Succede sempre così nel ciclismo. C’è l’attesa che per un attimo trasforma tutto in silenzio: lo conosciamo quel momento. Accade quando ti guardi dentro e cerchi una risposta. Che tu sia su una bici a patire il piacere del dolore, oppure a bordo strada ad aspettare i corridori appagati dalla sofferenza altrui: non è una forma di sadismo ma di empatia.
C’è il silenzio collettivo, di massa. Silenzio che ti tormenta e diventa bisbiglio, quasi un ronzio, prima di mutare, in un attimo, in quella sensazione che provano a descrivere nei film con una particolare tecnica legata al sonoro: è un frastuono, silenzioso tormento che si trasforma estasi. Non è ipercomunicazione che snatura il modo di essere, ma è il silenzio che ora si rumore assordante, è la festa che si riappropria di tutto, degli spazi e del tempo.

Succede così per ogni vittoria di Tadej Pogačar che, per un appassionato, è un piacere, una cosa-del-cuore. Ogni suo scatto supera la normale sofferenza, squarcia l’oblio, distrugge quell’attimo. Appaga. Probabilmente c’è una particolare parola in tedesco per spiegare tutto questo, beati loro che hanno la capacità di riassumere tutto in un termine. Forse ci sarà anche in sloveno, ma non la conosciamo: ci accontentiamo di vedere Tadej Pogačar attaccare, che sia sulle pietre del Fiandre, sul Poggio di Sanremo, sulle lunghe salite francesi o sui colli lombardi, non importa.
A ogni corsa ci sono le braccia dei tifosi che cercano di agguantarlo, quasi di strapparlo via dal suo cavallo-mezzo. Telefonini che volano in aria sbattuti lì in faccia ai corridori come innaturale prolunga del corpo umano. Bottiglie di vino, cappellini, maglie, bandiere. C’è chi ti domanda se corre ancora Battaglin o se Carapaz passerà in maglia rosa. C’è quella sua bici: Pogačar addomestica il mezzo per farne una parte di sé, pur nel suo essere gioviale sceso di sella, è un combattente delle due ruote, ve lo riuscireste a immaginare in un’altra maniera se non vincente, scattante in sella alla sua Colnago? Nato e cresciuto per fare questa cosa qua. Nulla di più.

Il cielo di questo ottobre 2023 è un giallastro paglierino e solo quando il gruppo ha superato il Passo di Ganda si inizia a fare più blu. In mezzo al bosco si fa il ritmo, si scandisce come un tam-tatum-tam-tatum. Il gruppo sembra una nave che risale l’Amazonas e in testa risuona la musica lirica di Enrico Caruso. C’è il sibilo delle catene ben oliate, c’è il ronzio delle radioline, lo stridere dei freni lo lasciamo alla temibile discesa giù dal Selvino dove sbagliare significa rischiare di fare un brutto volo. I rami degli alberi inneggiano all’arrivo di un autunno ancora leggermente sbiadito, a volte coprono gli sguardi dei corridori, altre sono una perfetta cornice a dei bizzarri e inquietanti quadri contemporanei creati dall’intelligenza artificiale. La stringa dice: “ciclista che scatta in salita e tutto intorno alberi, pittura contemporanea”. Le maglie UAE si nascondono come una tribù che ti osserva dietro le fronde, e poi come d’incanto attaccano. Davanti al gruppo, Quick Step e Jumbo Visma: fino a poche ora prima sembravano sul procinto di diventare una cosa sola, ma ora, in provincia di Bergamo, non fanno più prove generali sul futuro, piuttosto gettano in concreto sulla strada tutto quello che hanno. Da una parte si pensa di lottare per Evenepoel, Alaphilippe, perché no Van Wilder, ma d’improvviso è il momento di Bagioli. Dall’altra tutti uniti per Primoz Roglic alla sua ultima gara in giallonero, promesso sposo alla BORA-hansgrohe.
Ci prova Adam Yates su questo Passo di Ganda, il gemello allunga ed è solo l’anteprima sui nostri schermi. Un trailer dove si vede un uomo UAE fare l’andatura davanti. Quando si stacca Pogačar pensi: sogno o bluff? Non si capisce in verità: poiché rientra con un balzo non c’è tempo di perdersi in elucubrazioni. E quando riparte, ormai il gruppo si è già accartocciato su se stesso come una lattina piegata con la sola forza della telecinesi. Restano in pochi. Con loro Pogačar, oppure Tadej, oppure Pogi, ormai è diventata consuetudine chiamarlo con diversi nomi: a furia di vederlo entrare nelle nostre case tramite quelle sue azioni e la sua maglia bianca al Tour (che dall’anno prossimo non vestirà per sopraggiunti limiti di età, come vola il tempo!). Spinge forte con ogni parte del suo corpo, mentre chi gli sta dietro arranca, si attacca con ogni mezzo lecito alla sua bici. C’è di nuovo quell’attimo di calma su in cima. Lo riprendono. Sono ancora meno di quei pochi. Ci si guarda, di nuovo, ci si avvicina e ci si annusa come segugi che fanno tra di loro conoscenza. Uno sguardo tira l’altro, uno scatto, tira tu, sembrano dire i superstiti in testa. Poi parte di nuovo Pogačar. Dove non possono gambe che non sono certo le migliori della stagione, può l’astuzia.
Tadej Pogačar nel 2023 ha conquistato, giova ricordarlo: Giro delle Fiandre, Parigi Nizza, Amstel Gold Race, Freccia Vallone, podio al Tour e al Mondiale, soltanto due settimane dopo, eppure è arrivato a Il Lombardia con l’idea di vincere ancora. Nonostante il dolore che provoca la stanchezza.
Non è al meglio, non puoi umanamente essere al 100% dopo una stagione così, arrivato alla prima settimana di ottobre. Nemmeno al 90%, forse sarai intorno all’80%, ma giusto perché sei Pogačar. Non è al meglio, ma tra Passo di Ganda e Bergamo vola, squarcia quell’attesa sull’ultima salitella prima del traguardo.
Le braccia dei tifosi, quando la strada ricomincia a salire e allo striscione d’arrivo manca sempre di meno, non cercano più di strapparlo via, ma sono tese, il palmo spalancato per dare un cinque, una spinta, se possibile, dopo aver sofferto insieme a lui: pochi minuti prima di affrontare il Largo di Colle Aperto, infatti, a Pogačar vengono i crampi e alla corsa un sussulto, ai suoi tifosi algofobici, smarrimento.
Per un attimo le carte paiono potersi mescolare ridando un senso di incertezza a una gara che pareva già segnata soltanto pochi chilometri prima. Quel dolore passa. Quel silenzio si fa rumore. Pogačar gestisce. Citando Byung-Chul Han: «Non glorifico il dolore, tuttavia senza di esso la nostra esistenza sarebbe incompleta». Pogačar spezza quella gabbia, verso la libertà e oltre, verso il traguardo di Bergamo, verso il terzo Lombardia. Il primo accoppiato con il Fiandre, come Kuiper e van Looy, come nemmeno Merckx. Succede sempre così nel ciclismo. Ci si sbatte, si supera il dolore, poi quando vince Tadej Pogacar diventa una cosa-del-cuore.