Marcovaldo, racconta Italo Calvino, attraversava la città sotto la pioggia a dirotto, curvo sul manubrio della sua bicicletta, avvolto in un impermeabile, «infagottato ed ingobbito»: sul portapacchi, una pianta che, presa a schiaffi dall’acqua, ogni volta in cui si voltava, pareva sempre «più alta e più fronzuta». Trafitte dalla pioggia di Torino, negli scorsi giorni, e chissà da quale cielo a fare da soffitto nelle prossime settimane, «le genti di tutta Italia, contadini, operai, lupi di mare, mamme, vecchi cadenti, paralitici, preti, mendicanti, ladri, schierati lungo quattromila chilometri, non erano – e non saranno – più gli stessi del giorno prima», per questo Dino Buzzati citava l’ultima città della fantasia, parlando del Giro d’Italia e di tutte le sue biciclette, assediata dalle forze del progresso. Accadrà per tre settimane e sarà un buon motivo per dimenticarsi di qualche dolore, di qualche preoccupazione: un sogno, ovvero «l’elusiva dote che ci fa ricchi per un’ora». Basta una maglia, verso Superga, per “fare più ricchi”, una maglia granata, con il numero dieci, a ricordo di quel volo del 1949 e del fato solo che vinse il Grande Torino, basta una maglia e la scritta Mazzola per mantenere vivo il sogno di un bambino: non durerà solo un’ora, molto di più, come senza fine sembravano i pomeriggi della prima infanzia al Giro d’Italia, in città anch’esse spropositatamente grandi per le nostre mani, le nostre gambe e le nostre prime biciclette. È il 4 maggio, da Venaria Reale scatta l’edizione numero 107 del Giro d’Italia, mentre la città ricorda quei calciatori con la maglia granata.

Jhonatan Narváez ha poco a che vedere con Marcovaldo, ma l’acqua ed il freddo li porta dentro, e l’unico soffitto che può permettersi il plotone multiforme, il cielo, lo conosce bene: lui, “la avioneta”, il piccolo aereo, come lo chiamano, è cresciuto ad alta quota e, nel 2020, quando vinse a Cesenatico, al Giro d’Italia, lo fece davvero in un giorno di acqua e autunno. Oggi, invece, a Torino, sullo strappo di San Vito c’è il sole e così tanta gente da scordare quale rumore faccia il silenzio. C’è il sole e Nicola Conci all’apice dello sforzo, più vicino alla sua prima vittoria in carriera. Allunga al massimo ogni fibra di muscolo, storce la bocca, percuote i polmoni, “tira” la bicicletta per portarla solo qualche metro più avanti. Lui non può vederlo, forse riesce ad intuirlo dall’andamento delle grida, delle urla, dell’entusiasmo che si espande, ma dietro, in testa al gruppo ormai sfilacciato, sta accadendo quello che non serviva una sfera di cristallo per presumere, per aspettare: Tadej Pogačar ha attaccato. L’assalto al Giro parte qui. Si potrebbe cedere allo sconforto di fronte alla sua superiorità di cui molto si è parlato in questi giorni di avvicinamento: si potrebbe se non si avesse l’indole di un ciclista o, anche, la giovinezza di Giulio Pellizzari, che ci ha provato, ha fatto bene, e ci riproverà perché è solo la prima delle ventuno tappe. Ha detto qualcosa di simile e sono parole che scuotono, a prescindere da come andrà. Romain Bardet e Thymen Arensman faticano: il primo pagherà quasi un minuto, il secondo più di due. È dura, il primo giorno, poi, ancora di più: solo loro sanno quel che veramente pensavano e sentivano stamani, forse qualche timore lo avevano, ma restano venti tappe e, ora che il timore è certezza, tornare in albergo è più difficile.

Tadej Pogačar continua l’assalto, gli resiste Narváez. Gli resiste e non sa nemmeno lui come: nei lunghi sospiri dopo il traguardo, ci sarà anche quello sforzo, la volontà di riprendersi il fiato che se ne era andato. Veloce, come ha imparato ad essere, riuscirà a superare in una volata a tre Schachmann e Pogačar, questo sì più difficile da immaginare. La prima maglia rosa sarà vestita sopra una maglia con i colori della sua terra, l’Ecuador, quella di campione nazionale, di cui ha più volte descritto l’energia. Non solo: ha anche scritto dei sogni, di tutte le illusioni con cui, per colpa loro, spesso ci si sveglia al mattino. Sostiene che non sia importante, perché i passi sbagliati sono solo le impronte che qualcun altro potrà seguire per farcela, nella propria vita. Fa piacere rileggerlo oggi, con la prima maglia rosa indossata, nel giorno in cui Imerio Massignan è andato via, un altro ciclista pieno di idee, di talento, di voglia, che ha ceduto spesso solo alla malasorte. Fa piacere leggerlo oggi, nel giorno che precede l’arrivo di Oropa dove, venticinque anni fa, un altro uomo ripartì dopo un salto di catena, riprese tutti coloro che gli erano davanti, li staccò e vinse. Era Marco Pantani. L’unico modo per tenere assieme tutte queste sensazioni, probabilmente, è la bicicletta, è il Giro d’Italia. Che adesso, mentre stiamo per mettere l’ultimo punto di questo pezzo, è davvero iniziato.