Natale in casa van Aert-van der Poel

Così come in foto ma nel ciclocross: van Aert contro van der Poel. Qui in azione ad Harelbeke, sull'asfalto, esattamente 8 mesi fa, affiancati: fra un mese li rivedremo (più o meno così) ma in mezzo al fango.
È vero, la stagione del CX ha già ripreso da un po'. C'è stata la trasferta a Fayetteville, Stati Uniti, per un assaggio del circuito che ospiterà i mondiali a fine gennaio; c'è quel folletto di Iserbyt che da settembre a oggi ne ha sbagliata una, massimo due. C'è stato il ritorno al successo dopo oltre un anno di Worst.
Ci sono gli azzurri che crescono bene sotto la nuova guida, ci sono volti nuovi e volti noti, rinascite e cedimenti, ma niente attira di più mediaticamente - ma non solo - dell'esordio stagionale dei due corridori in foto - ma certo non ci dimentichiamo che c'è anche Pidcock!
Così come in foto ma nel ciclocross, allora li aspettiamo, l'uno contro l'altro il giorno dopo Natale: rientreranno a dicembre entrambi, ma a Santo Stefano ci sarà il primo scontro diretto.
Se i loro programmi saranno confermati - e non dovrebbe essere altrimenti - saranno intanto cinque le sfide (le scriviamo per memorizzarle) a partire da Dendermonde (26 dicembre), passando per Diegem (29 dicembre), Loenhout (30 dicembre), Hulst (2 gennaio) ed Herentals, a casa van Aert, il 5 di gennaio.
Altro che Una Poltrona per Due o The Blues Brothers, altro che boxing day, o visite parenti, altro che panettoni e pandori: l'appuntamento per le vacanze di Natale sarà un nuovo capitolo della saga van Aert contro van der Poel.
Seduti sul divano con la pancia piena, oppure appena ritornati da un bel giro in bici per smaltire i bagordi natalizi sintonizziamoci per guardare come sgasano quei due. Jouissance: e chi vincerà poco importa.


Per essere un velocista: intervista ad Alberto Dainese

Alberto Dainese, 23 anni, nella prossima stagione al terzo anno tra i professionisti, ha un cruccio: quello della vittoria. «Mi do ancora due, tre anni per vincere, poi eventualmente capirò cosa fare, se andare a giocare a bocce oppure tirare le volate agli altri» ci racconta ironizzando su sé stesso, con disarmante sincerità. «Per un velocista conta solo la vittoria. Poco da girarci intorno». Secondo Dainese un velocista «con la v maiuscola è tale quando conquista almeno 6/7 corse all'anno» e lui che le braccia al cielo le ha alzato così poco di recente (ultimo successo a febbraio del 2020) si definisce «un "corridoretto velocino" al momento, nulla di più». Testuale.

Dainese passò professionista nel 2020 in maglia Sunweb (ora DSM) dopo aver conquistato, nel 2018, tra le altre corse, una tappa al Giro Under 23, e una, ottenuta in modo spettacolare, al Giro del Friuli, mentre chiudeva il 2019 conquistando la maglia da campione europeo sulle strade di Alkmaar - quel giorno sfruttò a meraviglia il lavoro di squadra e dimostrò che in quanto a punte di velocità nelle categoria giovanili aveva pochi rivali.

Fisico compatto, a metà tra le misure di Ewan (piccoletto) e quelle di Merlier (ben più alto) Dainese sin dagli esordi in bicicletta si era distinto per la capacità di andare a segno come un bomber di razza, diremmo, se fosse un calciatore. «Ma un conto è vincere nelle categorie giovanili un altro è fare il salto e confermarti da subito tra i professionisti. Il nostro sport è pieno di ragazzi che si perdono e la differenza tra le altre categorie è abissale. Personalmente sento di migliorare stagione dopo stagione, è vero, ma nel 2022 devo iniziare a raccogliere qualcosa».

Le prime due stagioni da professionista sono state complicate, lo scorso anno partì forte, vittoria in Australia all'Herald Sun Tour, podio alla Race Torquay, dietro Bennett e Nizzolo, poi vari intoppi tra cadute, corse cancellate per il Covid e via discorrendo.

Quest'anno la sua stagione è stata a due facce a tratti quasi paradossale con punte di accanimento. «La prima parte tutta a inseguire: le corse che dovevo fare da capitano sono saltate, quelle dove ero a disposizione del treno di Bol sono filate lisce e a giudicare da fuori pareva che fossi diventato l'ultimo o il penultimo uomo del velocista di punta. Poi, certo, non mi considero mica un fenomeno che non si mette a disposizione degli altri: per crescere, per essere un velocista serve fare anche quello». Ma lui giustamente si sente finalizzatore. È come, tornando alla metafora calcistica, se all'attaccante gli strappassimo dai piedi il pallone o gli vietassimo di calciare in porta.

Da agosto in poi le sue carte se l'è giocate (quasi) alla grande. «Dalla Vuelta tutta un'altra musica. È vero non ho vinto, ma per quello conta anche un po' di fortuna». Ha iniziato a prendere le misure e a battagliare con i migliori velocisti del World Tour. «Philipsen e Jakobsen sono fortissimi, difficili da superare ma anche solo da affiancare, ma quello che è veramente impressionante secondo me è Merlier. Mi ricorda il miglior Petacchi, ha una potenza e una rapidità senza eguali. Al momento lui è il velocista più forte del mondo, superiore anche a Ewan».

Dainese studia gli avversari, ma per essere un velocista sempre più forte quest'anno ha cambiato un po' il metodo di lavoro: «La prima stagione abbiamo puntato tutto sulle volate e sull'esplosività, ma poi si finiva di arrivare allo sprint senza energie. Quest'anno invece abbiamo impostato un lavoro più sulla resistenza e si sono visti i primi frutti». Fondamentale, dice, arrivare freschi al traguardo anche a costo di perdere il picco massimo di velocità: «D'altra parte la coperta per noi velocisti è sempre un po' corta»

Dainese ci spiega come ci si muove in gruppo a quelle velocità, con tutti quei rischi tra gomitate e spallate, ruote sfiorate e rischi assurdi, ci indica qualche trucco del mestiere, per essere un velocista, e che da fuori è impossibile conoscere. «Sì è vero, bisogna essere un po' matti, ma è anche divertente. Io gara dopo gara a furia di prendere bastonate nei denti sto imparando come ci si muove, sto acquisendo abilità e consapevolezza, ma anche guadagnando il rispetto dai miei avversari. Capita di trovarti a ruota di Ewan o Philipsen e se non sei nessuno magari ti becchi anche la spallata che ti sposta, ma se inizi a farti conoscere a suon di risultati allora ti lasciano lì a giocare le tue carte».

A chiudere Dainese, un po' Cavendish e un po' McEwen per il modo di stare in bici nelle volate, ci parla di un rammarico e di una speranza. Il dispiacere è legato al Giro del Veneto dove andò forte dimostrando di non essere solo quel velocista puro che credeva, ma di poter tenere duro anche su percorsi impegnativi. «È vero, ma ci sono anche un insieme di cose: intanto disputare un Grande Giro ti cambia il motore, ti dà brillantezza, ti permette di pedalare a certi ritmi e io aveva appena corso la Vuelta. Poi al Giro del Veneto il livello era alto sì, ma non certo quello del mondiale». Quel giorno tanto fecero le motivazioni. «Si arrivava letteralmente davanti a casa dei miei e c'erano anche gli amici a tifarmi. È stata una giornata indimenticabile. Peccato essere arrivati terzi».

Mentre la speranza appare scontata: «Ritornare a vincere, altrimenti che velocista sarei?».

 

 

 


Sul Giro d'Italia 2022

Ormai è passato più di qualche giorno (forse persino oltre una settimana) da quando il Giro d'Italia è stato presentato. Anzi "finito di presentare": che suona male, un po' strano. Strana presentazione perché divisa in puntate, inusuale, come se farne un racconto seriale desse un tono più contemporaneo all'evento o ne accresca maggiormente l'attesa.
A chi scrive, inizialmente ha creato solo più confusione che altro, per fortuna che c'era poi chi, contemporaneamente alle uscite, raccoglieva e metteva tutto assieme tappa per tappa e nel giusto ordine.
Tuttavia: primo episodio dedicato alle tre tappe ungheresi e dal titolo “Grande Partenza”; secondo episodio, quelle di pianura, “Volate” (oh-oh), poi quelle miste dal titolo “Tappe Mosse” (qui la fantasia si è sprecata), e a seguire “Tappe di Montagna” (ineccepibile).
A chiudere la presentazione della tappa finale “Grande Arrivo” con la cronometro di Verona che si chiuderà tra Piazza Bra e l'Arena come due anni e mezzo fa. Della brevità (contro il tempo) ne parleremo in seguito, ma se non altro sarà un finale estremamente scenografico e chissà che non sia di nuovo pieno di ecuadoriani come nel 2019, ma è prestissimo per parlarne.
Ora, invece, è tempo di dare un punto di vista veloce su come ci pare il percorso di questa edizione di Giro fermo restando che il Giro è sempre il Giro e, probabilmente, appassionerebbe anche se fossero 21 tappe di pianura - no, beh abbiamo esagerato, ma è per capirci: comunque vada la Corsa Rosa ci sta a cuore e non vediamo l'ora sia il 6 maggio, giorno fissato per la partenza - anzi “La Grande Partenza” - dall'Ungheria.
COSA CI PIACE - Le tappe mosse . Se chi scrive appartenesse alla generazione Z esclamerebbe (o forse in realtà lo ha fatto, ma in forma privata): “tanta roba!”. Sono la vera chicca della prossima edizione, una tappa più bella dell'altra: quella piemontese con arrivo a Torino sarà massacrante (un filino corta), quella friulana con arrivo a Castelmonte è ricca di trabocchetti (le discese mettono i brividi) e il Monte Colovrat è salita vera. Muri marchigiani e tappa calabro-lucana due gioiellini (e il chilometraggio è soddisfacente), arrivo a Napoli suggestivo. Saranno tappe insidiose per la classifica, che sorridono ai corridori da corse di un giorno (ma amaramente ci chiediamo: chi ci sarà fra i mammasantissima delle classiche dopo la campagna di Primavera?), saranno tappe che, sempre sulla carta ci potranno far divertire. Fuga all'arrivo e/o battaglia tra gli uomini di classifica ci penseremo a tempo debito.
Ci piace anche, e molto, la tappa con arrivo sul Blockhaus, ma soprattutto quella che termina sulla Marmolada. Forse ci vorrebbe qualche chilometro in più (anche 40, 50), ma l'arrivo sul Fedaia non teme confronti con nessun altro finale di nessuna corsa del mondo. Da Malga Ciapela in poi vengono le vertigini, male alle gambe e fioccano i ricordi.
E poi le cartine altimetriche del Giro restano sempre le migliori; sembra un fatto banale ma non è così. Realistiche, dettagliate, facilmente fruibili. Provate a controllare quelle del Tour (per altro quelle del 2022 ancora non ci sono) e a fare un'analisi basandovi su quelle e noterete la netta differenza.
COSA NON CI PIACE – Facile: 26 chilometri a cronometro sono pochissimi. Persino inspiegabili. Corsa sbilanciata e senza una vera crono lunga. Ma quanto erano belle le crono vallonate di 40/50 km di qualche stagione fa? E no, qui non si tratta di nostalgia anche se l'età avanza per tutti ed è più semplice rimpiangere e leggere il passato che rendersi conto del, e apprezzare il, presente.
Qui non c'entra la salvaguardia del, come si è letto in giro, “patrimonio Ganna”, qui si tratta di avere il dovere (sic) di arrivare almeno a 50/60 km di cronometro per rendere la corsa completa e meno sbilanciata. Per quale motivo dovrebbe essere meno spettacolare una crono lunga (o medio lunga?) rispetto a una crono di 9,2 km (la prima) e di 17,1 (!) , la seconda? Poi certo – e anche qui se ne parlerà a tempo debito – l'ago della bilancia, quello che sposterà ogni commento concreto sarà scoprire i nomi che si giocheranno la maglia rosa, oggi si commenta l'uscita delle tappe, non altro.
E la questione del chilometraggio è quella più calda: solo tre tappe sopra i 200 km (per altro appena sopra i 200 km) tra cui due piatte per velocisti e una messa pure di domenica, la prima domenica: certo non il miglior spot per tenere incollati in tv gli appassionati a inizio maggio. Diverso il discorso per noi malati della pedalata altrui: ce la guardiamo senza fiatare dal km 0, ci chiederanno perché ci facciamo così del male e il perché è sempre quello: il Giro è sempre il Giro e già facciamo il conto alla rovescia per quando inizierà (da oggi dovrebbero essere 168 giorni!).


Fino a dove potrà arrivare Tom Pidcock?

C'è qualcosa che, osservando Tom Pidcock, balza subito agli occhi. Non è la statura, né quella potenza di pedalata che, proprio perché espressa da quello che pare un corpicino, Viktor Šklovskij avrebbe definito "ostranenie" straniante, ovvero quel processo narrativo capace di "fare uscire il lettore (o l'osservatore) dall'automatismo della percezione". No quello che colpisce subito di Tom Pidcock è, molto più semplicemente, il talento.
Già, il talento, quella particolare caratteristica che pare quasi possa aiutarci a leggere il futuro di una persona. Quel "dono" che, se non viene coltivato, non può dare buoni frutti. Quel tratto peculiare che siamo soliti - anche al di fuori del mondo dello sport - ad associare a grandi artisti, a menti illuminate e geniali.
Il talento in Pidcock più che una forma d'arte appare legato ai parametri della consistenza. Più che una pennellata d'artista si infila nella categoria dello sforzo disumano. Da quando è giovane, Pidcock spinge oltre ogni limite per ridurre ogni margine alla ricerca del massimo risultato, e a fare la differenza, sentendo colleghi, ex compagni o tecnici, sono testa e ambizione: scintille che accendono e illuminano il suo talento.
"La potenza è nulla senza controllo" reclamava un tempo un famoso spot pubblicitario: assioma così banale ma quanto efficace nel voler descrivere i passi che Tom Pidcock, da Leeds, sta muovendo nel ciclismo.
Quando lo abbiamo osservato da ragazzo, in lui vedevamo questo piccoletto, forte, sì, tenace, è vero, ma fisicamente forse non del tutto pronto a fare quel salto di qualità che in una stagione come quella appena trascorsa, ha dato modo di vedere.
Ma quei margini sono stati ridotti: 3° al mondiale di Harrogate nel 2019 su strada, nel giardino di casa, tra gli Under 23, si diceva: "ottimo corridore per carità, ma deve farne ancora di strada"... eppure.
Lo stesso si diceva nel ciclocross: a livello giovanile raccoglieva di tutto un po': "ma vedrete quando arriverà tra i grandi sarà tutta un'altra cosa". E invece in poco tempo si è ritagliato lo spazio necessario per far parlare di sé, magari non alla pari, ma di sicuro subito dietro van Aert e van der Poel.
Dopo la prima stagione su strada i suoi risultati dicono tanto di talento e ambizione: 1° alla Freccia del Brabante, 2° all'Amstel battuto in un fotofinish che se visto dal suo punto di vista grida vendetta, 3° alla Kuurne-Brussel-Kuurne, 5° alla Strade Bianche, 6° al Mondiale (dove arriva dopo aver patito le pene alla Vuelta, comunque conclusa), 15° alla Sanremo, la sua prima volta in una monumento, la sua terza volta in una gara oltre i 200 km. Tutto questo a 22 anni.
Abbiamo voluto solo sottolineare quello che Pidcock ha già mostrato in 37 giorni di gara su strada in maglia Ineos, lasciando, volutamente ai margini, quello che il ragazzo è capace di fare nel ciclocross e in mountain bike. Perché il suo 2021 ha significato titolo olimpico nelle ruote grasse, bronzo mondiale nel ciclocross finendo nella stessa foto sul podio con Wout van Aert e van der Poel che Pidcock, abile nel muoversi anche fuori dalla bici, descrive così: «Conosco poco entrambi, ma di sicuro Mathieu è uno che se non vince non è felice, van Aert invece sa bene quello che può fare e difficilmente nei giorni in cui sta bene non mette a segno il colpo».
Pensa, Pidcock, parlando appunto di cross, che per restare nella storia dovrà conquistare un campionato del mondo, ma è consapevole in quel caso di dover battere quei due a cui inevitabilmente si ispira.
Ma se nel cross i limiti sono ben definiti da avversari e peculiarità della disciplina è su strada che ci chiediamo dove potrà arrivare. Ha vinto, tra gli jr, la Parigi-Roubaix, bissandola poi tra gli Under 23: potrà essere il primo nella storia a completare una storica tripletta vincendola anche tra gli élite? Secondo noi sì, basta avere un po' di pazienza. Ha vinto, tra gli Under 23, il Giro: su di lui si è pronti a scommettere che prima o poi ci proverà anche tra i grandi nei Grandi Giri nonostante la concorrenza attuale sposti decisamente verso l'alto l'asticella della competitività.
Veloce al termine di corse impegnative tanto da giocarsela persino con uno come van Aert, resistente, intelligente nel modo di correre, le grandi classiche di un giorno le può vincere tutte (o quasi) e non sono molti altri quelli che se lo potrebbero permettere - van Aert, van der Poel, Alaphilippe, Pogačar. E poi?
La Ineos oltretutto sta costruendo attorno a lui un piccolo clan di giovani britannici che negli anni lo supporteranno in tutte quelle che sono le sue idee assecondandone le scelte, accompagnandone la crescita.
E allora fino a dove potrà spingersi Tom Pidcock? Se i limiti sono quelli del suo talento, allora significa davvero molto in alto.


Di riforme e futuro sulla strada: intervista a Giovanni Visconti

Giovanni Visconti ha le idee chiare in merito alla recente riforma del Codice della Strada: «Sento dire che è ancora tutto uguale a prima, non è vero, si sbagliano. È peggio di prima, molto peggio. Ogni giorno si continua a morire sulle nostre strade, eppure si sceglie ancora una volta di non fare nulla. Restare immobili di fronte a una situazione di questo tipo è terribile». Il siciliano ammette pochi minuti dopo che, purtroppo anche in lui, si sta facendo strada la rassegnazione. «È sbagliato, lo so bene. È sbagliato perché ci sono persone che su quella strada hanno perso figli, genitori, fratelli. In quella rassegnazione di cui ti parlo c'è tutto il dolore e la rabbia per l'immobilismo di fronte a queste situazioni. C'è chi continua a lottare per una strada più giusta dopo la perdita di un figlio e chi, potendo cambiare, fa altre scelte, si pone altre priorità. Alla fine, ti rassegni perché fa male».

Nella riforma non si parla di zona 30 in città, non si parla di distanza minima vitale per il sorpasso di un ciclista oppure di ritiro della patente per l'uso del cellulare alla guida. Visconti ha qualcosa da aggiungere: «Di queste cose non si dice nulla, ma anche delle cose di cui si parla, si parla a vuoto. A me sembrano norme vuote, che, alla fine, non porteranno nulla, non saranno applicate. Faccio una domanda: si parla di sanzioni per l'uso di tablet alla guida ed è giusto. A parte il fatto che trovo assurdo che la sospensione scatti alla seconda violazione nel corso di un biennio, vorrei capire quante multe si fanno ad oggi per l'uso del cellulare alla guida, situazione già normata. Mi sembra che si punisca troppo tardi. Magari dopo incidenti gravi. Vedo ogni giorno persone che usano il cellulare in auto. Le persone continuano a usare il cellulare in auto perché non sono attente, perché non capiscono ma anche perché non hanno abbastanza timore della sanzione. Dovrebbe bastare il buon senso e il rispetto degli altri utenti della strada, ove non basta servono più controlli e più sanzioni. Sia chiaro, vale anche per noi ciclisti. Perché non si passa col rosso, non si sta appaiati in mezzo alla strada, non ci si distrae. Personalmente richiamo sempre all'attenzione i ciclisti che pedalano con me».

Discorso simile, Giovanni Visconti lo apporta quando si parla del metro e mezzo di distanza. «L'iniziativa dei cartelli è lodevole ma senza controlli, senza sanzioni non andiamo da nessuna parte. Mettere cartelli e ignorarli è un'ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di padri come Marco Cavorso che non rivedrà più suo figlio. La sensazione di non essere considerati come ciclisti l'abbiamo ogni giorno. L'altro pomeriggio, in una galleria, al buio, un camion, a velocità elevata, mi ha fatto il pelo. Una volta mi sarei arrabbiato, l'avrei mandato a quel paese. Oggi ringrazio solo di tornare a casa senza essermi fatto male». Il punto è sempre lo stesso, la strada è un luogo sempre più caotico, dove si scatena il nervosismo di ognuno. Visconti ha posto una regola a tutti coloro che escono ad allenarsi con lui: «Non voglio vedere persone che urlano o mandano a quel paese l'automobilista, il camionista o l'incivile di turno. Non voglio vederle perché tanto così non cambiamo nulla e anzi accresciamo solo quella rabbia che si vive in strada, oltre a rischiare che, di parola in parola, poi ci si metta a litigare e ci si faccia ancora più male». Certo questo non vuol dire che vada tutto bene e che si debba continuare così. «Perché non c'è una pubblicità in televisione che parli di questo? Magari alla sera mentre tutti si è sul divano. Che faccia riflettere su questo tema. Perché nelle scuole non c'è un'ora di educazione stradale? Non credo sia impossibile inserirla fra le materie».

Il ciclista della Bardiani Csf-Faizanè è completamente sfiduciato rispetto alla propria generazione, crede invece nelle generazioni future. «Noi non cambiamo più. I bambini invece assorbono tutto e non devono captare questi comportamenti. Sono loro a dirci che non si usa il cellulare in auto, che non si gettano le carte per strada, a correggere i comportamenti sbagliati che portiamo avanti da anni. Parliamo di questo nelle scuole, se vogliamo avere una strada diversa».

Qualche tempo fa, il figlio di Giovanni gli ha confessato di avere paura quando lo vede uscire per gli allenamenti. «Cosa puoi rispondere? Ha ragione. Se si pensa che io stesso, ciclista, ho paura a farlo andare in bicicletta con gli amici, ci si rende conto dell'assurdità della situazione. È triste perché la bicicletta è una delle più grandi scoperte per tutti i bambini». Anche questo, per Visconti è un discorso di cultura. «L'altro giorno ho rimproverato mio figlio: gli chiedo sempre di mettere il casco, ho visto che lo aveva ma sul manubrio, non in testa. Mi ha detto di non averlo indossato perché altrimenti gli altri bambini lo prendono in giro. Non è colpa dei bambini ma dei genitori: tutti ci fidiamo dei nostri figli, il casco serve per proteggerli dai comportamenti errati altrui, perché lo facciamo percepire come un di più?».

E si ritorna alla capacità di percepire le esigenze altrui. «Ogni volta che parlo di questi temi ho la netta sensazione che sarò ascoltato e compreso solo da ciclisti che vivono le stesse problematiche, come se agli altri non interessasse. È grave. Purtroppo, quando senti parlare di riforme e poi leggi queste cose, la percezione si amplia».


Tim Declercq, studente fuori corso

Le ultime settimane di Tim Declercq potrebbero far venire in mente la storia di Enrico Fiabeschi, personaggio creato da Andrea Pazienza, o di qualsiasi altro (celebre) studente fuori corso. Poche giorni fa infatti Tim, che noi abbiamo imparato ad apprezzare per essere "El Tractor" colui che prende in mano il gruppo e pare non mollarlo mai, si è laureato dopo «14 anni. Sia io che i miei genitori pensavamo potesse rimanere soltanto un sogno». Laurea con un master in educazione fisica, training option e coaching. «Era arrivato il tempo che mi muovessi un po' per farlo: ho iniziato questo corso prima ancora di sapere se mai sarei diventato un corridore professionista».

E fa sorridere pensare a De Clercq magari un po' impigrito e ingobbito sui libri dopo aver tirato il gruppo 200 km a corsa: perché quante volte lo abbiamo raccontato? Accendi la tv e l'unica sicurezza che c'è al mondo è quella di vedere prima o poi la sua sagoma, infinita come quella di una cisterna di birra nei sogni di un assetato, davanti a tirare. E quando lo fa non smette mai.
«La mia fortuna - racconta il 32enne belga di Leuven, campione nazionale tra gli Under 23 nel 2011 ma che in carriera deve ancora vincere la sua prima corsa tra i professionisti - è stata quella di aver presentato la parte pratica degli esami lavorando su uno studio fatto sui diversi ruoli e sulle diverse prestazioni dei miei compagni di squadra». Viene spontaneo chiedersi quanto i rapporti prestazionali studiati siano stati influenzati dalle menate di cui si rende protagonista in testa al gruppo. O chissà magari facevano proprio parte dei suoi test.

Ha avuto tempo, De Clercq, di raccontare una stagione che lo ha visto protagonista in prima persona dei maggiori successi di squadra. «Il momento più bello è stato il Fiandre: non c'è migliore soddisfazione di vedere i tuoi compagni che vincono e poi ti ringraziano per quello che hai fatto». Al Tour Declercq è stato vittima di una brutta caduta; ha sofferto come soffre solo chi cade e si fa male e poi è costretto a rialzarsi e continuare, e non c'è sole a picco, pioggia, montagna che possa mandarti a casa, «ma l'obiettivo di aiutare Cav a chiudere a Parigi in maglia verde lo abbiamo portato a casa». Mentre per l'anno prossimo, dopo aver appena disputato «e sofferto come una bestia, non riuscivo nemmeno stare seduto in sella» una Parigi Roubaix sotto la pioggia, spera che l'Inferno del Nord si possa di nuovo correre in primavera «e che gli dei del tempo siano clementi».

Di lui un giornalista belga scrisse anni fa: "Quando Declercq accelera, pare una vecchia lumaca". Lui che c'ha messo 14 anni per laurearsi, non si scompone e rilancia. «Una vittoria personale sarebbe bella, ma se c'è una volata di sette corridori arrivo ottavo: il mio obiettivo principale resta quello di lavorare per la mia squadra». Un lavoro sporco che da oggi farà come laureato.


Il mestiere di pedalare

Il 6 ottobre del 2021 William Bonnet ha smesso di pedalare in gruppo. «Non del tutto però: prima di finire la stagione sarò impegnato ancora in due gare di ciclocross, una per fare un favore al mio amico Minard, una in memoria di Coyot (ex professionista francese morto in un incidente stradale nel 2013 NdA)» aggiunge, poi, in un'intervista rilasciata sul sito ufficiale della sua squadra, la Groupama-FDJ, di fare schifo con la bici fuoristrada e che una volta appesa davvero la bici al chiodo, la userà solo per farsi ogni tanto un giro con gli amici.

Non ha rimpianti William Bonnet, 39 anni, 17 anni da professionista, poche vittorie ma niente male: l'ultima della sua carriera alla Parigi-Nizza, 11 anni fa che è un'epoca fa, e Bonnet, fisico da granatiere, spunto veloce, superò sul traguardo un ventenne Peter Sagan. Erano esattamente i giorni in cui Sagan si rivelò al mondo - e difatti Sagan vinse due delle tre tappe successive e furono le prime due vittorie da professionista. Ma quelli erano anche i giorni in cui Bonnet iniziava a trasformarsi: da uomo veloce a uomo squadra, affidabile regista in corsa a cui gli affideresti persino il tuo cuore. Cosa che nella sua squadra faranno.

Il tempo corre via veloce e non ha rimpianti, Bonnet, anche perché di recente non si sentiva più competitivo: «Alla fine della scorsa stagione mi sentivo ancora in grado di dare ancora il mio contributo, ma adesso no e va bene così. Ho dato tutto, ho 39 anni e il mio fisico non risponde più come vorrei». Non ha paura del vuoto, di quello che sarà, e anzi subito dopo il traguardo della sua ultima corsa si è come liberato di un macigno iniziando a restituire le sue cose alla squadra. «Mi concentrerò più sul futuro che sul passato».

William Bonnet ha sempre avuto l'inflessione da poliglotta della bici, la mania del tuttofare: non potrebbe mai aver rimpianti uno che è stato capitano prima, dove poteva, e poi gregario, ovunque: in volata, in salita, nelle classiche del nord, nei grandi giri; uno che sostiene di come, la più grande soddisfazione della sua carriera sia stata quella di sapersi rinnovare, di volta in volta, di stagione in stagione, persino di corsa in corsa. «Ho partecipato a eventi che non pensavo di disputare: tutti i grandi giri, tutte le monumento; sono passato da essere uomo da treno del velocista, a corridore da pavé, da corridore da Ardenne, a scalatore. Ogni volta una nuova sfida e ciò che mi aiutava di più a crescere era la fiducia che sentivo intorno».

Ecco, fiducia forse è la parola che identifica meglio quello a cui Bonnet è andato incontro per il suo mestiere di pedalare. E poi c'è la fortuna che gli ha fatto incontrare sul suo cammino Pinot come se il cammino di ognuno fosse fatto esattamente per incrociare quello della persona giusta. «Perché ci siamo trovati così bene assieme? Ci sono cose che non si possono spiegare. Pinot è una bella persona, matura, spontanea, ti dà molto in cambio. Assieme abbiamo vissuto emozioni folli in bici, ma soprattutto momenti di vita al di fuori delle gare che mi sono rimasti impressi. Lui sa quanto lo apprezzo, sa quanto ho sempre voluto aiutarlo e sacrificarmi per lui l'ho sempre ritenuto giusto. Perché non è solo come corridore che ti spinge a fare ciò. È l'uomo Pinot che ti segna, che ti ispira, che ispira tutti»

E il 6 ottobre è la data scelta per l'ultima corsa - la Milano-Torino, per farlo proprio di fianco a Pinot. Di quel giorno Bonnet descrive la mattina, uno striscione con dedica in suo onore, le ultime chiacchiere in gruppo alla partenza, persino i genitori per strada e poi l'ultimo posto: 109° su 109 al traguardo. «Era fuori discussione non la concludessi la gara. Mi sono voluto godere ogni attimo, ho visto i miei genitori a bordo strada, ho scambiato qualche parola con chi incrociavo per strada. Alla sera mi sono concesso qualche drink prima di ringraziare la squadra».

Soprattutto Pinot, con il quale in carriera ha corso assieme 268 volte. I due hanno diviso momenti di gioia, come momenti drammatici che sono quelli poi che nella vita tendono a cementificare di più i rapporti. Le lacrime di Pinot verso Tignes al Tour del 2019 o la caduta tremenda di Bonnet al Tour nel 2015 sono un esempio concreto. E Pinot ha scritto una lettera nei giorni scorsi per ringraziare quello che è un amico prima ancora che un compagno fedele, con la solita sensibilità che fa di Pinot una delle persone più interessanti del gruppo. Chiudiamo proprio con un omaggio di Pinot al suo ex capitano: «Sarebbe riduttivo parlare di Bonnet solo come corridore. Era ed è per me tuttora un fratello maggiore, una fonte di ispirazione. Sapeva come trasmettere un messaggio in poche parole e io ne ho sempre cercato di seguire l'esempio. Non dimenticherò mai tutto quello che ha fatto per me. I leader, in un gruppo, non sono sempre coloro a cui pensi guardando i successi, i risultati. William era un leader vero e volevo che tutti lo sapessero». William conosceva davvero il mestiere di pedalare.


Grazie ciclismo per questi momenti indimenticabili

Ciclismo e anno 2021 un binomio perfetto. Qualcosa che vorremmo riuscire a raccontare meglio ma forse più di ogni altro modo è stato lui a raccontarsi in maniera perfetta: esagerato, romantico, epico, preciso, spettacolare. Quello che abbiamo sempre chiesto e che spesso, nell'ultimo decennio, abbiamo solo visto (quando siamo stati più fortunati) a metà, relegato a episodi isolati.
Ciclismo e anno 2021 un pissi pissi bau bau tra due innamorati, e in mezzo noi; in realtà noi più che altro a fare da contorno ad applaudire; con gli occhi a cuoricino come la vignetta di un fumetto, persino il cuore che batte che pare uscire dal petto; o perché no, momenti irrefrenabili nei quali ci siamo alzati dal divano e non riuscivamo più a stare fermi nell'attesa di una volata, di un giro finale, di un centesimo in più o in meno, di un attacco decisivo, o anche scriteriato. A cercare con lo sguardo quel corridore su cui tanto puntavamo, a immaginarsi rimonte e rinascite, abbozzando per le delusioni, ma applaudendo tutti dal primo all'ultimo.
Ciclismo e anno 2021: un'intesa perfetta. Abbiamo provato a estrapolare alcuni momenti battezzandoli come “i momenti migliori della stagione”, ma potete immaginare quanto sia costato lasciarne fuori almeno altrettanti.

10) Bernal a Cortina (e sul Giau)

E chi se la dimentica quella giornata? Era il 24 maggio del 2021 e si imprecava perché le immagini non arrivavano: per via del maltempo non c'era copertura televisiva. Ci siamo affidati a una sorta di radiocronaca, come si usava una volta, ed ecco il gesto di Bernal che abbiamo definito quel giorno come di totale rispetto verso la corsa e i suoi tifosi; Bernal che sbuca sul nostro televisore solo nel finale, si leva via la mantellina nonostante freddo e fatica, con l'unico intento di mostrare la Maglia Rosa regalandoci una delle immagini simbolo del ciclismo 2021.

 

9) Roglič a Tokyo

Parrebbe uno sgarbo non inserire Roglič che in stagione ottiene 13 successi, uno più significativo dell'altro. Abbiamo scelto l'oro olimpico della prova a cronometro: perché è simbolo e perché vincere ai Giochi resta per sempre sulla pelle di ogni sportivo. Su un circuito pesante come un mattone, lungo e vallonato come una crono da Grande Giro, nonostante ciò, ahinoi ingenuamente pensavamo fosse tutto apparecchiato per Ganna, ma fu un dominio assoluto dello sloveno. 55'04'' il suo tempo volato via sopra i 48 orari di media. Oltre 1' sul secondo in un podio stellare, per una top ten degna di una prova di altissimo valore.

8 ) Viviani a Roubaix 2021

Il biennio a due facce di Elia Viviani vede dipinto il suo volto migliore in quel finale della corsa a eliminazione, solo pochi giorni fa, nel velodromo al coperto di Roubaix, mondiali su pista. Viviani che scalza via con una volata imperiosa il più giovane Leitão, come se la freschezza non contasse, ma solo colpo di pedale e talento; Viviani che da Tokyo in poi (bronzo nell'omnium, non va dimenticato) ha fatto nuovamente click: nella testa e nelle gambe. Viviani che a conti fatti porta a compimento una stagione iniziata fra i mugugni, conclusa con sette successi su strada, una medaglia olimpica e due mondiali su pista. Mica male.

7) Pogačar sul Col de Romme

Davanti c'era una fuga, mentre dal cielo pioggia grossa come biglie di vetro. E poi freddo e quindi mantelline, mica troppo normale a luglio seppure siamo sulle Alpi. Condizioni ideali per esaltare il ragazzetto col ciuffo biondo che spunta dal casco e che arriva (il ragazzo, ma volendo anche il ciuffo) dalle parti di Komenda, Slovenia. Siamo sul Col de Romme e mancano poco più di 30 km al traguardo: zona Pogačar. Lui attacca, stacca tutti, continua a guadagnare sul Col de la Colombière, devasta il Tour, prende la maglia gialla, alimenta (stupide quanto inutili) polemiche. Tra i suoi avversari diretti per la classifica generale il migliore è Vingegaard che paga 3'20''. Distacchi d'altri tempi per un corridore che riscrive la storia (di questo sport, sottolineiamo, altrimenti pare che esageriamo).

6) Van Aert Ventoux

E se si parla di storia (eheh) e Tour come non citare l'impresa di van Aert sul Mont Ventoux? Come non cantare le lodi di un ragazzo che, con la maglia tricolore belga, vince al Tour rispettivamente: in salita in fuga, dopo aver scalato il Mont Ventoux due volte e aver staccato fior fiori di corridori; a crono qualche giorno dopo; in volata sugli Champs-Élysées. Altro campione che pare essere arrivato da tempi diversi, ma in realtà è perché il ciclismo del 2021 è questo. Pochi calcoli, attacchi da lontano, corridori completi. La gente ringrazia.

5) Van der Poel Strade Bianche

E c'è Roglič, c'è Pogačar, c'è van Aert, non poteva mancare van der Poel. Era l'alba di una stagione magnifica e la Strade Bianche ci offrì uno spettacolo contornato da fuochi d'artificio. A giocarsi il successo il meglio del ciclismo mondiale con van der Poel che sullo strappo di Santa Caterina portava a scuola tutti, facendo segnare wattaggi mai visti. Staccava tutti, compreso Alaphilippe che poi qualche mese più tardi si rifarà invece con una serie di sparate delle sue. Di van der Poel si poteve mettere anche il sigillo sul Mur de Bretagne con quella maglia gialla simbolica a compimento di un finale lasciato in sospeso da nonno Poulidor. Abbiamo scelto gli sterrati senesi, non abbiamo fatto torto a nessuno.

4) Caruso al Giro 2021

Una delle emozioni più grandi di questo 2021 ce l'ha regalata Damiano Caruso al Giro d'Italia. Il suo podio non è figlio della retorica del gregario che finalmente si traveste capitano e vince, ma semmai è il sigillo di una carriera sempre ad alto livello. La vittoria sull'Alpe Motta con la curva dei tifosi che lo incita, la sua resistenza, l'aver staccato persino Bernal in maglia rosa ci danno la dimensione di quello che il corridore ragusano è. E secondo noi potrà ancora essere anche la prossima stagione, anche (o soprattutto) a 34 anni, nonostante il ciclismo dei giovani fusti.

3) Quartetto olimpico

Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon, Jonathan Milan: in rigoroso ordine alfabetico. La mattina dell'inseguimento a squadre a Tokyo è emozione pura. Lamon che lavora ai fianchi, poi si stacca, Consonni e Milan che fanno il loro lavoro pulito e di qualità, Ganna che trascina alla rimonta. E che rimonta! incredibile, impensabile a tratti insensata. Danimarca, dette Furie Rosse per un motivo, lo spauracchio da anni, i grandi favoriti: battuti sul filo dei centesimi. Una goduria che ci porteremo addosso tutte le volte che chiuderemo gli occhi e penseremo al 2021.


2) Mondiale su Strada (Da Remco a Julian)

E sì, perché domenica 26 settembre tra Anversa e Lovanio abbiamo assistito alla Corsa e non solo per l'assegnazione della maglia più bella del ciclismo (di tutto lo sport ?), ma perché due corridori hanno fatto in modo che difficilmente ce la dimenticheremo. Evenepoel ha esaltato; ha attaccato da lontanissimo come fosse uno di quei corridori di terza fascia che ci provano perché siamo a un mondiale ed è sempre bello portare in giro la maglia della propria nazionale; ha azzardato e non ha guadagnato, anzi, ancora oggi paga un presunto carattere poco accondiscendente secondo i due compagni di squadra che erano con lui nel finale (van Aert e Stuyven). Ma tant'è: a noi esalta con quel carattere che poi è il carattere del corridore vincente. Alaphilippe si è consacrato, invece. Ha attaccato tre, quattro, forse cinque volte: l'ultima è stata decisiva, nessuno ha avuto le gambe per seguirlo. Ci ha fatto letteralmente impazzire.

1) Colbrelli a Roubaix

E pensavamo di aver visto ormai tutto la settimana prima in quel bagno di umori e fragorosi pensieri. Pensavamo, in stagione, credevamo di aver visto un ciclismo italiano competitivo su (quasi) tutti i terreni. Pensavamo di non vincere più una corsa come la Roubaix poi è arrivato lui, Sonny Colbrelli e pochi minuti prima poteva esserci Moscon, ma la sfiga c'ha visto benissimo. Colbrelli invece è stato un sogno, per lui, per noi, per tutti.


Mungere le vacche

Arnaud de Lie deve ancora farsi conoscere dalla più vasta platea dei ciclofili - non potrebbe essere altrimenti: esordirà tra i professionisti nella prossima stagione con la maglia della Lotto Soudal e presumibilmente lo farà prima di compiere 20 anni (è nato nel marzo del 2002).
Di recente, nell'intervista che ha rilasciato a DirectVelo, ci ha colpito qualche passaggio da cui emerge un personaggio che, con ogni probabilità, sarà tutto da seguire.

MUCCHE - De Lie vive a Vaux-sur-Sûre un piccolo villaggio della Vallonia. Suo padre ha una fattoria e Arnaud, sin da quando ha 4 anni, la mattina si sveglia presto per dare una mano con le bestie. Lo ha fatto anche prima di conquistare la sua più prestigiosa vittoria sin qui: la Omloop Het Nieuwsblad Under 23. «La mattina della gara, prima di viaggiare per Grotenberge mi sono svegliato presto e sono andato a mungere le vacche». Quel giorno De Lie vinse la volata del gruppo pur sentendosi particolarmente stanco durante la gara. Chissà perché.
Racconta, de Lie, di farlo praticamente tutti i giorni, si sveglia all'alba, munge, torna a casa e poi è pronto di nuovo per uscire, ma dall'anno prossimo sarà più complicato visto l'impegno nel World Tour. «Il problema sarà doverlo dire a mio padre. Con il mio DS della Lotto ne abbiamo già parlato in passato e abbiamo ridotto il carico di lavoro: solo che io lo faccio volentieri, perché, quando hai un padre che ti dà tutto, è giusto ricambiare».

VITTORIE - Ha vinto moltissimo in stagione, anche se avrebbe preferito persino di più viste le caratteristiche da velocista resistente. 10 vittorie in tutto e qualche rammarico. «Al mondiale nelle Fiandre è stata la più grande delusione della mia vita». Cadde, sprecò energie per rientrare e non poté essere d'aiuto nemmeno per la squadra.

AMBIZIONI - Dall'anno prossimo sarà il secondo velocista della Lotto, il leader sarà un certo Caleb Ewan. Alla domanda sul come farà a gestire le volate visto che il treno sarà in blocco per il corridore australiano, sentenzia: «Meglio così. Preferisco gestirmi la volata da solo: non ho bisogno di compagni che mi aiutano nell'ultimo chilometro. Forse qualcuno che mi aiuta in gara a non prendere buchi quello sì».

LEFEVERE - Infine il suo temperamento sfocia raccontando un aneddoto su Lefevere: «La Quick Step mi ha cercato, ma io ho scritto su Instagram un messaggio privato a Lefevere dicendo di smetterla di perdere tempo che tanto avrei firmato con la Lotto». Così.

Foto: Gregory Van Gansen/PN/BettiniPhoto©2021


Alex Dowsett c'è riuscito lo stesso

Abbiamo visto Alex Dowsett provarci. Era quel ciclista velocissimo e appallottolato ieri notte dentro una divisa rosso vinaccia e nera, che girava e girava dentro il velodromo di Aguascalientes, Messico. Lo abbiamo visto andare oltre la prestazione di Victor Campenaerts per 150 giri, con un picco iniziale di 56,9 km/h e poi una bella media record che si assestava intorno ai 55,2.
Lo abbiamo visto calare, quasi all'improvviso, in quello sforzo assurdo dove le gambe fanno così male che te le strapperesti di dosso, la vista e i pensieri sono come nebbia burrosa, le spalle iniziano ad ondeggiare, ti fai domande, non ottieni risposte, hai la bocca spalancata perché i polmoni che bruciano richiedono ossigeno, ti guardi attorno e non dovresti, e iniziano a mancarti le forze.
Lo abbiamo visto, Alex Dowsett, percorrere 219 giri e chiudere in 54,555, nuovo record personale e britannico (se si può consolare e lui si ritiene, giustamente, soddisfatto) a mezzo chilometro dalla migliore prestazione mondiale di Victor Campenaerts (55,089 km) .
Lo abbiamo visto scendere dalla bici, Alex Dowsett, distrutto, aiutato dalla moglie e dal suo allenatore, ma con l'idea di averci provato. E per noi c'è riuscito.
Lo abbiamo visto farsi intervistare e dirsi orgoglioso della sua prestazione, ma in generale di tutto quello che ha fatto in questi anni, in queste settimane: «Il messaggio più importante che voglio inviare è che chiunque abbia l'emofilia, chiunque abbia una condizione rara, chiunque stia affrontando qualsiasi tipo di avversità, beh, dico solo: provateci. Perché il più grande fallimento oggi sarebbe stato non essere qui».
Abbiamo visto Alex Dowsett sensibilizzare l'opinione pubblica su una malattia che lo affligge dalla nascita ma che contro ogni idea non gli ha precluso di diventare un ciclista molto competitivo. «Grazie all'aiuto della mia famiglia non solo siamo riusciti a trasformare in positiva una condizione negativa, ma abbiamo ottenuto il meglio assoluto».
Lo abbiamo visto raccogliere fondi per la sua campagna mirata a sostenere i giovani con disturbi emorragici e a supportare le loro famiglie (nel momento in cui scriviamo ha raccolto oltre 30.000 sterline quando l'obiettivo era di raccoglierne 15.000, e il contatore sale): la vittoria più grande, forse l'unico, vero, grande traguardo di questi giorni.
Alex Dowsett, a prescindere dalla prestazione finale (che forse un po' brucia dal punto di vista agonistico, ma tant'è, e a noi non piace sentire parlare di "fallimento"), è andato forte, e noi siamo orgogliosi di raccontare la sua storia, supportare il suo messaggio, sostenere quello che sta facendo.

Foto: Jesus Gonzalez