremo mai, in un attimo ha cancellato tutto quello che stava accadendo. C’è stato silenzio. Poi un lampo che fa a fette il cielo. Lo abbiamo guardato per qualche frazione di secondo, ammirandolo, come poco prima con quell’arcobaleno che spuntava sopra Glasgow, quando Alberto Bettiol si era messo in testa un’idea folle che ci ha fatto sognare a lungo.

Quando Mathieu van der Poel è scattato, avevamo già immaginato l’epilogo di una giornata lunga, troppo assurda per essere vera, di quella che ci riempie la bocca di aggettivi, di metafore, similitudini. Di quelle frasi che ci sembra di ripetere troppe volte riferite al ciclismo di questi ultimi tempi.

Quando Mathieu van der Poel è partito, sapevamo che per tutti gli altri era finita, e che per lui si sarebbe chiuso un cerchio: campione del mondo, lui, il corridore più forte del mondo nelle corse di un giorno, davanti ai corridori più forti del mondo nelle corse di un giorno e non solo, in una giornata così esaltante da riempire le pagine di epica e retorica.

Quando Mathieu van der Poel è caduto, abbiamo bestemmiato, ma lui ha continuato a darci dentro. Sanguinante, con il boa della scarpetta strappato via con lucidità, ha rimesso sulla giusta carreggiata i nostri sentimenti impazziti, le emozioni che da quasi sette ore continuavano a vibrare incontrollabili dietro una delle corse più difficile da comprendere a nostra memoria.

Su un circuito, criticato all’inverosimile, così labirintico da faticare a trovarne l’uscita, Italia e Danimarca, compatte, spettacolari, prendevano la corsa per la coda e la agitavano senza rispetto sul fuoco alimentato da curve, controcurve, strappi. Lui, l’olandese, sornione, con quella maglia bianca che si faceva sempre più del colore della sua pelle, rimontava posizioni e pedalava con un solo obiettivo in mente: una cartuccia da sparare, letale. Mancavano centinaia di chilometri quando la gara esplodeva e si selezionava come non abbiamo mai visto nemmeno sulle salite dei grandi giri.

Quando Matteo Trentin, sempre davanti, attento, con gambe e motivazioni a mille, cadeva, abbiamo imprecato contro le ingiustizie del destino; quando Bettiol partiva ci siamo emozionati; quando lo hanno ripreso non abbiamo avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo. Mathieu van der Poel scattava, dietro lui arrancavano van Aert, secondo alla fine, Pogačar, terzo al traguardo, a completare un podio visto di rado dalla nostra generazione, e Pedersen, quarto, battuto dal terribile (ex) ragazzo sloveno, insomma, quando Mathieu van der Poel scattava, tre grandi corridori capivano come si sarebbe lottato solo per tentare di spegnere il fuoco delle proprie ambizioni iridate. La grandezza di un corridore la si misura anche dagli avversari.

Quando è partita la fucilata di Glasgow, Mathieu van der Poel ci ha fatto saltare in piedi, ed eravamo quasi al termine di una giornata di ciclismo di quelle che… da domani sarà difficile trovarne una simile. Ha vinto il più forte, che ora, per tredici mesi, vestirà la più bella maglia del mondo. La giusta fine di una giornata di ciclismo indimenticabile. E pazienza se lo abbiamo scritto altre volte, oggi, di questo sport, si è fatta la storia.

Foto: Sprint Cycling Agency


Breve ciclo-vocabolario del campionato italiano di Comano Terme 2023

Si consulta esattamente come un vocabolario, ma, mentre in un vocabolario ad ogni parola corrisponde un significato, qui ad ogni parola corrisponde una descrizione, di qualcosa che abbiamo visto o sentito nei giorni del Campionato Italiano. Le parole, del resto, sono le stesse che viviamo e scriviamo sempre, ma, guardandole bene, ascoltandole bene, in una gara di ciclismo, hanno qualcosa in più.

CIAO

National Championships Italy Women 2023 - Comano Terme - Comano Tarme 148km - 25/06/2023 - Marta Bastianelli (ITA - UAE Team ADQ) - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency@2023

Forse una delle parole che meglio racconta l'Italia. Per un vecchio motorino degli anni settanta e perché "ciao" lo dicono anche i viaggiatori stranieri che passano dall'Italia. Una parola così semplice da pronunciare e da scrivere. "Ciao" per incontrarsi, "ciao" per lasciarsi. Anche solo per entrare in contatto e poi continuare a parlare in un'altra lingua. Una parola di fiducia istantanea, in certi casi. Fra i tanti "ciao", all'ingresso negli alberghi, all'uscita, per strada oppure in un bar, ne abbiamo scelto uno: quello di Marta Bastianelli che, sul palco della presentazione squadre della prova in linea del Campionato Italiano, domenica 25 giugno, saluta il pubblico, con un gesto della mano. Il Giro Donne, pochi giorni dopo, sarà la sua ultima gara, ma anche questa è un'ultima volta: l'ultimo Campionato Italiano. Fra le ragazze delle Fiamme Azzurre, notiamo Elena Cecchini che abbassa lo sguardo, Chiara Consonni che si passa una mano sul volto: hanno entrambe gli occhi lucidi. «Ma io non volevo piangere»: dicono a Bastianelli e, nel mentre, adesso, si stanno davvero lasciando piangere, senza più trattenere nulla. "Ciao", dice ancora Marta Bastianelli mentre scende gli scalini del palco, fra i giornalisti ed i fotografi. "Ciao", diciamo anche noi. Che buffa parola, pensandoci bene: una consonante, tre vocali. Potrebbe essere parte del linguaggio segreto di un bambino per quanto è strana. Invece, in certe occasioni, dire "ciao" e salutare con la mano è la più dura realtà degli adulti: il tempo che passa, le cose che finiscono. Buona strada, Marta!

CAMPER

Bianchi, talvolta appena lavati, talvolta con i segni dei precedenti viaggi, cicatrici che non fanno male. Camper di chi è appena arrivato, camper di chi la notte ha dormito in camper e la colazione la fa su un tavolino lì davanti. Camper delle famiglie degli atleti che si riconoscono subito perché sono vicino alla zona squadre e perché i loro finestrini non sono appostati in modo da vedere le montagne, ma in modo da vedere la strada su cui passerà la corsa. Camper di famiglia, delle vacanze che si avvicinano. Camper su cui risale qualche atleta, sudato, con una salvietta al collo. Camper come quello dei genitori di Letizia Borghesi che quel camper l'hanno acquistato proprio per seguire le gare di Letizia e Giada. Con una bandiera italiana avvolta da qualche parte, con la biancheria stesa lì vicino e qualche bicicletta appoggiata ai lati. Camper dei genitori degli atleti più giovani, appostati l'uno vicino all'altro. Qualcuno ci dice: «I genitori, ad una gara di ciclismo, non sostengono solo i figli, si sostengono anche fra di loro». Ecco cos'è un camper, da queste parti.

ESTATE

National Championships Italy 2023 - ITT - Sarche - Sarche 25,7km - 22/06/2023 - Filippo Ganna (ITA - INEOS Grenadiers) - photo Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency@2023

Perché è appena passato il 21 giugno e fa già caldo. Estate soprattutto perché, da un momento all'altro, basta una gara di ciclismo per capire che è nuovamente giugno. Bottigliette d’acqua rovesciate addosso, testa sotto qualche fontana. Bambini con la maglia rosa (del Giro appena finito) o la maglia gialla (del Tour che sta per arrivare). Transenne a cui bisogna fare attenzione ad appoggiare le braccia perché iniziano a scottare. Prime canzoni estive che arrivano da un balcone e sale stampa in cui si cerca l'angolo più fresco. Estate e succo di mela per noi, in Trentino. Estate e classica abbronzatura da ciclisti, con il segno della maglietta e dei pantaloncini. Estate e corse di ragazzi, di Bryan Olivo e Luca Giaimi, Campioni Italiani, rispettivamente nelle categorie Under23 e Junior a cronometro, e, qualche minuto dopo, a correre avanti indietro e ad abbracciare gli amici, come fanno due ragazzi qualsiasi, quando arriva giugno e finisce la scuola. Estate e nonni, estate e biciclette dei nonni: "Gli chiedi se mi fa fare un giro sulla canna della sua bicicletta". Ha chiesto così un nipotino ad un nonno, vedendo Filippo Ganna sfrecciare veloce. Quando arriva l'estate, succede.

FOTOGRAFIE

Da vedere con gli amici in una sera di settembre, ma da scattare adesso, sotto questo sole. Sono proprio le fotografie delle estati passate a farci stare meglio, qualche volta. La sera dell'inizio dell'estate, il 21 giugno, dei ragazzini, in albergo, hanno visto Filippo Ganna, al tavolo, a cena. Non ci sono stati molto a pensare, sono andati a salutarlo, forse a chiedere un autografo e una foto. Anzi, un'altra foto. Una l'avevano già, in mano. Era di qualche estate fa, di qualche Campionato Italiano fa. Gliela hanno mostrata. Con addosso la maglia tricolore, seduto al tavolo della conferenza stampa, Filippo Ganna lo racconta. Sorride. Dice che vedere quelle foto lo ha fatto stare bene, dice che ora che è tornato, dopo quanto è stato male per aver dovuto lasciare il Giro, non vorrebbe più andare via. Alice Toniolli è ancora giovane, 17 anni, Campionessa Italiana a cronometro tra le junior. Eppure se guarda le fotografie di qualche anno fa, pattinava. Poi ha fatto questa scelta. Verso sera, un ragazzino, poco più giovane di lei, le chiede una foto. La sua famiglia l'aspetta, lei non ha dubbi, accetta e qualcuno scatta la fotografia. Lui la terrà come ricordo prezioso, lei, forse, non la rivedrà più. Forse. Perché al tavolo di un albergo, all'ora di cena, fra qualche anno, potrebbe succederle di riguardare quello scatto, ringraziando di averlo fatto.

INNO

National Championships Italy 2023 - Comano Terme - Comano Tarme 227km - 24/06/2023 - Simone Velasco (ITA - Astana Qazaqstan Team) - photo Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency@2023

 

La parola più scontata per un Campionato Nazionale. Cantato, oppure mimato, con qualche sillaba, a ritmo. Ognuno, però, con l'inno ha un rapporto diverso, lo canta in maniera differente e si pone in maniera diversa come parte la sua musica. A noi è rimasto in mente Simone Velasco, sul gradino più alto del podio, il sabato sera, in maglia tricolore, con in braccio la figlia Diletta. "Pam-parapam" parte l'inno, Velasco si gira verso Diletta e con la bocca, a bassa voce: "Pam-parapam". Il braccio su cui la tiene si muove allo stesso ritmo e, dopo poco, anche la bambina segue istintivamente quel suono. Elisa Longo Borghini lo canta per ben due volte: dopo la prova a cronometro, dopo la prova in linea. Con accanto Marta Cavalli e Alessia Vigilia prima, con accanto Silvia Persico e Marta Cavalli, poi. In totale, negli anni, sono undici le sue maglie tricolori. Ogni tanto mano sul cuore, sguardo in avanti. Quando lo speaker le ricorda tutto quello che ha vinto, si guarda in giro timidamente, non vede l'ora che quell'elenco termini. Sì, su quel podio ci si sente quasi eroi, ma i ciclisti sono ragazzi e ragazze e uomini e donne. E loro hanno pudore anche della felicità.

PADRI E FIGLIE

Campionato Italiano Cronometro Donne Juniores 2013 - Romanengo - 21/06/2013 - Arianna Fidanza (Eurotarget Still Bike) - Giovanni Fidanza - foto Gianfranco Soncini/BettiniPhoto©2013



A colazione, nel tavolo accanto al nostro, ci sono Giovanni Fidanza e Arianna Fidanza e Valeria Curnis e suo padre. Due padri e due figlie.
«Certo che è un bel mondo questo, vero? Si sta bene, si conoscono tutti qui ed è a dimensione di persona. Certo che non credevo fosse così seguire la gara di una figlia. No, non lo credevo proprio». Ce lo dice il padre di Valeria, che, intanto, si sposta verso il nostro tavolo, con un panino e della marmellata. «Valeria viene dallo sci, è un'esperienza nuova questa. Lo confesso: ho paura alle gare. Lei lo vede, lo capisce, così cerco di nasconderlo. Ma ci penso, eccome se ci penso». Ancora un boccone, e ancora: «Sì, ci penso». Padri e figlie, alle gare. Giovanni e Arianna sono spesso seduti accanto, fuori dall'hotel, a parlare. A cena, si aspettano nella hall dell'albergo. A tavola si va assieme. Padri e figlie: Marta e Alberto, di cognome Cavalli. Accanto alla macchina: lei appoggiata alla portiera, lui seduto su un marciapiedi. A parlare, dopo la cronometro, dopo il podio. Poi, lei via in macchina, lui via in moto. Padri e figlie.

SEDIE

Spesso bianche, di plastica, con tutto il segno del tempo che è passato. Dietro ad un podio, vicino ad un bus, fuori da un albergo, su un prato, sotto un albero. Sedie in cui si aspetta: di andare in corsa o di andare a casa. Sedie in cui si parla di quello che è stato, ma anche di altro, del mare, del domani, del Giro o dei Mondiali. Sedie con addosso del ghiaccio e gambe allungate, su un'altra sedia, dopo lo sforzo. Sedie e qualcuno inginocchiato davanti con in mano borracce e asciugamani. Sedie su cui sono appoggiati attrezzi di meccanici e telefoni, sedie su cui aspettano meccanici o direttori sportivi. Sedie, con un giornale, per farsi aria, mentre la corsa passa e se ne va.

SPAGHETTI

Di tutti i piatti che arrivano a tavola, a cena, negli alberghi, la pasta si nota dal vapore che si innalza dal piatto e che si segue con lo sguardo. Il menù della serata prevede sfornati al formaggio, pesce, crostate. Eppure nei tavoli degli atleti arriva pasta e ancora pasta. In bianco, con un poco d'olio. Talvolta con sopra una macchia di sugo rosso, al pomodoro. Maglietta a maniche corte, pantaloncini corti, scarpe da ginnastica, prendono la forchetta e iniziano ad avvolgere gli spaghetti. Con gusto, con piacere. Un tintinnio che arriva da più piatti. A breve, le scale, la camera e un'altra giornata sarà finita. Comunque sia andata.


Spugna e martello

O Martello e spugna. Devastante il martello con la sua cadenza irresistibile che riecheggia nel silenzio delle montagne, quale silenzio, direte voi: avete visto quanta gente sulle strade? A parte, aggiungiamo noi, la parentesi degli ultimi quattro chilometri sul Puy de Dome e stavolta sì, un silenzio, irreale, narrativo, costruito ad arte da chi organizza il Tour de France: evento che ancora una volta sa battere la concorrenza per distacco, attaccandola dal primo chilometro. E pazienza se poi, in quella tappa, ben presentata, l’attesa ha fatto più danni al cuore che l’effettiva risoluzione.

Martello, come un pezzo industrial a una festa illegale organizzata da ragazzini. La cassa fissa, lineare. Un suono oscuro, metallico, quasi urlante, fantascientifico, come quel fumetto francese, con gambe che paiono fuscelli, nonostante quel bisogno di riprendere contatto con la realtà esterna alle corse appena tagliato il traguardo: è un abbraccio con i propri cari quando possibile, come in cima al Puy de Dome. È una lunga telefonata, quasi sempre, come nelle altre tappe precedenti o in quelle che verranno, oppure nel giorno di riposo.

Spugna. Assorbe, lava via le incertezze. Leva via i cattivi pensieri. Sorride, si prepara e si nasconde. Capisce e trasforma, decide di andare via e lascia la sua sparata. È tutto un programma, un fuori onda. Mai banale, dicono sia costruito, ma è sincero, è realmente fatto così. Spugna, qualche giorno fa, dopo che sul Marie Blanque aveva perso la ruota del suo avversario, ha trasformato la delusione nella possibilità di guardarsi dentro e imparare nuovamente dai suoi errori. Le energie nervose le ha ridotte a un momento di tranquillità. Lo hanno visto sereno, e il giorno dopo nascosto. Poi è scattato e ha staccato il suo avversario, non un nemico, sia chiaro.

Sul Puy de Dome, dicono alcuni appassionati ed esperti di valori misurati attraverso i watt/kg, i quali, però, non riescono a dare del tutto le certezze che cerchiamo, la spugna avrebbe fatto la sua miglior prestazione in carriera su una salita, almeno a livello di numeri, valori. Anche se poi lui giustamente dice qualcosa che suona come: "se non conoscete il mio peso, come fate a conoscere queste prestazioni?". È bastata, tuttavia,  quell'azione per levare via un po’ di incrostature, otto secondi, per distinguere un Tour de France già ben caratterizzato di suo.

Spugna e martello. Pogačar e Vingegaard. Duello del decennio nella corsa più importante e rumorosa al mondo. Altro che il silenzio del Puy de Dome.


Tadej Pogačar, Jonas Vingegaard: è un attimo

 

Coppi vola senza più l’inquietudine delle prime ore, certo com’è di giungere solo al traguardo.
Così Dino Buzzati commentava magistralmente sul Corriere della Sera una tappa del Giro del ’49.
Aveva associato il confronto fra Coppi e Bartali all’omerico duello fra Ettore e Achille.
Due eroi della mitologia antica accostati a due eroi del ciclismo che fu, dell’Italia in bianco e nero che pian piano risorgeva.

Sei luglio, tappa sei del Tour de France, altri due contendenti si mostrano nei colori vividi e sgargianti del ciclismo di oggi.
Tadej Pogacar e Jonas Vingegard. Slovenia e Danimarca.
Entrambi coraggio e valore, coscienza e incoscienza.
Nessuna singolar tenzone cavalleresca per una donna. Nessun duello con le armi da fuoco per vendicare il proprio nome offeso.
Solo - ma sarà poi vero? - una lotta sportiva tra due giovani uomini che hanno onorato la corsa più bella e conosciuta del ciclismo e che rendono ogni corsa più bella e conosciuta.
Due fuoriclasse, fra corridori di primissima classe, che hanno unito il ciclismo e stanno dividendo gli appassionati.
Quello che è accaduto a circa due chilometri e 800 metri dal traguardo di quella tappa estenuante, la prima vera tappa di montagna di questo Tour, rimarrà impresso nella celluloide, nei pixel fotografici e nella memoria di chi ha assistito.
I più fortunati - gli eletti - testimonieranno di essere stati proprio lì, in quel tratto di strada. In quel preciso istante.
I meno fortunati - tutti gli altri - racconteranno di aver visto tutto in diretta tv.
Gli uni e gli altri, un giorno, con pochi o molti capelli bianchi, vivranno la nostalgia di quel momento. Di quel sobbalzo dal divano. Tachicardico e al contempo lenitivo.
Avranno custodito quell’attimo fuggente, quel raggio di sole, per le giornate uggiose, come quelle delle canzoni di Battisti.
Per respirare la stessa fragranza gradevole di quel giorno ormai lontano.
Poiché la cronaca esige il suo tributo è d'obbligo accennare al Col du Tourmalet.
Se è vero, come è vero, che la salita rappresenta il fascino del ciclismo, il Tourmalet coi suoi 17 km d’ascensione e vetta a 2.115 mt è la più emblematica e pedalata del Tour.
Percorrerla in bici in 45 minuti sembrerebbe follia.
Invece è stato record!
L’asfalto graffiato di quei tornanti aveva visto la corazzata della Jumbo tentare invano di staccare Tadey con un ciclista di nome Van Aert.
Sì, quel Van Aert che, seppur stremato, ha dimostrato ancora una volta il suo
stra-ordinario valore senza vincere.
Nei tornanti di quel gigante di pietra gli appassionati doc muovevano bandiere e corpi come lo scirocco fa con le onde del mare.
Pogacar aveva però invocato suoi spiriti guida e le anime degli scalatori del passato. Ottimista nel pre-gara, nonostante la sconfitta del giorno prima inflitta proprio dal danese, era rimasto concentrato - anzi di più - durante tutta la corsa.
Lo si intuiva da quel particolare sguardo che non era sfuggito ai commentatori di grande esperienza. “ Oggi ha una buona gamba - dicevano - e una buona testa.”
Quella col ciuffetto irriverente che spunta fuori dal casco.
Lo sloveno incollato al danese e noi agli schermi. In attesa di una magia, di un regalo.
E a meno di tremila metri ecco l’audio crescere a dismisura. “ È partito!
Vola Tadej, vooola!”
È la mossa del principe sloveno, lo scacco al re. Scatto e allungo: matto in due mosse.
È l’esaltazione. L’incredibile sperato.
Il suo inchino al traguardo rivela la fine dello spettacolo.
Pogačar primo in 3h 54' 27"
Sua con 103.5 km/h la punta massima di velocità del giorno.
Vingegard secondo e in maglia gialla.
Fra loro, nella classifica generale, 25 secondi di distacco. Venticinque, come il costo dell’ascensore che porta in cima alla Tour Eiffel.
Ma in fondo i numeri misurano davvero ciò che conta nella vita?

Il presidente francese applaude ai lati del podio.
Domani è un altro giorno.
Via col vento.

Contributo di Fabio Gariffo
Foto in evidenza: Sprint Cycling Agency


I 42 anni dopo della frazione di Strela

Strela di Compiano non è esattamente una Mecca del ciclismo. Anzi, non è un posto che le persone bramano di vedere in generale: si fermano tutti al sottostante castello di Compiano, comune dalla forma oblunga nell’alto Appennino parmense, se proprio bisogna passare in queste zone. Eppure, Strela è stata teatro dei campionati nazionali nel 2019 (vinti da Formolo: si saliva lassù ben 10 volte) e, andando indietro, dalla stessa rassegna tricolore nel 1981.

 

Fu un’edizione strana, quella. Si transitò da Strela addirittura 19 volte, fece così tanto scalpore il duello tra Moser e Saronni (vinse il primo) che se ne parla ancora oggi nel parmense, ma l’attenzione nazionale, in quei giorni, era tutta per la tragica caduta di Alfredo Rampi in un pozzo nelle campagne vicino Vermicino.

Lunedì a Strela di Compiano – e così arriviamo al perché si insiste così tanto su questo luogo sperduto – è transitato anche il Giro Donne. Quarta tappa, ultima salita. Non appena inizia la scalata, Van Vleuten attacca. Longo Borghini resiste, Mavi Garcia prova a rientrare poi esplode. Ewers era all’attacco, viene ripresa ma non si fa staccare. Ogni tanto, insomma, succedono cose a Strela di Compiano.

Con una trentina di tifosi eravamo lì, nel “centro” del paese, per il passaggio del Giro Donne. Passano le tre di testa, molto forte. Segue il gruppo: anche queste andavano molto forte. Poi altri gruppetti, sempre più esigui, sempre meno brillanti. Le ultimissime passano a oltre mezz’ora dalle prime, quindi gli astanti hanno tempo di conversare tra loro. In particolare, due uomini parlano delle motociclette con cui sono arrivati fin lì, fino a Strela di Compiano: una conversazionale normale, nulla di che. Finché uno dei due non rivela, tra una frase e l’altra, di essere il padre di Marta Cavalli.

Come Marta Cavalli, penso: quella Marta Cavalli? La Marta Cavalli di vicino Cremona, una delle cicliste più forte del mondo? «Non sei attento» risponde scherzando l’uomo, mostrandomi un adesivo col nome della figlia sul bauletto posteriore. È peraltro la moto dietro alla quale Marta si allena spesso: la parte inferiore del parafango è graffiata da piccoli e ripetuti colpetti di ruota di bici.

Cronometrato il distacco della figlia all’arrivo, il padre è convinto che perderà la maglia verde. Non è così, ma grazie ad un successivo racconto il giro attorno a Strela di Compiano si chiude. Una leggenda del passato gli ha chiesto, una volta, da dove venissero. Quando ha sentito la risposta, cioè San Bassano, uno dei posti più piatti della già piattissima provincia di Cremona, questi ha risposto: «E come fa ad andare così forte in salita?». Chi era costui? Francesco Moser.

Chi l’avrebbe mai detto che si potessero fare incontri del genere, a Strela di Compiano.


Il Tour di Caramas

Non sei il favorito della corsa, ma non importa, hai puntato tutta (o quasi) la stagione ai 3400 km circa che ti servono per arrivare a Parigi, partendo da quella splendida città che è Bilbao. In che posizione si vedrà, non è questo il concetto, vale per chi arriva primo, per chi arriva ultimo. Ti sei preparato per mesi, questa gara l’hai sognata, ti sei immaginato diversi scenari in cui avresti potuto attaccare, quella salita, quella discesa, hai studiato il percorso e quindi hai cerchiato di rosso un punto in particolare che ti ispirava. Hai rinunciato a tane cose, come fa chiunque nella vita si pone degli obiettivi, hai studiato la tattica con i tuoi compagni di squadra e i tuoi direttori sportivi, poi arriva il giorno del Tour de France e si parte.

L'avventura inizia da Bilbao, piena di sogni e speranze e passi centosessanta chilometri di corsa tra la pancia e la coda del gruppo, limi, quando sai limare, limi lo stesso anche se non ne sei capace, urli "occhio!" quando c'è da passare di fianco a un collega, compagno, avversario, arriva la prima delle due salite più attese e ti fai trovare davanti, poi discesa, curva, si va a terra.

Sei caduto e ti rialzi, ti guardi intorno e incroci per un attimo lo sguardo di Enric Mas, destino identico, o quasi. Controlli il ginocchio, immaginiamo soltanto il dolore, ma prendi e riparti: vuoi concludere la tappa, un destino che invece a Enric Mas è precluso.

Vai avanti lo stesso, sbuffi, fai fatica, hai la gamba che sanguina, un tuo compagno si avvicina e cerca di farti forza soltanto standoti vicino: ci sono certi momenti in cui una presenza, un’ombra può bastare e quel tuo compagno condivide con te il dolore e sa che in quel momento il silenzio è il miglior conforto possibile.

Intanto, Mas si è ritirato. Non è ripartito, dopo mesi a pensare all’obiettivo podio - fattibile, altroché - il suo Tour de France è durato giusto qualche ora.

Tu arrivi al traguardo, invece, con il ginocchio quasi aperto in due: micro frattura della rotula. All’indomani non riparti, anche il tuo Tour è durato poco più di qualche ora.

Foto in evidenza: Sprint Cycling Agency
Foto Enric Mas da Twitter, Team Movistar


Sempre diversa, sempre la stessa: intervista a Gaia Realini

Dopo qualche mese dall'ultima intervista, Gaia Realini, nella nostra chiacchierata, riparte, ridendo, dal sei maggio, quando, durante la sesta tappa de "La Vuelta Femenina", si trovò, a pochi chilometri dal traguardo, in testa alla corsa, assieme ad Annemiek van Vleuten. Siamo, però, noi a mettere sul tavolo una sorta di provocazione: «Dai, adesso puoi dirci la verità: sentivi di poterla vincere?». Non c'è quasi tempo fra la domanda e la risposta e la voce di Gaia riprende, allegra: «Ma nemmeno per sogno. Il mio pensiero era: "Perfetto, siamo in due, faccio seconda e porto a casa un'altra giornata positiva». Dall'ammiraglia, però, non la pensavano così. L'avrei scoperto a breve". Infatti, di lì a poco, sarebbe stata la voce di Paolo Slongo a dirle che quella volata avrebbe dovuto giocarsela. Il dialogo ve lo riportiamo: è più o meno così
«È l'occasione della vita, Gaia. Giocatela»
«Ma come faccio?»
«Stai tranquilla. Devi solo stare tranquilla e fare la tua volata»
«Sì, posso fare anche la mia volata, ma è impossibile. Vince lei, non ci sono dubbi»
«Tu inizia a fare la volata, poi vediamo».

Gaia Realini e Annemiek Van Vleuten - Foto: Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Gaia Realini non era convinta, eppure quella volata l'ha fatta e l'ha vinta: «Non ci credevo in quel momento e non ci credo ancora. Eppure ho rivisto più volte quel finale e la ciclista in maglia Trek-Segafredo sono proprio io. Prima o poi me ne convincerò». Bastano queste poche parole per capire che i successi di inizio stagione e un'indubbia crescita non hanno per nulla cambiato Realini che, per usare le sue parole, resta la ragazza di sempre. «Non sono cambiata e da questo punto di vista credo non cambierò mai. Ti dico di più: se dovessi cambiare, vorrei che qualcuno me lo facesse notare, perché starei sbagliando. Ho ben presente come sono arrivata qui, i sacrifici che ho fatto, so che siamo solo esseri umani, che possiamo saltare molto in alto ma anche cadere giù. Non avrebbe senso». Ci sono stati dei cambiamenti, questo sì, ma di altro genere.

«I risultati portano fiducia, capisci le tue reali potenzialità. In questo senso cambiano. Però i risultati vanno guardati con i piedi per terra, ma proprio con i piedi ben saldi a terra, altrimenti rischiano di portarti fuori strada». Ed in questa acquisizione di fiducia, ha fatto moltissimo una nuova presa di coscienza rispetto all'errore, soprattutto per una persona come Realini che si descrive come estremamente autocritica: «L'errore è parte del processo di crescita, occorre saperlo individuare ed analizzare con un approccio positivo. Ci sta solo indicando dove correggere per migliorare. Il fatto è che chi è molto autocritico, di solito, fatica ad avere questa visione e per gli errori si colpevolizza eccessivamente. In parte lo faccio ancora, ma meno». Ecco dove è cambiata Realini.

Gaia Realini - Foto: Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Un processo iniziato da tempo ed in continua evoluzione che, però, trova le sue radici nella prima gara di stagione con Trek-Segafredo, l'UAE Tour: in quei giorni, c'erano molti pensieri nella mente dell'abruzzese di Pescara, la maggior parte dei quali avevano a che fare con quello che tutti si sarebbero aspettati da lei, dopo il cambiamento di squadra: «La cosa incredibile è che, per lungo tempo ho vissuto divertendomi gli allenamenti e con una forte ansia le gare. In quei giorni ho capito che nessuno si aspettava qualcosa di particolare da me e nemmeno io avrei dovuto aspettarmi chissà cosa. Solo continuare a fare ciò che già facevo, pedalare al meglio delle mie possibilità. In fondo, perché dovrei essere in ansia per questo? So farlo, l'ho sempre fatto».

Gaia Realini guarda con attenzione ciò che fanno le compagne di squadra, ascolta ogni consiglio, diretto o indiretto, dice che per lei «è pane ogni suggerimento», così ogni gara la riporta a un passo avanti: l'azione con Longo Borghini all'UAE Tour, la vittoria a Montignoso con Spratt, in una corsa in cui non partivano favorite, sino a quel giorno a "La Vuelta", da cui è iniziato il racconto.

Ora il pensiero è al Campionato Italiano a Comano Terme che, il 25 giugno, assegnerà una nuova maglia tricolore: «È un traguardo a cui si lavora da inizio stagione, certamente molto importante. Vedremo come si metterà la corsa, ma io ed Elisa Longo Borghini faremo di tutto per mettere in difficoltà le avversarie. Nel circuito finale, quello da percorrere per quattro volte, c'è una salita di cinque chilometri. Secondo me, un buon punto, in cui chi avrà la gamba potrà dire la propria, sarà il secondo dei quattro giri: la corsa potrebbe esplodere lì».

La Vuelta Femenina 2003 - 1st Edition - 7th stage Pola de Siero - Lagos de Covadonga 93,7 km - 07/05/2023 - Gaia Realini (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Quando le chiediamo del significato di quella maglia, Realini inizia parlando di felicità: «Sarebbe un orgoglio, una grande gioia...ma c'è di più. Per me il ciclismo non è mai stato un sacrificio: tutte le volte in cui qualcuno mi chiedeva come facessi a fare la mia vita, rispondevo con la stessa domanda: "Tu come fai a fare la tua?. E, se non lo dicevo, pensavo: "Per fortuna che ho questa vita”. La mia maglia tricolore avrebbe anche questo significato». Forse per questo, quando Realini parla del Giro d'Italia, prossimo appuntamento in ordine temporale, accenna alla tappa di Canelli, a quelle in Sardegna, in cui segnala l'incognita vento, sottolinea l'importanza di vivere questo appuntamento al massimo e poi torna a parlare del lavoro: «Sono contenta quando devo fare la gara, ma per me c'è qualcosa di enorme anche nel lavorare per la squadra. Sai, quando tagli il traguardo e sai che hai fatto molto per le tue compagne, ti senti a posto con te stessa, serena. Una sensazione bellissima. Il giorno del Binda, ad esempio, l'ho provata». E, se sarà difficile, come è sempre difficile una gara a tappe, Gaia Realini saprà come farsi coraggio.

«Quando tutto va bene e vinci, arrivano molte persone che vogliono esserti amiche, che dicono di esserti amiche. Presto scopri che basta un periodo no perché tutti si allontanino. Avere tante persone a fianco può attirare. Io ho capito che me ne bastano poche, davvero poche. La mia famiglia, gli amici e lo staff della squadra. Loro mi fanno sentire coraggiosa».


«Forse al Giro...»: intervista a Marta Cavalli

La mattina, quando le telefoniamo, Marta Cavalli, dopo alcuni giorni a casa, sta per ripartire per le gare, per quel Tour Féminin International des Pyrénées dove coglierà il successo, che vi abbiamo raccontato, ad Hautacam, e, come ogni volta, prima di partire, si prepara a passare a salutare i nonni. Un gesto apparentemente semplice che, però, in questa stagione strana, con molte difficoltà inaspettate, ha spesso avuto un gusto agrodolce: «Tutte le volte mi abbracciano e mi dicono: "Speriamo vada tutto bene, speriamo in un risultato". In questi mesi, ho sentito molte volte questa frase e tutte le volte ho detto "sì, speriamo", pur sapendo che quel risultato non sarebbe potuto arrivare. Ed ogni volta era più difficile, perché, dopo un'annata come il 2022, tutti si aspettano qualcosa da Marta Cavalli e, più passa il tempo, più se lo aspettano». Inizia così un'intervista che prova a riavvolgere il filo degli scorsi mesi ed allo stesso tempo cerca di guardare avanti, ai Campionati Italiani, al Giro d'Italia ed al Tour de France. In generale alle gare perché è lì che Cavalli si aspetta di ritrovare qualcosa a cui, l'anno scorso, si era abituata.

«Non te lo nascondo, sto pensando alla vittoria, del resto ci pensano tutte le atlete. Io, però, so che, in momenti come questi, è ancora più importante, ancora più bella. Importa nulla quale sia la gara, se più o meno prestigiosa, in ogni caso, se vincerò, avrò battuto le atlete presenti, ed io voglio vincere, voglio liberarmi. E, se non dovesse essere la vittoria, almeno un piazzamento, una prova così buona da restituirmi alla me stessa che conosco». Marta Cavalli ci confessa che, in ogni allenamento, ricerca il limite, il momento in cui in salita si è da soli, all'attacco, con tutti i tifosi che gridano, incitano, caricano. Un momento che vive attraverso i muscoli, che fanno male, e immagina, quasi sentisse quelle voci urlare il suo nome, tanto lo desidera: «Non è successo molto tempo fa, d'improvviso ti svegli la mattina e l'idea di fare sei ore di allenamento con 2500 metri di dislivello non ti spaventa più, non ti fa più porre domande, ma ti sprona. Hai voglia di provare quella sofferenza. Quando ho provato quella voglia, ho capito che, forse, il momento più difficile era passato, perché, quando stai male, la sofferenza non vuoi vederla, non la sopporti».

Ma il perché si sia innescato questo meccanismo, nemmeno Cavalli lo sa. Se lo è chiesto più volte e se lo chiede anche mentre parla con noi, mentre ci dice che, con l'arrivo del caldo, le sensazioni sono sempre migliori, che sta bene, che la Vuelta le è servita e, dopo un inizio di stagione a intervalli, questa seconda parte sembra essere migliore. «All'inizio non avevamo capito quanto fosse esteso il problema. Pensavamo a qualcosa di temporaneo, magari una trasferta da cui non avevo recuperato, un momento no, una settimana no, un carico eccessivo. In realtà, nel mio caso, c'era un fattore fisico ed anche un fattore di approccio mentale su cui lavorare. Quindi il fatto era ben più complesso». Non tutte le stagioni sono uguali, Marta Cavalli ce lo ripete spesso, ma, nel suo caso, il fatto che quest'anno venga dopo il 2022 è particolarmente significativo.

Giro d'Italia Donne 2022 - 33rd Edition - 4th stage Cesena - Cesena 120,9 km 04/07/2022 - Marta Cavalli (ITA - FDJ Nouvelle-Aquitaine Futuroscope) Annemiek Van Vleuten (NED - Movistar Team) - photo Massimo Fulgenzi/PMG Sport/SprintCyclingAgency©2022

L'anno scorso ogni gara era quasi certezza di risultato, quanto meno di prestazione di alto livello, e la condizione fisica era sempre buona, qualcosa che faceva presupporre il risultato, nel 2023, invece, le è capitato più volte di presentarsi alle gare pur non essendo al 100%, l'ultima volta a “La Vuelta Femenina” e questo è stato un banco di prova. «In un certo senso, è un altro passo avanti. Un'altra cosa che dovevo imparare ed ho imparato. Non sono partita senza dubbi o timori per "La Vuelta". Ho anche pensato di rimandare, di aspettare, è normale quando non ci si sente pronti. Poi ho deciso che sarei partita, avevo già aspettato troppo. Anche la famiglia mi ha aiutato in questo, parlandone a casa abbiamo trovato assieme il modo di affrontare questo periodo». A "La Vuelta", in FDJ-Suez, il ruolo di capitana era affidato a Evita Muzic, giovane, per le prime volte alle prese con questo compito, Cavalli si mette a disposizione, sceglie di aiutare, sulla strada e attraverso i consigli.

Il più importante? «Provarci sempre, perché nel ciclismo la fatica viene mascherata, nascosta. Guardi la tua avversaria e ti sembra stia benissimo, che sia incrollabile, invece spesso sta soffrendo, come e più di te. Se continui a provarci, prima o poi, diventa impossibile nascondere la fatica ed emergono i veri valori in campo». Ci viene spontaneo chiederle come faccia lei a mascherare la fatica, a fingere per ingannare le avversarie, lei sorride: «Bella domanda. Se ci fosse, lo direi, però non so fingere, questo è il problema. Se mi guardano in faccia, mentre sono in difficoltà, capiscono subito che quello può essere il momento giusto per attaccarmi. Per far fronte a questa situazione, ho imparato ad andare oltre il limite, a fare più fatica di quella che riuscirei a fare normalmente e a gestirla». Le è capitato ad inizio anno, in corsa, quando, scorgendo il suo stato di difficoltà, le avversarie hanno iniziato a cercare di metterla ulteriormente in crisi: «L'ho vissuta male, mi è sembrato un infierire, poi ho capito che dovevo accettare la situazione e la tranquillità di casa è stata un toccasana». Anche nella quotidianità, Cavalli si spinge sempre verso il meglio, racconta di non essere tranquilla se non mettendo il massimo in ogni situazione "però la vita di ogni giorno non pone le stesse situazioni del ciclismo, è diverso il confronto con i limiti. Credo sia anche una buona cosa, perché non penso sarebbe affrontabile una quotidianità simile a una gara di biciclette».

La Vuelta Femenina 2023 - 1st edition - Teams Presetation - 30/04/2023 - Marta Cavalli (ITA - FDJ - SUEZ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

A "La Vuelta" Marta Cavalli partecipava ad una riunione dopo ogni tappa: un modo per analizzare ciò che aveva funzionato, quel che non era andato come avrebbe voluto e possibili soluzioni. A forza di farlo, ha trovato in quelle riunioni gli spunti per reagire, per cambiare ciò che si poteva cambiare. «Del Tour dell’anno scorso si è già parlato tanto, ma per me quella caduta è un segno profondo. Non era prevedibile, è stato un fatto che mi ha messo in ginocchio in un momento in cui ero nel pieno controllo della situazione. Ovvio che di quella circostanza siano restati dei residui, soprattutto a livello mentale».

A giugno, prima del Giro d'Italia, ci saranno i Campionati Italiani, in palio una maglia tricolore a cui Marta Cavalli tiene molto. Perché l'ha già indossata, nel 2018, e perché da quando corre in FDJ-Suez, una squadra francese, avverte ancor di più l'importanza dell'essere campionessa nazionale: «Soprattutto perché, adesso come adesso, varrebbe più di qualsiasi classica. Un valore che non riesco nemmeno a descrivere, se non con quello che provo pensandoci». E per quella vittoria, Cavalli non ha alcun dubbio: «Devo ricercare qualcosa dentro di me, così otterrò la vittoria». Intanto il Giro d'Italia si avvicina, un appuntamento che, se vissuto bene, potrebbe essere di slancio verso il Tour de France di qualche settimana dopo. L'atleta di Cremona ci tiene molto ed il suo pensiero va subito ai tifosi: «Mi aspettano da tanto, al Giro potranno venire a cercarmi, a salutarmi più spesso. Potrà esserci la mia famiglia ad ogni tappa, gli amici. Il Giro è una corsa che sento mia, la più lunga corsa a tappe. Farò il massimo, anche se dirlo sembra scontato. Io farò il massimo davvero». A sfidarla, le rivali di sempre, in particolare due atlete su cui si sofferma e di cui teme la poliedricità: Demi Vollering e Annemiek van Vleuten. Ma, quando parla delle due olandesi, Cavalli, in realtà, pensa ad altro.

Giro d'Italia Donne 2022 - 33rd Edition - 4th stage Cesena - Cesena 120,9 km 04/07/2022 - Annemiek Van Vleuten (NED - Movistar Team)Marta Cavalli (ITA - FDJ Nouvelle-Aquitaine Futuroscope) - photo Massimo Fulgenzi/PMG Sport/SprintCyclingAgency©2022

Un pensiero che le fa cambiare la voce e la velocità con cui racconta, un pensiero che le piace: «Le persone ci immaginano come rivali in ogni circostanza. Non è sempre così. Non molti lo sanno, ma quest'anno molte atlete del gruppo sono venute a chiedermi come stavo, a salutarmi al mio rientro in gara. In tanti si sono preoccupati per me, ma, quando lo fa chi condivide i tuoi stessi problemi e le tue stesse giornate, cambia tutto. Ha un significato diverso. Demi Vollering è venuta a cercarmi dopo una sua vittoria: "Oggi mi sei piaciuta, sono contenta di rivederti a questi livelli". Anche van Vleuten mi ha cercato: "Manca poco, Marta. Forse al Giro..."». Già, davvero un bel pensiero prima di chiudere la telefonata.