La festa

Era un appuntamento: c'era la data, c'era il luogo, mancava solo l'ora esatta in cui incontrarsi. Adesso quell'ora c'è: le sedici e diciotto minuti del 25 maggio 2024. L'istante in cui Rafal Majka, con la salivazione impazzita, si sposta e Tadej Pogačar, in un tempo rock, va incontro al Monte Grappa. Era un appuntamento, una promessa lasciata lì, detta ad alta voce, affinché chiunque potesse crederci. A lui il compito di mantenerla, perché, l'abbiamo già detto altre volte, per questo esistono le promesse, altrimenti si può scegliere il silenzio. Era una promessa, è stata una celebrazione, ovvero una festa, un'esaltazione comune. Con gli esseri umani che, sui tornanti del Monte Grappa, si passavano di mano questa felicità: da un metro all'altro, da un tornante all'altro, da sotto fino a sopra, dalla base alla vetta e dalla vetta di nuovo alla base, attraverso i prati ed i boschi, una voce che gira, rimbalza, quasi fosse l'eco di un grido a spaccare il cielo, di quelli che si fanno quando si scopre la montagna. Tadej Pogačar si sente nell'aria, scriviamo parafrasando altre parole, Tadej Pogačar si avverte, simile a quello che la luna fa sul mare, simile a quello che le feste fanno sulle persone. Lo sentivamo, lo sentivano tutti e aspettavano, meglio sarebbe dire aspettavamo, quel momento e misuravamo così la tappa oltre che attraverso i chilometri ed il tempo. Passando vicino ai camper, alle bandiere, agli striscioni, alle biciclette tenute per mano, agli zaini, ai caschi appoggiati per terra, ad altre biciclette accanto ai muretti, ai cappelli di paglia, alle sedie di plastica, agli ombrelloni, alle felpe legate in vita o appoggiate ad un cordolo, ai palloncini colorati, a qualche radio, a qualche fornelletto, a qualche birra ed a qualche costume buffo, sopra scritte e disegni. Lassù c'era tutto questo, c'era un piccolo mondo, ricostruito.

Non era necessario, è persino inutile dirlo, ma l'ha detto anche lui. Potremmo dire che le donne e gli uomini non fanno solo quel che è necessario, nemmeno gli atleti, altrimenti la poesia non avrebbe senso di esistere e sarebbe un gran peccato. Diciamo, anzi scriviamo, quel che ha detto lui: certo, non era necessario, a livello matematico, lo era per la propria persona, lo era per la squadra, per le altre persone, per chi lo aspettava. Perché anche le attese dovrebbero essere colmate e Tadej Pogačar ne è testimone. Mancavano trentasei chilometri all'arrivo, circa, quando è scattato e ha abbandonato tutti, spaccando ogni tattica, ogni attendismo. Ne mancavano poco meno quando ha raggiunto Giulio Pellizzari, autore di una prestazione da ricordare, esuberante come è un ventenne che può fare quel che ha sempre sognato. Lo ha raggiunto, lo ha affiancato: "Vieni con me", sembra gli abbia detto così, accompagnando il tutto con un gesto della mano. Non ha potuto seguirlo, Pellizzari; la sua andatura è stata insostenibile, ma se ne ricorderà. Si può fare anche ciò che, forse, non funzionerà, altrimenti sarebbe inutile, scontato.

Anche un bambino potrà raccontare di questo giorno: era in piedi, ai sedici chilometri dall'arrivo, in uno degli ultimi tratti in salita. Poco più in là, un "soigneur" di Pogačar, con una borraccia, pronto a passargliela. Quasi all'unisono, quel bambino inizia a correre, sul bordo della strada, accanto al campione e quel massaggiatore distende il braccio, a passare la borraccia. Tadej Pogačar afferra la borraccia dal massaggiatore, si volta verso il bambino e gliela regala. Si sente distintamente un "thanks", un grazie urlato. Quel bambino prende la borraccia fra due mani, come fa chi accoglie, chi abbraccia. I bambini se ne intendono di celebrazioni e attese, loro e quei compleanni che non arrivano mai, mentre per gli adulti corrono, volano. Qualche anno fa, dice lo sloveno, un gesto così avrebbe voluto riceverlo, forse si sarebbe messo a piangere, forse no, ma sicuramente se lo sarebbe ricordato. Allora si prova a fare quel che ci si sarebbe ricordati, quel che avrebbe fatto piacere a noi perché, in fondo, pur così diversi, gli esseri umani si somigliano tutti, hanno uno strato di sentimenti ed emozioni che è comune, così chissà che si possa davvero sapere come rendere felici gli altri, sereni almeno. Siamo rimasti tutti a osservare perché trasuda umanità e, alla fine, è l'essere umano la parte che più ci interessa del campione, sono queste piccole cose quelle in cui ci riconosciamo, quelle che permettono di dimenticarne tante altre che spesso occupano le giornate.

Torneremo lì, è inevitabile, ma non subito. Ora c'è Pogačar che ringrazia il pubblico mentre va verso il traguardo, l'aveva fatto anche in salita, per dire della lucidità, ma adesso è diverso. Ora c'è Pogačar che si inchina a spettacolo realizzato. Antonio Canova diceva che ciò che lo rendeva più impaziente era vedere l'effetto che l'opera produrrà sulle anime del pubblico. Con tutte le differenze del caso, anche i ciclisti hanno questa sensibilità e nelle feste si fa esattamente questo. Si lascia passare l'entusiasmo, lo si lascia scorrere, ci si lascia ispirare, magari, prima di ritornare alle faccende comuni.

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Le cinque montagne e Georg Steinhauser

Le cinque montagne: Passo Sella, Passo Rolle, Passo Gobbera, Passo Brocon e ancora Passo Brocon, da un altro versante. È l'ultimo mercoledì del Giro d'Italia e si sale e si scende di continuo, su strade dapprima asciutte, successivamente bagnate, luccicanti di fari di moto e di ammiraglie, quasi fossero giostre. Si sale sulle vette laddove le persone vanno a cercare altro, spesso a dimenticare, ad abbandonare ricordi e malinconie, laddove, invece, un ciclista può provare, in pochi minuti, ogni sensazione raddoppiata, aumentata, decuplicata: è l'intensità la differenza dei monti. In un dolore fisico che può paralizzare, abbandonare su una rampa con uno zig-zag da pugile all'angolo, senza nulla da dire, senza nulla da fare, oppure in una felicità delirante che può esaltare a tal punto da non sentire più male, da non ricordare, almeno per qualche istante, quante volte si è detestata quella strada che tira all'insù, quante volte si è detestato persino il proprio mestiere. La montagna, scriveva Paolo Cognetti, dove le persone di città chiamano tutto natura, in maniera totalmente astratta: invece ci sono rocce, pietre, sassi, torrenti, boschi, «cose che si possono indicare con il dito e che si possono usare», altrimenti non c’è nemmeno il nome, perché non serve, la montagna dove tutto è più forte, anche quello che il cielo rovescia sulle teste. Anche quello che non c'è più e che una tempesta ha sradicato dal cuore delle montagne. Erano alberi, corteccia e fronde, radici aggrappate alla terra. Ora restano i segni della tempesta Vaia, il vuoto, da sei anni, dal 2018. L'intensità è la chiave della montagna, quando si è in bicicletta, perché non c'è modo di non far succedere le cose, quando ci si arrampica.

Gli scalatori sono gente strana: così filiformi, a livello di corporatura, ma con il compito, il destino, di sopportare le fatiche peggiori, di sfidarle con aria sprezzante, di corrergli incontro. Ancora una volta parliamo di Giulio Pellizzari, che qualche giorno fa stava male, sarebbe andato a casa, invece è rimasto fra le storie della carovana e oggi ha attaccato sin da subito per andarsi a prendere qualcosa. Di certo ha conquistato la Cima Coppi di questo Giro, il Passo Sella, la vetta più alta: prendendo a schiaffi i muscoli in quella volata con Quintana, con il colpo di reni finale, forse una delle massime dimostrazioni di intensità quando si parla di biciclette. Domani ripartirà con la maglia blu, che appartiene, in realtà, a Pogačar, siamo convinti che proverà a farla propria, in ogni caso l'avrà addosso e quello che si porta addosso è forte, come le radici nella terra, la forza che si imprime alzandosi sui pedali, lo sfregio di una tempesta o di una caduta che porta via quello che hai addosso. Gli scalatori somigliano spesso all'erica carnea, una pianta così chiamata dal colore dei fiori, simili alla carne e mentre si scala si ricorda bene cos'è la carne.

Il Passo Brocon si chiama in questo modo, perché anche così si può chiamare l'erica carnea o almeno così la chiamano da queste parti e qui ce n'è molta. Sì, in montagna tutto ha un nome e un senso. Georg Steinhauser ha attaccato due volte oggi, la prima ad inizio frazione, poi nuovamente e la seconda volta, ora lo sappiamo, è stata quella giusta. Georg Steinhauser ha attaccato diverse volte in questo Giro d'Italia, al Mottolino è stato ripreso e superato da Pogačar, con una facilità imbarazzante. Oggi, sulla salita finale ha compiuto un rito che è noto agli scalatori: una sorta di spoliazione, per essere più leggero, per tenere solo quel che serve davvero. Dapprima si abbandonano i compagni di fuga, pur non volendo, ha detto così Steinhauser del ritmo che ha staccato Gebreigzabhier: non avrebbe voluto, non in quel punto, ma in montagna non si può fare altro. Allora l'ultimo sorso d'acqua, spremuto con gusto, con voglia, poi borraccia svuotata a terra, con rabbia, per abbandonare anche quei pochi grammi in più, via gli occhiali, via anche i guantini, aiutandosi con i denti: testa bassa, occhi sulla strada , pensieri attorcigliati, a tratti stupendi, a tratti amari, perché qui tutto è più grande, a parte il tempo: i secondi, anzi i minuti di vantaggio, sulle montagne, sono sempre pochi, proprio perché da un momento all'altro la luce può andarsene e nulla mette al sicuro.

Da quel turbinio di paure e sospiri, Steinhauser fuoriesce all'ultimo chilometro o, più precisamente, poco dopo, quando compulsa la radiolina, ride e dice qualcosa, forse solo "ho vinto io, ho vinto io". In quel momento ha la certezza che nessuno può riprenderlo, nemmeno Pogačar che dietro ha staccato ancora tutti, non andrà a superarlo, non questa volta, perché "se la meritava". La montagna è disarmata e disarmante, anche se fa male o fa bene. A Georg Steinhauser ha fatto bene: è la sua prima vittoria da professionista, alla terza settimana di Giro d'Italia, la prova di avere i numeri. Suo padre, ex corridore, era davanti alla televisione questo pomeriggio. Dietro al podio, prima di essere chiamato dallo speaker, Georg rifletteva in silenzio, se la portava dentro così quella felicità. Solo pochi istanti prima, aveva preso il volto tra le mani, strabuzzato gli occhi, spalancato la bocca, forse pure gridato. Le cinque montagne l'hanno lasciato così, perché anche la felicità quassù ha radici profonde.

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Tadej, Giulio e il fanciullino

Mentre le ammiraglie lasciavano Livigno e i corridori, al loro interno, osservavano il contorno delle montagne attraverso le gocce di acqua gelata che lo sfocavano, correndo sul vetro e poi precipitando a terra, fuori, ai bordi della strada, tra ombrelli e mantelline, tra cappelli e giubbotti, molte ragazze e molti ragazzi, giovani studenti, battevano le mani, scandivano le loro grida, mentre cercavano di intravedere qualunque dettaglio di quei ciclisti, dai finestrini che lasciavano enorme spazio all'immaginazione, perché si vedeva ben poco, si intuiva qualcosa, forse. La neve ed il freddo non lasciano altra scelta, ci si trasferisce in auto a Lasa, si riparte da lì, si percorrono gli ultimi 118 chilometri di corsa: i corridori sono stati sul palco firme, ora, però, non saliranno in sella, andranno via così. E quei ragazzi ancora ad esultare, levando le braccia, muovendo le mani e i piedi, avanzando nelle pozzanghere, regno del gioco, inzuppandosi le scarpe, qualche stivale, retrocedendo e tornando a scrutare: abbiamo ripensato a Giovanni Pascoli, abbiamo riletto qualche paragrafo in cui parlava del "fanciullino", quando scriveva che «è dentro noi [...] che non solo ha brividi, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono, sperano, godono, piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello». Al di fuori delle discussioni, legittime, che si sono fatte e si faranno, oggi ci piace concentrarci su quel "tinnulo squillo di campanello" in quei giovani, mentre fanno festa a quel c'è. È l'antica meraviglia.

Resterà fino a sera una giornata dai contorni grigi, nel cielo e nei prati, dall'aria fredda, dalle nuvole basse sulle cime dei monti, una di quelle giornate in cui lassù si potrebbero narrare storie di maghi e streghe, di incantesimi e magie e per qualche istante fingere di crederci, davanti a un camino in cui si è messo ad ardere l'ultimo pezzo di legna. È la giornata giusta per il "fanciullino", per ricordare che c'è, per svegliarlo. In Julian Alaphilippe, ad esempio: nel suo insistere sotto l'acqua, con un volto che, dapprima, è il solito, fatto di "panache" ed eleganza, poi si raggrinza per il freddo e la fatica, gli occhi si rimpiccioliscono, i denti si stringono, quasi a scaldare, come pietre, sembra possa crollare e mollare tutto in un attimo, invece va fino in fondo, esplora il limite, lo sfida, come si fa quando si è giovani, giovanissimi e non si rientra in casa quando un genitore chiama, mentre piove, ma ci si bagna fino all'ultimo centimetro di pelle, di vestito e si va avanti a sudare. Il fanciullino di Mirco Maestri, ancora all'attacco con il francese, dopo la tappa di Fano, è nello stupore: del primo sguardo quando Alaphilippe gli ha portato la propria maglia al bus, qualche giorno fa, nel non riuscire a credere di meritarsi di essere dov'è, di fare quello che fa, nel guardare al francese come un gigante e nell'abbracciarlo come un fratello. Diceva Pascoli che il fanciullino teme il buio ed alla luce sogna o sembra sognare: Maestri, detto Paperino, ha questi tratti.

A ben guardare il fanciullino di Tadej Pogačar è nella sua capacità di non prendersi troppo sul serio, pur prendendo tutto seriamente. Oggi avrebbe lasciato andare la fuga, ne era convinto, come ne era convinta la sua squadra, Movistar ha impresso il ritmo, ha riportato il gruppo a pochi secondi dalla fuga e lì non si è trattenuto. Sono tutti con manicotti e ogni genere di dispositivo preso dalla borsa del freddo, in gruppo: lui va su in maniche corte, fradicio, ma soave, senza smorfie, con uno sguardo sereno, di chi "a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta". Della pedalata si potrebbe scrivere molto o forse si è anche già scritto troppo: resta la facilità con cui fa ogni cosa, con cui supera gli avversari, i rivali, gli attaccanti di giornata, resta perché quante volte può capitarti di vederla in un corridore? Quando arriva alla ruota di Giulio Pellizzari pare tentennare qualche istante, si volta, riparte, ma continua a controllare la posizione del ventenne di San Severino Marche, quasi pensasse di aspettarlo, quasi volesse aspettarlo. La gioia, questa volta, alla quinta vittoria, assume la sembianza di un conto, sulle dita delle mani: felicità pura, distillata, che attraversa la realtà e pesa il valore di ogni gesto. Cinque vittorie, quante sono cinque vittorie? Non numericamente, ma quanto possono esaltare, quanto possono stupire o meravigliare? Quel calcolo coglie la grandezza di quello che sta facendo e la declina. L'album di figurine che riempivamo da bambini, contando quante figurine avevamo ed essendo orgogliosi di quel numero, per tutta la ricerca che ci era costato.

Giulio Pellizzari, ottimo secondo di tappa, lottando con Dani Martìnez, salutandolo nel tendone in cui gli atleti si cambiano, gli indicherà gli occhiali: "Posso?". Pare dire così. Lui li toglierà e glieli consegnerà. "Aspetta", con un gesto della mano: via anche la maglia rosa, dono anche quello. Anche Pellizzari lo osserva come un gigante, un mostro sacro, ma gli picchietta la mano sul casco, come con un coetaneo, perché questo sono, coetanei. Ragazzi in bicicletta. Nelle partite di calcio fra giovanissimi talvolta succede lo stesso, seppure nessuno di loro sia Pogacar e abbia la sua risonanza: è uno scambio. Quel "tinnulo squillo di campanello" sa benissimo di cosa parliamo. Basta un altro pezzo di legna nel camino quasi spento e il fanciullino resterà qui ancora qualche istante.

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Manifesto di Pogačar

Alle cinque, l'ora dei toreri, come scriveva qualcuno, Tadej Pogačar, sulle rampe del Mottolino, ha "matato" il gruppo, ha fatto esplodere, una volta di più, il Giro d'Italia: è il re, il re rosa. La semantica legata alla Spagna e ai tori non è casuale, perché esattamente trent'anni fa, esattamente alle cinque, Luis Ocaña finiva di vivere, dopo uno sparo, all'ora di pranzo, nella tenuta di Caupenne d'Armagnac. Preso a sputi e sassate dai francesi, quando era poco più che un bambino, per essere “lo spagnolo di Mont de Marsan", ripudiato dagli spagnoli, dalla Federazione Ciclistica, con la "colpa di essere comunista", era un figlio di nessuno: suo padre, un genitore autoritario, lo vide piangere solo una volta, con una maglia di campione spagnolo sul letto, divorato da un tumore allo stomaco e rimase fino alla fine dei suoi giorni convinto che quelle lacrime potessero essere di dolore fisico, rimase con il dubbio di non essere riuscito a farsi amare abbastanza, di non poter "appartenere" nemmeno alla sua famiglia. Ripudiato, rinnegato. Non sono paragoni, non sono confronti, non avrebbe alcun senso, ognuno ha la sua storia, questo è solo un ricordo. Tadej Pogačar, poco dopo le cinque di una domenica di maggio, su una strada stretta, meglio sarebbe dire su una rampa, appartiene, più che mai, al ciclismo e alla sua gente. L'appartenenza non è proprietà, non è possesso, non è bandiera da sventolare, confine da imprimere, l'appartenenza è la possibilità di riconoscersi in un gesto, di vedersi simili, magari, più spesso completamente diversi, eppure sentirsene attratti, andare in delirio, impazzire. Non si basta mai, Pogacar. Non basta mai. Avrebbe potuto controllare la corsa, attaccare negli ultimi chilometri, racimolare altri secondi: è scattato ai meno quattordici dal traguardo e, uno a uno, ha superato tutti coloro che gli erano davanti, quasi "mettesse la freccia" e proseguisse. Lasciava soli gli altri, restava solo lui: un punto minuscolo, rosa, in mezzo a una montagna avvolta nella neve e nel freddo che qui dorme.

Accade alla fine della seconda settimana del Giro d'Italia, accade nella tappa del Mortirolo, tra le altre cose. Anzi, «nella tappa del Mortirolo da Edolo», come sentiamo da giorni, non da Mazzo di Valtellina: sì, dal versante più "facile", tutto è relativo, ci mancherebbe, ma è davvero più facile. Pure il Mortirolo da Edolo "appartiene meno” alle persone del ciclismo o, se vogliamo, alle persone delle montagne del ciclismo. Ma le strade restano comunque, anche senza riconoscersi in nessuno, per le persone è diverso. Le persone delle montagne del ciclismo hanno un rapporto particolare con i monti: magari, durante l'anno, vanno altrove, magari è "gente di mare", ma, se arriva una corsa, non c'è gente migliore a cui chiedere informazioni, perché, quel giorno, la montagna la conoscono come il palmo della propria mano. Il Mortirolo, nome mortifero, come i briganti che vi bazzicavano e che gli hanno restituito, suo malgrado, l'appellativo di "Selva bella". Il Mortirolo che, oggi, non fa danni, li farà il Passo del Foscagno, dove lo sloveno innesca un'andatura velenosa, per cui l'unico antidoto è lasciare andare ed evitare che il veleno entri in circolo: veleno, oggi, è acido lattico.

C'erano Georg Steinhauser e Nairo Quintana in testa: il primo, con un cognome da filosofo, il secondo per cui non occorre presentazione. Forse, c'era una lieve malinconia quando notava che, ormai, non aspirava più ad essere la stella del ciclismo colombiano, in fondo, c'è sempre quando i tempi cambiano, forse c'era solo del sano realismo, obbligo a trentaquattro anni. Anche Quintana ha ricominciato a sentire di appartenere, di far parte: la bandiera colombiana che gli sventola davanti in salita è un dettaglio significativo. Ancor più significativo è il modo in cui conclude al secondo posto, superato da Pogačar, nella sua rincorsa, a 1900 metri dal traguardo: era importante resistere, ha resistito, è stato "il primo degli umani". È stato uno scalatore, come sempre, anche se gli anni sono passati e l'ultimo è stato più difficile di altri. In questa difficoltà ha voluto parlare poco, «per non ferire nessuno». Nessun commento, solo un fatto.

Gli indiani, si dice, in salita, parlando dei tifosi assiepati. Gli indiani sulla neve, con cappellini di lana e giubbotti, con tutto quel che serve per fare rumore al passaggio del "re": vicini al re mentre il re è vicino a loro, nel momento del suo sacrificio, perché la salita è salita, ma pieno di gioia. Tadej Pogačar è colui che si sente nel posto giusto, al momento giusto, così continua a completarsi, a crescere, a essere parte di un qualcosa più grande, ad avverare completamente la propria persona. Un'altra persona era al posto giusto, nel momento giusto, questo pomeriggio, un ragazzo, in salita, su una curva: lo stesso a cui Pogačar ha lasciato i guantini. Quel ragazzo saltava di felicità. Abbiamo detto tutto.


In ogni modo

Maglietta lievemente slacciata all'altezza del petto, segno di un caldo che inizia a stringere, di una sofferenza lieve, sapore della pedalata, una danza sui pedali che rimanda alla montagna perché sono i suoi uomini ad arrampicarsi in questo modo, a prendere queste movenze, la bicicletta, dall'alto, ondeggia, alleggerita del peso dello scalatore che si libra nell'aria: è l'immagine di Romain Bardet che si infila in una fuga che non è solo una fuga, è la ricerca del tempo perduto, un viaggio che è un sentimento e non soltanto un fatto, ci avrebbe suggerito Mario Soldati. Nairo Quintana e Julian Alaphilippe a scalpitare insieme al francese e ad altri undici uomini, dopo che il filo dei fuggitivi si è spezzato e ricongiunto più volte. Potrebbe essere solo un'illusione, con il senno di poi lo sarà, ma Romain Bardet, per quel che trasmette nel suo viaggio, inteso come parabola, in sella, merita che si guardi in quell'illusione come in un caleidoscopio e che ci si creda. È l'intensità la chiave per interpretare l'atleta di Brioude: lui che scrive e parla di tracce da lasciare in quel che si fa, prima delle vittorie o dell'esaltazione del campione e per confortare, dopo un dispiacere, crede nei pensieri sinceri, limpidi.
Si dispiace per il ritiro di Thibaut Pinot, per il suo ciclismo. Pensa e legge molto, Bardet, poi scrive come chi ha lasciato maturare quei pensieri: non serve un pezzo, non un racconto, ovunque restino le parole. Guarda lassù, dove c'è la vetta, perché c'è il traguardo e perché «è sempre bello», vuole rompere confini, allargare le possibilità, contemplare, scappare: una sorta di dichiarazione d'intenti. Non gli è servito per vincere quell'atto di solitudine, ma gli è servito ed è servito a noi, mentre il plotone si addentrava nel verde di alberi «simili a cani che ringhiano al cielo» e tutti aspettavano un solo uomo: Tadej Pogačar, maglia rosa, come i pantaloncini, i guanti, il casco, persino la scritta sulla bicicletta.

Il Corno Grande del Gran Sasso in alto, in fondo. Tadej Pogačar a ruota della sua squadra, gli altri a ruota di Tadej Pogačar, in attesa della mossa del fenomeno. Non è facile aspettare e non è facile nemmeno scattare, scappare, perché "quello lì" è in grado di prendere la ruota e partire in contropiede, lasciando sul posto chiunque, ribaltando la situazione e per un ciclista è una delle cose peggiori essere staccati mentre si sta attaccando, la frustrazione quando, all'improvviso, la bicicletta dell'attaccato va troppo più veloce, le sue gambe sono troppo più agili, la frequenza di pedalata superiore per riuscire a mettersi in scia. Valentin Paret-Peintre è l'unico fuggitivo rimasto in testa, mentre questi pensieri si addensano nelle menti, mentre Aurelien, suo fratello, perde contatto con il gruppo: cognome evocativo il loro, a sensazione ricorda una parete dipinta, una parete e un pittore, qui le pietre ci sono, i costoni di roccia ci sono, a Pietracamela, si notano ancora le pitture rupestri del maestro Guido Montauti. Non c'è posto migliore per tentare la sorte per uno con un cognome simile.

L'andatura dell'UAE sbarra la strada ad altre acrobazie fra le lettere, la strada sale, gli occhi cercano lo sloveno. A rompere lo stallo, è Antonio Tiberi, per ben due volte; non va lontano e non potrebbe andarci, ma in tre settimane di gara contano i segnali e questi sono bei segnali, per gli altri, certo, ma anche per la propria convinzione. Contano i segnali come conta la memoria, quella dei muscoli e degli sforzi compiuti: ieri una buona cronometro, oggi lì con i migliori, non un brutto modo per andare verso Napoli e, poi, verso il giorno di riposo di lunedì. Non è certamente una salita impossibile, ma faticano tutti, mentre la maglia rosa pare «con la pipa in bocca», come si dice in questi casi, a ruota di Rafal Majka. Si sposta giusto quando partono gli scatti, Majka, ma resta nei dintorni, fra gli altri. Rimonta il gruppetto stringendo i denti, con il suo solito ghigno sulle pendenze, regala gli ultimi metri di servizio, di fedeltà, di gregariato.
Nessuno poteva fare niente prima, nessuno può fare niente quando Pogačar lancia la sua "volata", ustionante, bruciante, tanto da dargli il tempo per voltarsi ed esultare con sollievo mentre la linea bianca non è ancora arrivata. Un altro modo di vincere, un altro modo per vincere. Un enigma complicato per i suoi avversari, come affrontare la polivalenza, quel che è multiforme, che gioca con la fatica. Il ciuffo dal casco non è più solo uno, da tempo ormai, «la Majella ed il Gran Sasso continuano il loro dialogo» quassù a Prati di Tivo, la carovana, intanto, si dirige verso sud.

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Supernova

Simile a una supernova è deflagrata la potenza in sella di Tadej Pogačar, nei 40 chilometri che uniscono Foligno a Perugia. Un'esplosione derivata dal contatto di forza, di aerodinamicità, di leggi della fisica, di delicati equilibri e polmoni forti così. Una miccia, una reazione, accesa dal desiderio, racchiuso nel grido dopo il traguardo: volontà che brucia, rinunce che accendono e scompigliano. Si dice che una supernova che esplode possa liberare, per brevi periodi, “l'energia” superiore a quella di una galassia, ma noi torniamo all'asfalto, alle nostre strade e alle nostre città, perché in quello scenario un ciclista sviluppa i propri muscoli, collauda una posizione all'apparenza impossibile da tenere per qualche chilometro, figuriamoci per quaranta, figuriamoci per 51 minuti e 44 secondi di sforzo, quello è il suo tempo. Sarebbe facile parlare di spazio, perché le biciclette assomigliano sempre più ad astronavi, per perfezione e studio, a qualcosa che sfidi lo spazio interstellare, come il tessuto che si portano addosso, una seconda pelle a cui sono state applicate matematica e fisica, calcoli e geometrie, per accrescere la velocità, per ridurre l'attrito con l'aria. Verrebbe facile, invece, restiamo agli uomini, alla macchina umana che fa cose bellissime, a quelle visiere in cui il mondo corre come un'impressione. Vince Pogačar e pone distacchi importanti sui suoi più diretti rivali per la classifica generale che, un poco, hanno la tentazione di guardarlo come un extraterrestre. Siamo convinti che in quelle gambe ci siano stati anche tutti gli scatti che, forse, aveva in mente, ma ha risparmiato, ha trattenuto. Ora li ha addosso Geraint Thomas che ha pagato due minuti.

E simile a una supernova è esplosa la bellezza di Filippo Ganna in sella. Qualcosa che ha a che vedere con l'architettura, che disegna lo spazio in cui scorre. Viene da pensare che Filippo Ganna e la bicicletta siano un corpo unico durante lo sforzo, perché traspare una facilità, una genuinità nello sforzo che è apparenza. Chiedete a Ganna la fatica che si fa, oppure limitatevi ad osservarlo al traguardo, svuotato, stanco. Il talento esce così: consuma chi lo mette in pista, mentre chi guarda ha la sensazione di essere trasportato altrove, in un futuro da fantascienza in cui tutte le logiche siano sovvertite e un uomo possa fare l'impossibile. No, c'è il vento, l'acido lattico, le giornate no, la paura, l'insoddisfazione, il tempo e lo spazio che divorano, mentre un ciclista, da solo, nei propri pensieri, divora l'asfalto, ci prova almeno. Per questo suscita meraviglia quel che è avvenuto, quel che avviene. Per questo Lorenzo Milesi, autore di un'ottima prova, tra l'altro, mentre osserva lo schermo in cui è replicata la prova in sella di Ganna, durante la salita, quando riprende e supera con apparente facilità avversari scattati prima di lui dalla pedana, sorride come si sorride quando ci si stupisce, quando si manifesta un fatto che, come esseri umani, fatichiamo a capire, ma ci piace. Anche se sappiamo che lo pagheremo, forse lo pagheremo anche caro: chi va più veloce, passa una posizione avanti, scarica secondi, forse minuti, sugli altri. Tuttavia di fronte a certe velocità, a certe perfezioni, non si riesce a non dire nulla, a non fare nulla. Vogliamo esserne partecipi, in un modo o nell'altro e ci sembra uno spreco poter guardare, solo guardare.

Guardare il padellone di Ganna, il modo in cui fa la barba alle curve. Guardare gli ultimi chilometri in salita di Tadej Pogačar, la sincronia perfetta tra il terreno su cui pedala ed il suo fisico, aumentando, controllando, la gestione dello sforzo, la mente sempre un pezzetto più avanti. Il suo predicato verbale è "migliorare". Dice che è sempre possibile migliorare e che la sua ricerca è per una comodità sempre maggiore in sella, durante lo sforzo, che pare un assurdo, ma assurdo non è. Come stranisce tutti l'insoddisfazione di Filippo Ganna dopo una prova che ha lasciato zitti, in silenzio, a chiedersi dove sarebbe arrivato nel suo giorno migliore. È un ciclista e un ciclista non conosce le stelle o la volta del cielo, conosce ogni sensazione del proprio corpo, conosce il proprio potenziale e vuole sentire di averlo raggiunto, pure se perde. Quella è la sua ricerca, l'unica possibile sopra il destriero che ha nome bicicletta. I calcoli per dare uno spazio al dominio di Pogačar continuano, è giusto così, qui ogni giorno si sa qualcosa di nuovo ed è un piacere questa curiosità. Come quando provavamo a fissare il sole, chissà perché, pur sapendo che era impossibile: «Fu solo accecato dalla luce, libero come un diavolo, un altro corridore nella notte, accecato dalla luce. Mamma mi diceva sempre di non guardare verso la luce del sole, ma mamma, è lì che c'è divertimento». Sì, Bruce Springsteen.

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«Vai e torna vincitore»

Stavamo solo cercando di tratteggiare una luce su una collina toscana, nei dintorni di Siena. Prendiamo in prestito le parole di Edward Hopper, nel suo caso parlò di una luce sul muro di una casa, noi abbiamo in mente il sole sulle "verdi terre" e un velo d'ombra, quello di una nuvola passeggera, poco più di un cirro, che disegna un contorno: simile agli alberi, con la luce che ne allunga le sagome, penetrando tra le fronde. Già, ma gli alberi hanno le loro radici profonde, corteccia e rami, una nuvola è il nulla, è vapore acqueo, disperso nel cielo, eppure quell'ombra resta sulla collina. In gruppo, invece, non c'è quiete, verso la salita di Volterra, perché la fuga non trova il suo spazio, la sua dimensione: è un'anima tormentata, senza pace, quella di chiunque voglia scappare dal gruppo, capace di farsi male, pur di riuscirci. Ci è tornata in mente una canzone di Gian Pieretti, sigla del Giro d'Italia sul finire degli anni novanta: «perché la tua presenza, malgrado passi il Giro, devo dire che mi manchi da morire» e qualche nota più in là «però, sinceramente, non me ne frega niente, fra poco passa il Giro e in casa solo io non ci resterò». È anche una scusa per gli amori perduti, il Giro. Sono necessari chilometri e chilometri, prima che in sette prendano qualche secondo, tra loro Julian Alaphilippe e Luke Plapp. Nel giorno degli sterrati: Giancarlo Brocci era un arbitro di calcio quando li scoprì, tra piloni, stradine, strettoie, un arbitro che non si lasciava sfuggire il minimo fallo ed il suo giudizio era insindacabile. Eppure pensava agli sterri, alla polvere. Da queste parti, a Siena, c'è il Palio ed al Palio, quando si benedicono i cavalli, si dice: «Vai e torna vincitore». Quasi una missione che mette i brividi a chi pronuncia quelle parole, a chi affida quel proposito. La visione e la missione di Plapp e Alaphilippe è simile.

Si alza una polvere bianca che pervade ogni cosa, quando le ruote smuovono la terra, a Vidritta. Non c'è nulla: polvere e campi, polvere e foglie, polvere e ciclisti. Ma c'è tutto, perché serve solo questo. In toscano, "fare il cencio" significa svenire, ma quel biancore che si solleva imbianca davvero tutto, compresa la pelle, il contorno degli occhi, i ciuffi di capelli fuori dal casco, le narici. Non è facile pedalare sugli sterrati, proprio perché non c'è nulla, non c'è l'asfalto: si soffre con quel poco che si ha. Plapp, a gennaio, dall'altra parte del mondo, in Australia, ha letteralmente "perso parte della sua pelle" in una caduta ed è andato all'arrivo, terminando ciò che aveva iniziato, la tappa, il proprio dovere. L'abbiamo osservato mentre faceva di tutto per andarsene, mentre allungava, aumentava il ritmo della pedalata, per poter vincere la tappa, prima ancora, perché i secondi non mentono, perché c'era la possibilità di prendere la maglia rosa. Dove c'erano le ferite, resta qualche cicatrice e lui corre ancora. Il primo dolore per Alaphilippe è forse nelle parole di quel professore che disse a suo padre: «Suo figlio non ha le capacità per frequentare un liceo e non ha nemmeno il fisico per una scuola di ciclismo. Iniziasse a lavorare invece di perdere tempo con gli amici». Un'etichetta, di quelle che si appiccicano alle scatole e agli scatoloni nei traslochi. Alaphilippe ne ha sentite tante di parole, ne ha sentiti tanti di giudizi, in particolare come le cose hanno iniziato a non andare più nel verso giusto ed il verso giusto per un campione è la vittoria. Attacca con rabbia, attacca con gusto, alla ricerca di una parte dispersa di cui ha bisogno. E corre ancora.

Con loro c'è Pelayo Sanchez, ventiquattro anni, di Tellego, in Spagna: Alaphilippe è il suo campione, si ispira a lui. Ad Asciano, in una curva, dopo un errore, Plapp si avvantaggia, Alaphilippe prova a rincorrerlo, da solo non ci riesce, scuote la testa, si mette alla ruota di Sanchez, rientrano così. Potrà raccontare di aver riportato Alaphilippe sul fuggitivo, potrà dirlo perché è vero. Non solo. Potrà raccontare anche che, a Rapolano Terme, in una volata a tre, l'ha fatto passare in seconda posizione, si è messo in terza, la migliore per lanciare una volata e, quando il francese è partito, gli ha prima preso la ruota, poi l'ha affiancato e superato, in vista del traguardo, pur se, nei pronostici, il più veloce era proprio Alaphilippe, il suo campione. Ha un volto giovane, Pelayo Sanchez. Giovani sono anche le sue parole, giovane è la sua felicità, che crescerà e cambierà con lui, ma questo giorno non se lo dimenticherà. Nemmeno Alaphilippe dimenticherà questo giovedì di maggio, Julian che ha anni ed esperienza in più di Sanchez, che ha già vinto tanto e che da tanto non vince, che poco fa ha perso una tappa che voleva, che ha bisogno di sentirsi di nuovo Alaphilippe, quello che la gente vede e sente ancora, ma che lui sta cercando. Tra Torre del Lago e Rapolano Terme, ha rimesso assieme qualche pezzo. Resta ancora un'ombra, ma stasera è più simile a una nuvola. Leggera.

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La fuga arriva

Il primo gesto della mattina, accanto alla ciclabile di Genova, dove qualche pedalatore può, per frazioni di secondo, tenersi al fianco del gruppo, nel tratto di trasferimento, e voltarsi incredulo, è uno di quei gesti che, al Giro d'Italia, si fanno spesso: cercare un numero, un dorsale, dall'alto, sulla schiena dei corridori e trovare il rispettivo nome. Si fa così in caso di cadute, si fa così quando qualcuno si allontana dal gruppo, in testa, in fuga, oppure in coda, stanco, affaticato. Sono ancora i primi giorni e la stanchezza non è nemmeno troppa, Fernando Gaviria dice che "non si è ancora così stanchi da non riuscire più ad avere la forza per ridere", che rende l'idea di quello che sono certi giorni lontani da casa, su quella bicicletta. Sono ancora le prime tappe, eppure Fabio Jakobsen sono già due giorni che, sulle rampe iniziali e dolci di una salita, cede, barcolla, si stacca, muove le spalle, deve inseguire, con qualche compagno di squadra lì davanti, ad aspettarlo: 144, il suo numero. È fra i primi a lasciare le ruote del gruppo e chissà cosa scatta nella mente di chi, proprio nelle giornate in cui è atteso, quelle dei velocisti, diviene il primo "pezzo" mancante del plotone. Se quell'idea arriva alla mente, le gambe si bloccano, diventano di ghiaccio, un pugno nello stomaco: il corpo, da macchina perfetta, diviene caos, nulla più combacia. Si cercano i numeri e, verso il Passo del Bracco, sarà perché le zone sono queste, sarà per l'assonanza con il Passo del Bocco, il fatto che il 108 non ci sia pesa di più. Eppure lo sapevamo, ma i ricordi seguono strade proprie. Ora Genova pare davvero avere la faccia di tutti i poveri diavoli conosciuti da Fabrizio de Andrè, nei suoi carruggi, degli esclusi, dei fiori che sbocciano dal letame, dei "senzadio". Ma si va avanti, via dalle prigioni, di Marco Polo e della malinconia, dell'assenza.

Si cercano ancora numeri: quando va in avanscoperta la prima fuga, quattro uomini, e ad ogni caduta. Non serve il dorsale per riconoscere Christophe Laporte, mentre frana a terra, è la maglia a svelarne l'identità. Un tombino, forse. Il momento più difficile non è quando si cade, in fondo, sono pochi secondi, nemmeno il tempo di capire. Il brutto è quando bisogna tornare in piedi e fare i conti con l'impatto. La forza di ridere può toglierla un corpo ammaccato, sfregato sull'asfalto: Laporte esplora le gambe, le spalle, tocca la schiena. All'inizio è solo paura, dolore improvviso, i punti in cui la pelle è andata via si scoprono piano, piano, dopo, al primo movimento. Diceva Fausto Coppi che il momento più esaltante per un ciclista non è nemmeno la vittoria, è la decisione. Sì, l'adrenalina della scelta: di scattare, anche solo di continuare pure se il traguardo è lontano. Hanno deciso Benjamin Thomas, Enzo Paleni, Michael Valgren e Andrea Pietrobon. Hanno deciso e sono partiti, quando la prima fuga era già stata riassorbita, annullata, da un'andatura forsennata della squadra di Kaden Groves, la Alpecin-Deceuninck, altra decisione che poteva essere sollievo, sarà rimorso, in ogni caso rinuncia a qualcosa.

Del resto, decidere vuol dire escludere almeno una possibilità, non vale solo per un ciclista. In fuga, in caccia: una di quelle scelte apparentemente assurde, quasi sempre, che, però, ci si ostina a compiere, contro la logica. In fondo raccontare della bicicletta è anche raccontare di tutto ciò che c'è di irrazionale nel suo equilibrio, nel suo piacere, nella sua fatica che fa la tana nei muscoli; perché? Perché sono gli esseri umani a scegliere e gli esseri umani sono fatti di tutto questo. Giacomo Puccini era di Lucca, la città d'arrivo, lui che prima «un poco traballando e molto serpeggiando procedeva autonomo» sul "bicicletto", dopo «riduceva i suoi compagni di viaggio come tanti peperoni, con rispetto parlando». Può essere che la musica e la bicicletta abbiano qualcosa in comune? Che la composizione di un'opera e una volata, una fuga, si somiglino? A noi vengono in mente le mani dei pianisti, mentre provano e riprovano, forse una parte di risposta è qui.

L'altra è in Andrea Pietrobon. Non solo o non tanto perché anche lui suona il pianoforte, soprattutto per quello che fa e per come lo spiega. Racconterà di essere letteralmente sfinito, senza forze nei chilometri finali, a ruota di quelli che, in gergo ciclistico, si definirebbero cagnacci. Assurdo non avere più le forze nell'attimo in cui puoi provare a vincere una tappa al Giro d'Italia, assurdo essere svuotati quando la fuga arriva e tu sei nella fuga. Assurdo, ma succede. Proprio perché non ha più nulla, Pietrobon parte, allunga, uno scatto, un lampo, all'interno dell'ultimo chilometro. Si crea spazio. Confesserà di aver pensato per qualche frazione di secondo che stava per vincere una tappa al Giro d'Italia. Dirà «è stato bello». Anche solo pensarci, avete capito bene. In caccia, lì dietro, c'è Benjamin Thomas, esperto di pista, di velodromi, fenomeno in quella ellissi dove non si può sbagliare il momento. Non lo sbaglia nemmeno su un rettilineo a cielo aperto, brucia Pietrobon e supera Valgren. Succede quando si sa che scegliere è più importante di farcela. Sognava questo momento, non lo immaginava. Ora che è successo, deve solo imparare a crederci.

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Non stare nella pelle

Nei giorni scorsi, i giornali locali scrivevano dell'arrivo delle mondine a Novara, negli anni cinquanta, per lavorare in risaia, mentre maggio volgeva al termine. Erano donne che partivano dall'Emilia, da Rio Saliceto, da Bibbiano o da San Polo d'Enza, si maritavano a Garbagna e in altri piccoli paesi della Bassa e lavoravano nei campi senza attrezzi agricoli, solo con le loro mani. Ne parlavano perché stamani, proprio da Novara, partiva la terza tappa del Giro d'Italia 2024 e quelle risaie, quelle del vercellese, sarebbero state per molti chilometri i vetri d'acqua in cui il gruppo allungato si rifletteva, in un labirinto di specchi a tratti riflettenti a tratti deformanti. Si arriva così ad una strada serpentesca e stretta che si arrampica, compressa tra muri, muretti, balconi, ringhiere e tettoie, sino a Lu, unico Gran Premio della Montagna di giornata. In quel frangente, dopo chilometri e chilometri di nulla, dal punto di vista agonistico si intende, provavano la fuga e la sorte Davide Ballerini e Liliane Calmejane e noi pensavamo che solo loro (e pochi altri) avrebbero potuto inventare qualcosa in una situazione così a mollo nella noia. Il primo con la sua stazza, la sua bellezza in bicicletta, quasi perfetto, il secondo "dinamitardo" di ogni situazione, corridore francese di carta d'identità e di spirito, d'anima. Del resto, Alfonso Gatto aveva ragione: a chiunque non sia capo di stato o di governo, generale o cardinale, non capiterà forse mai di ritrovarsi fra tanti uomini, donne e bambini a fare da ala ad un passaggio di pochi secondi, quasi un frammento di un film, quasi un inganno dal tanto è veloce. Non capita a nessuno, se non a chi non è temuto, ma solo invidiato perché così felice di correre dietro ad un sogno: i ciclisti. Verso Lu, quella gente, probabilmente anche per il vicolo che la ospitava, era davvero sempre più e spuntava in ogni dove, ovunque si volgesse lo sguardo. Anche Calmejane e Ballerini non se la sono sentita: hanno rallentato, fino a farsi riprendere.

Sì, pure chi vive la corsa come un cavallo pazzo ha giorni in cui non riesce a credere; talvolta per timore, altre solo perché, per quanto la si possa riempire di romanticismo, la fatica è inutile in certe circostanze. E la fatica di una giornata come oggi in fuga è davvero tanta: tra strade infinite e simili, solitudini e pensieri. Non solo fatica di gambe, anche di mente, di idee. Ma, in pomeriggi come questi, la follia diventa ordinaria e il sangue, da un momento all'altro, lascia la quiete stantia in cui circola ed inizia a zampillare, a saltare, a muoversi in mille peripezie. Dapprima l'improbabile, l'illogico: i velocisti che fuggono dal plotone in una giornata in cui proprio il gruppo è la casa, il fiume, con cui possono andare al traguardo e giocarsi la vittoria, in potenza e watt. Poi il gruppo che si sfalda, si sgrana, perde pezzi, sparso su lunghi viali, tra vento e qualche goccia di pioggia. Raschi sosteneva che il ciclismo fosse fatto per accettare solo coloro con lo stesso sangue: sì, altrimenti se ne esce pazzi, privi di comprensione in certi istanti. Tadej Pogačar ha lo stesso sangue del ciclismo, per questo si sente così a proprio agio su una bicicletta: è un genio, un altro cavallo pazzo, di razza, uno di quelli che «sentono l’ora del gran premio prima che arrivi, dalle vibrazioni del vento». Per questo fa la volata ad un traguardo volante, dietro a Ben Swift, davanti a Geraint Thomas. Il fatto che si continui a vederlo sulla testa del gruppo, pimpante, "allegro andante", potrebbe far presumere altri colpi di scena? Certo, soprattutto in una giornata in cui è già successo tutto ed il contrario di tutto. Risolviamo presto il dubbio con la constatazione che è buona regola correre davanti, per tutti e per la maglia rosa in particolare. Calmiamo in questo modo ogni pazza idea. Sbagliamo, ma dirlo ora è facile.
Avevamo parlato di un finale in cui si sarebbe potuto ballare, avevamo pensato ad un liscio, in quanto la strada, pur se in pendenza, non sarebbe stata un ostacolo per lo sviluppo della potenza di Jonathan Milan e degli altri velocisti.

Le immagini non mentono: è esattamente come sembrava. Non fosse che Mikkel Honoré accelera in testa al gruppo e a saltargli sulla ruota è lo sloveno, la maglia rosa: un lupo che ha affinato l'istinto e non può trattenersi. Non si accontenta di braccare il rivale, no, rilancia, in senso metaforico e anche fisico perché la forza dell'azione riprende vigore. All'ultimo chilometro, con qualche decina di metri sul treno dei velocisti, non c'è un giovane inesperto che non sa che il gruppo può divorare alla velocità in cui è lanciato, c'è Tadej Pogačar con alla ruota Geraint Thomas e la gente a bordo strada che impazzisce perché aspettava tutto, non questo, tra le vie di Fossano, dove i ragazzi vanno in bicicletta a scuola e qualche professore si prodiga affinché il numero delle biciclette cresca di anno in anno. Pogačar non sta nella pelle, questa è la realtà. Verrà ripreso e si alzerà sui pedali, accanto alla volata già innescata e vinta da Tim Merlier, su Jonathan Milan, per nemmeno molto. Merlier che tutti chiamano "il Mago", per la sua abilità, per la sua astuzia, per il suo talento. Non è magia, è ciclismo. Quella strana faccenda che risveglia la noia e la sconquassa, quando meno te lo aspetti.

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Quando si parla di amore...

Marco Pantani conosceva la storia di Lucillo Lievore, gliela aveva raccontata Sergio Zavoli, mentre, durante un'intervista, il "Pirata" si accarezzava il pizzetto e, con la mano, si copriva la bocca, quasi per una lieve forma di imbarazzo. Lievore, "un corridorino di altri tempi", quel giorno del 1966, si cimentò in una fuga solitaria di 187 chilometri, sotto il sole, "solo lui e la sua ombra", sapendo che, in ogni caso, non sarebbe riuscito a vincere: davanti alla sua bicicletta, c'era, infatti, un altro atleta, ormai irraggiungibile. A Zavoli che, durante quella tappa gli aveva posto diverse domande, per poi fargli forza con un "È quasi finita. Coraggio, Lievore!", ora non restava che chiedere un'ultima cosa: perché? Lucillo Lievore non aveva avuto molti dubbi: «Perchè, per quello che valgo, il secondo posto è come il primo e, poi, perché nella vita si arriva anche terzi, decimi, ventesimi, novantesimi e persino fuori tempo massimo». Marco Pantani, continuando a sfiorare il pizzetto e le labbra, aveva accennato solamente un amaro "sì": l'annuire di chi, in qualche modo, si riconosce nelle parole. Parafrasando Raymond Carver ed il suo capolavoro "Di cosa parliamo quando parliamo di amore", a noi verrebbe da dire che, in fondo, parliamo anche di questo, quando parliamo di amore. Nei confini di quella parola, oggi potremmo narrare di Gino Bartali, che non c'è più da ventiquattro anni, e di quel "L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare" che, alla fine, è una forma di affetto per la realtà, volerla cambiare, migliorare, cercare di farlo, perlomeno. In quel lemma sta la fuga "disperata" di Andrea Piccolo verso il santuario di Oropa, dapprima con un drappello di atleti, successivamente da solo: qualche tempo fa, ci ha confessato che, potendo tornare indietro, non cambierebbe nulla del proprio percorso, per il timore di allontanarsi dal luogo dov'è ora, nel gruppo dei professionisti, dove avrebbe voluto arrivasse presto il fratello maggiore, anch'egli ciclista. La sua fuga, con i dovuti paragoni, ha qualcosa in comune con quella di Lievore, come la fuga di chiunque nei giorni in cui tutti aspettano solo l'ineluttabile e l'ineluttabile di questo cinque maggio è Tadej Pogačar.

Laddove, poco prima, in realtà, venticinque anni fa, il 30 maggio 1999, c'era un salto di catena, accanto ad un cassonetto della spazzatura, oggi c'è una foratura, a poco più di undici chilometri dal traguardo, una caduta in curva e l'ammiraglia che frena a ridosso di quella bicicletta. Laddove c'era la pelata del ragazzo di Cesenatico e la maglia rosa, c'è il ciuffo, anzi i ciuffi, dal casco di Tadej Pogačar e la sua maglia bianca. Non si vedono gli occhi dello sloveno, quelli di Pantani li ricordiamo tutti, lambiti da un velo di qualcosa ben più profondo. Entrambi hanno dovuto recuperare: Pantani ne riprese e superò quarantanove, per Pogačar è andata diversamente, ma resta il fatto che all'inizio dell'ascesa non era più in gruppo, doveva prendere la rincorsa e ritornare sulle ruote. La sensazione che si prova quando un ciclista, in salita, "scatta nei denti" ai rivali, invece, si somiglia sempre: ha a che vedere con tutto quello che vorremmo ma non possiamo fare, avere, ha a che vedere con la felicità ed anche con la malinconia, con la tristezza, ha a che vedere con l'impossibilità di stare fermi, con un'ansietà piacevole che prende nel corpo e nella mente. Pogačar scatena questa percezione ai 4500 metri dal traguardo, nel tratto più duro della salita. Qualcosa che detona, che esplode e modifica la realtà, un big bang. Ci è tornato in mente quel che aveva scritto ieri: «Ora che il ghiaccio è rotto, si inizia a giocare davvero». Intendeva questo: voltarsi e vedere che O'Connor e Geraint Thomas non possono resistere. Forse qui c'è un piccolo residuo della giornata di ieri, quando non è riuscito a togliersi Narváez dalla ruota, nonostante gli attacchi.

La "curva Pantani" è a circa due chilometri e mezzo dal traguardo: la stessa esse impastata di romagnolo di Pantani, ragazzi che vengono dalla sua terra e che torneranno lì, perché all'alba sarà lunedì, sarà una settimana come tutte le altre. Se parliamo di amore, non possiamo scordare questa istantanea. Piadine, profumo di piadine e bandiere con il simbolo del pirata al vento. Vento nel vento, durante una rincorsa accanto a Tadej Pogačar, sui pedali, nuovamente seduto, sempre a spingere, con leggerezza e un sorriso a tratti accennato, il manifesto del suo ciclismo. Il Santuario di Oropa lo vede là, in fondo, in alto, dopo l'ultima curva, sulle pietre, al centro della strada. Marco Pantani non sapeva di essere il primo, lui sì, leva le mani al cielo. Batte il cuore, scalpita. Carver scriveva: «Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia». Ci è successo qualcosa di simile anni fa, ci è successo qualcosa di simile oggi. Perché si parla anche di tutto questo, quando si parla di amore.

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