Le cinque montagne: Passo Sella, Passo Rolle, Passo Gobbera, Passo Brocon e ancora Passo Brocon, da un altro versante. È l’ultimo mercoledì del Giro d’Italia e si sale e si scende di continuo, su strade dapprima asciutte, successivamente bagnate, luccicanti di fari di moto e di ammiraglie, quasi fossero giostre. Si sale sulle vette laddove le persone vanno a cercare altro, spesso a dimenticare, ad abbandonare ricordi e malinconie, laddove, invece, un ciclista può provare, in pochi minuti, ogni sensazione raddoppiata, aumentata, decuplicata: è l’intensità la differenza dei monti. In un dolore fisico che può paralizzare, abbandonare su una rampa con uno zig-zag da pugile all’angolo, senza nulla da dire, senza nulla da fare, oppure in una felicità delirante che può esaltare a tal punto da non sentire più male, da non ricordare, almeno per qualche istante, quante volte si è detestata quella strada che tira all’insù, quante volte si è detestato persino il proprio mestiere. La montagna, scriveva Paolo Cognetti, dove le persone di città chiamano tutto natura, in maniera totalmente astratta: invece ci sono rocce, pietre, sassi, torrenti, boschi, «cose che si possono indicare con il dito e che si possono usare», altrimenti non c’è nemmeno il nome, perché non serve, la montagna dove tutto è più forte, anche quello che il cielo rovescia sulle teste. Anche quello che non c’è più e che una tempesta ha sradicato dal cuore delle montagne. Erano alberi, corteccia e fronde, radici aggrappate alla terra. Ora restano i segni della tempesta Vaia, il vuoto, da sei anni, dal 2018. L’intensità è la chiave della montagna, quando si è in bicicletta, perché non c’è modo di non far succedere le cose, quando ci si arrampica.

Gli scalatori sono gente strana: così filiformi, a livello di corporatura, ma con il compito, il destino, di sopportare le fatiche peggiori, di sfidarle con aria sprezzante, di corrergli incontro. Ancora una volta parliamo di Giulio Pellizzari, che qualche giorno fa stava male, sarebbe andato a casa, invece è rimasto fra le storie della carovana e oggi ha attaccato sin da subito per andarsi a prendere qualcosa. Di certo ha conquistato la Cima Coppi di questo Giro, il Passo Sella, la vetta più alta: prendendo a schiaffi i muscoli in quella volata con Quintana, con il colpo di reni finale, forse una delle massime dimostrazioni di intensità quando si parla di biciclette. Domani ripartirà con la maglia blu, che appartiene, in realtà, a Pogačar, siamo convinti che proverà a farla propria, in ogni caso l’avrà addosso e quello che si porta addosso è forte, come le radici nella terra, la forza che si imprime alzandosi sui pedali, lo sfregio di una tempesta o di una caduta che porta via quello che hai addosso. Gli scalatori somigliano spesso all’erica carnea, una pianta così chiamata dal colore dei fiori, simili alla carne e mentre si scala si ricorda bene cos’è la carne.

Il Passo Brocon si chiama in questo modo, perché anche così si può chiamare l’erica carnea o almeno così la chiamano da queste parti e qui ce n’è molta. Sì, in montagna tutto ha un nome e un senso. Georg Steinhauser ha attaccato due volte oggi, la prima ad inizio frazione, poi nuovamente e la seconda volta, ora lo sappiamo, è stata quella giusta. Georg Steinhauser ha attaccato diverse volte in questo Giro d’Italia, al Mottolino è stato ripreso e superato da Pogačar, con una facilità imbarazzante. Oggi, sulla salita finale ha compiuto un rito che è noto agli scalatori: una sorta di spoliazione, per essere più leggero, per tenere solo quel che serve davvero. Dapprima si abbandonano i compagni di fuga, pur non volendo, ha detto così Steinhauser del ritmo che ha staccato Gebreigzabhier: non avrebbe voluto, non in quel punto, ma in montagna non si può fare altro. Allora l’ultimo sorso d’acqua, spremuto con gusto, con voglia, poi borraccia svuotata a terra, con rabbia, per abbandonare anche quei pochi grammi in più, via gli occhiali, via anche i guantini, aiutandosi con i denti: testa bassa, occhi sulla strada , pensieri attorcigliati, a tratti stupendi, a tratti amari, perché qui tutto è più grande, a parte il tempo: i secondi, anzi i minuti di vantaggio, sulle montagne, sono sempre pochi, proprio perché da un momento all’altro la luce può andarsene e nulla mette al sicuro.

Da quel turbinio di paure e sospiri, Steinhauser fuoriesce all’ultimo chilometro o, più precisamente, poco dopo, quando compulsa la radiolina, ride e dice qualcosa, forse solo “ho vinto io, ho vinto io”. In quel momento ha la certezza che nessuno può riprenderlo, nemmeno Pogačar che dietro ha staccato ancora tutti, non andrà a superarlo, non questa volta, perché “se la meritava”. La montagna è disarmata e disarmante, anche se fa male o fa bene. A Georg Steinhauser ha fatto bene: è la sua prima vittoria da professionista, alla terza settimana di Giro d’Italia, la prova di avere i numeri. Suo padre, ex corridore, era davanti alla televisione questo pomeriggio. Dietro al podio, prima di essere chiamato dallo speaker, Georg rifletteva in silenzio, se la portava dentro così quella felicità. Solo pochi istanti prima, aveva preso il volto tra le mani, strabuzzato gli occhi, spalancato la bocca, forse pure gridato. Le cinque montagne l’hanno lasciato così, perché anche la felicità quassù ha radici profonde.

Foto: SprintCyclingAgency