Marco Pantani conosceva la storia di Lucillo Lievore, gliela aveva raccontata Sergio Zavoli, mentre, durante un’intervista, il “Pirata” si accarezzava il pizzetto e, con la mano, si copriva la bocca, quasi per una lieve forma di imbarazzo. Lievore, “un corridorino di altri tempi”, quel giorno del 1966, si cimentò in una fuga solitaria di 187 chilometri, sotto il sole, “solo lui e la sua ombra”, sapendo che, in ogni caso, non sarebbe riuscito a vincere: davanti alla sua bicicletta, c’era, infatti, un altro atleta, ormai irraggiungibile. A Zavoli che, durante quella tappa gli aveva posto diverse domande, per poi fargli forza con un “È quasi finita. Coraggio, Lievore!”, ora non restava che chiedere un’ultima cosa: perché? Lucillo Lievore non aveva avuto molti dubbi: «Perchè, per quello che valgo, il secondo posto è come il primo e, poi, perché nella vita si arriva anche terzi, decimi, ventesimi, novantesimi e persino fuori tempo massimo». Marco Pantani, continuando a sfiorare il pizzetto e le labbra, aveva accennato solamente un amaro “sì”: l’annuire di chi, in qualche modo, si riconosce nelle parole. Parafrasando Raymond Carver ed il suo capolavoro “Di cosa parliamo quando parliamo di amore”, a noi verrebbe da dire che, in fondo, parliamo anche di questo, quando parliamo di amore. Nei confini di quella parola, oggi potremmo narrare di Gino Bartali, che non c’è più da ventiquattro anni, e di quel “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” che, alla fine, è una forma di affetto per la realtà, volerla cambiare, migliorare, cercare di farlo, perlomeno. In quel lemma sta la fuga “disperata” di Andrea Piccolo verso il santuario di Oropa, dapprima con un drappello di atleti, successivamente da solo: qualche tempo fa, ci ha confessato che, potendo tornare indietro, non cambierebbe nulla del proprio percorso, per il timore di allontanarsi dal luogo dov’è ora, nel gruppo dei professionisti, dove avrebbe voluto arrivasse presto il fratello maggiore, anch’egli ciclista. La sua fuga, con i dovuti paragoni, ha qualcosa in comune con quella di Lievore, come la fuga di chiunque nei giorni in cui tutti aspettano solo l’ineluttabile e l’ineluttabile di questo cinque maggio è Tadej Pogačar.

Laddove, poco prima, in realtà, venticinque anni fa, il 30 maggio 1999, c’era un salto di catena, accanto ad un cassonetto della spazzatura, oggi c’è una foratura, a poco più di undici chilometri dal traguardo, una caduta in curva e l’ammiraglia che frena a ridosso di quella bicicletta. Laddove c’era la pelata del ragazzo di Cesenatico e la maglia rosa, c’è il ciuffo, anzi i ciuffi, dal casco di Tadej Pogačar e la sua maglia bianca. Non si vedono gli occhi dello sloveno, quelli di Pantani li ricordiamo tutti, lambiti da un velo di qualcosa ben più profondo. Entrambi hanno dovuto recuperare: Pantani ne riprese e superò quarantanove, per Pogačar è andata diversamente, ma resta il fatto che all’inizio dell’ascesa non era più in gruppo, doveva prendere la rincorsa e ritornare sulle ruote. La sensazione che si prova quando un ciclista, in salita, “scatta nei denti” ai rivali, invece, si somiglia sempre: ha a che vedere con tutto quello che vorremmo ma non possiamo fare, avere, ha a che vedere con la felicità ed anche con la malinconia, con la tristezza, ha a che vedere con l’impossibilità di stare fermi, con un’ansietà piacevole che prende nel corpo e nella mente. Pogačar scatena questa percezione ai 4500 metri dal traguardo, nel tratto più duro della salita. Qualcosa che detona, che esplode e modifica la realtà, un big bang. Ci è tornato in mente quel che aveva scritto ieri: «Ora che il ghiaccio è rotto, si inizia a giocare davvero». Intendeva questo: voltarsi e vedere che O’Connor e Geraint Thomas non possono resistere. Forse qui c’è un piccolo residuo della giornata di ieri, quando non è riuscito a togliersi Narváez dalla ruota, nonostante gli attacchi.

La “curva Pantani” è a circa due chilometri e mezzo dal traguardo: la stessa esse impastata di romagnolo di Pantani, ragazzi che vengono dalla sua terra e che torneranno lì, perché all’alba sarà lunedì, sarà una settimana come tutte le altre. Se parliamo di amore, non possiamo scordare questa istantanea. Piadine, profumo di piadine e bandiere con il simbolo del pirata al vento. Vento nel vento, durante una rincorsa accanto a Tadej Pogačar, sui pedali, nuovamente seduto, sempre a spingere, con leggerezza e un sorriso a tratti accennato, il manifesto del suo ciclismo. Il Santuario di Oropa lo vede là, in fondo, in alto, dopo l’ultima curva, sulle pietre, al centro della strada. Marco Pantani non sapeva di essere il primo, lui sì, leva le mani al cielo. Batte il cuore, scalpita. Carver scriveva: «Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia». Ci è successo qualcosa di simile anni fa, ci è successo qualcosa di simile oggi. Perché si parla anche di tutto questo, quando si parla di amore.

Foto: SprintCyclingAgency