La mattina, la prima ammiraglia è un indizio attesissimo, il primo corridore in sella una conferma: la corsa comincia da qui. Per un po’ l’andirivieni delle squadre dal foglio firma, la presunzione di serietà degli addetti ai lavori, le urla dei delegati alla sicurezza, gli occhiali a goccia dei procuratori e mille altre cose, beh, possono sembrare incomprensibili a chi le vive per la prima volta. Perché tutto questo?

Verso mezzogiorno, poi, le cose peggiorano. Il plotone di corridori prende il via e la gente accorsa alla partenza non sa più bene che fare. Da Venaria Reale qualcuno si è mosso disordinatamente verso Torino, altri hanno preferito decretare fi-ni-ta la propria esperienza col Giro. Se ne riparlerà quando torneranno da queste parti, forse. Alcune coppie di fidanzatini, magari, tanto che c’erano, hanno pure deciso di visitarla, sta Reggia di Venaria. Perché tutto questo?

Nel pomeriggio non ne parliamo. Decine di incroci chiusi, limitazioni e disagi, il regolare svolgersi della vita bruscamente interrotto. Padri si portano dietro figlie oppure figlie costringono i padri ad accompagnarle su una salita del Giro d’Italia, dove per ore si attende sotto il sole il passaggio di saltimbanchi in bicicletta. Con le loro povere bici salgono come possono, i professionisti sì che vanno forte. Non c’è dubbio, ma scegliere volontariamente di soffrire quasi quanto loro, di avvicinarsi a loro nel più logorante modo di passare il tempo, cioè l’ansimare di fatica, a me, chi lo fa fare? Di nuovo: perché tutto questo?

Sono più o meno 18 ore filate di Giro d’Italia che mi sono sparato in vena, quindi non sono nelle condizioni ideali per dare una risposta lucida. L’ho visto però – e come me tanti altri, tutti l’abbiamo visto – cos’è successo ieri a Torino. Una corsa magnifica, un vincitore annunciato che perde; una resistenza commovente di Narváez e Schachmann sull’ultimo dentello, una spavalderia bambinesca e splendente di Pellizzari; qualche possibile sorpresa che evapora (Arensman, Valentin Paret-Peintre) e qualche altra che prende forma (Uijtdebroeks, Baudin); un Nicola Conci che chi se lo sarebbe aspettato di ritrovarselo lì. Eppure che bello sarebbe, se vincesse.

E poi abbiamo visto le persone a bordo strada, radunate a migliaia in pochissimi metri quadrati. Tutte lì per avere le prove che anche questa volta un essere umano fuori dal comune sarebbe riuscito a piegare la realtà al proprio volere. Non c’è riuscito, ma il fatto che ci abbia provato fino all’ultimo, il fatto che abbia corso contro tutti e portandosi – almeno per una salitella da Liegi – il gruppo sulle spalle, ha descritto le fatiche di Ercole a migliaia di persone. Chi c’era si è sentito riempito, rinnovato nell’amore e nello stupore, un po’ più giovane e scemo forse. Un’ultima domanda, ora: avete mai visto gente più felice?