Il repertorio completo del Cobra - TRENTINO 2021 - DAY 6

Le corse di ciclismo sono un mestiere. Non a caso quelli che partecipano si chiamano professionisti. Non vuol dire semplicemente dedicarsi a tempo pieno a correre in bicicletta, vuol dire costruire il repertorio completo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come un muratore, che sa preparare la malta della giusta densità. Come un panettiere, che a forza di impastare sa dosare il quantitativo d’acqua senza bisogno di misurarla. Così è il corridore, che dopo una carriera iniziata nelle giovanili a entrare nelle fughe, a chiudere i buchi, a prendere batoste, a sbagliare e pagare le conseguenze, a guidare la bicicletta in discesa e in gruppo, ma soprattutto a studiare l’avversario e gli avversari, arriva al giorno giusto, nel momento giusto e sa esattamente cosa fare.

Oggi il Cobra ha sciorinato il repertorio completo. Ha eseguito esattamente il piano tattico, è entrato nella fuga giusta, innescata dal compagno di squadra Trentin. Ha marcato le ruote che andavano marcate. Si è fatto trovare pronto quando è scattata l’azione decisiva. Ha mangiato, ha bevuto, ha recuperato rimanendo coperto, perché Remco aveva un’altra cilindrata e avrebbe potuto staccarlo dovunque.

Poi ha buttato fuori tutto quello che aveva nelle gambe sullo strappo di Povo. Si è imbevuto dell'energia positiva del pubblico pazzo di gioia a bordo strada. Ha retto le continue accelerazioni del fenomeno belga, che ha letteralmente divorato le pendenze, stroncando le velleità del temibile francese Cosnefroy. Poi si è accucciato a ruota, Sonny sapeva di aver dato tutto, di essere con la spia in rosso, sapeva che se avesse tirato anche solo cento metri, Remco poteva andargli via, anche in pianura, anche sul falsopiano. Non si è fatto irretire dalle scenate dell’avversario, che voleva i cambi. La corsa è corsa, Sonny sapeva di essere più veloce e sapeva che se voleva entrare nel rettilineo finale, negli ultimi 250 metri prima di piazza del Duomo, non doveva lasciare andar via l’avversario.

Ha recuperato pazientemente dallo sforzo della salita, poi ha aspettato il momento. Ed eccolo il mestiere, un’accelerazione prima dell’ultima curva, sui sampietrini insidiosi, per prenderla davanti, poi l’allungo. Mentre Remco scaricava tutti i watt Sonny aveva ancora una cambiata da fare, un colpetto con le dita e la volata, la volata che aspettava da tutta la vita, davanti al pubblico impazzito. Remco fuori dalla foto, lui sulla linea del traguardo a braccia alzate.
Il repertorio del corridore, interpretato alla perfezione. Remco è stato grandioso, ma il repertorio deve ancora costruirlo. Il tempo è dalla sua parte, le stigmate del campione, nonostante il gestaccio di frustrazione dopo il traguardo, le ha tutte.
Ma oggi era la giornata di Sonny Colbrelli, la giornata europea del corridore di ciclismo.

Foto: Bettini


Quanto bene vogliamo a Damiano caruso?

Il cuore dell’Andalusia è terra secca, fatta di salite aspre, poca vegetazione, sole a picco sulla testa. E a fine agosto fa un caldo terribile. È terreno per imboscate e alla partenza da Puerto Lumbreras l’atmosfera è di quelle tese. Almeno tre della banda Ineos pronti ad attaccare Roglic. Manca solo la musichetta da western. Luogo designato per lo scontro: l’Alto de Velefique, salita durissima che conduce al traguardo.
Ma c’è qualcuno che se ne frega dei progetti degli altri, viene da Ragusa e si chiama Damiano Caruso. Da quelle parti non è meno secco e aspro l'ambiente d'estate. Parte con un gruppetto, con Bardet, Majka e Amezqueta, tra gli altri, sulle prime rampe del secondo colle, l’Alto Collado Venta Luisa. Poi in un tratto di falsopiano a metà salita rompe gli indugi e quando mancano 71 km all’arrivo, se ne va #alvento, da solo. Pedala bene Damiano, sembra quello del Giro. Regolare, ritmo altissimo. Passa per primo sul Venta Luisa, inizia la discesa e non molla. Il suo vantaggio sul gruppo della Roja supera i 5 minuti. La Jumbo non spinge troppo e Damiano ne approfitta.

Il caldo non da tregua. Quando attacca la rampa dell’Alto de le Velefique pedala bene, rilancia la sua Merida, maglietta aperta e bocca spalancata. Damiano è a tutta. Fa caldissimo, è secco tutto attorno. Probabilmente Damiano si sente come in Sicilia, quando pedalava da ragazzo. Lo aspettano 11 km e mezzo da fare fuori soglia. E mentre lui conta le gocce di sudore che cadono sull'asflato, ecco iniziare le sparatorie dietro di lui: Adam Yates prima, risponde Roglic, rientra Bernal. Ci riprova Carapaz, ma niente da fare. Ancora un allungo di Yates. Cedono tutti, cede anche Bernal. Se ne vanno Mas e Roglic, a tutta. Una serie di attacchi feroci. Ma Damiano è là davanti, sempre a maglietta aperta, sempre a bocca spalancata. E pedala sempre bene. E fa sempre un caldo maledetto.

Nessuno sconto per lui, alle sue spalle se le danno di santa ragione. Ma Damiano vede l’ultimo chilometro e a quel punto non molla più. Fa in tempo a chiudersi la maglietta, ad esultare come avesse segnato un goal in finale, a tagliare il traguardo con più di un minuto su Primoz Roglic ed Eric Mas.

Una giornata di ciclismo eroico, un Damiano Caruso d’annata, che sembra migliorare sempre di più. Maglia a pois di miglior scalatore da portare con orgoglio.
«Sono andato via da solo a 71 km dall'arrivo perché ho sentito che la Ineos voleva chiudere il buco e allora mi sono sentito di provarci da solo» ha detto subito dopo la gara.

Quanto ti vogliamo bene, Damiano!


TRENTO CAPITALE

Le gocce di sudore che cadono sulla strada le posso quasi sentire.
Tanto è il silenzio, tanto è liscio e perfetto il fondo stradale.

Pedalo da quasi nove chilometri e la pendenza non ha mai mollato, salvo alcuni tratti. Dire che quel pneumatico là davanti scorra è una parola grossa.
Le salite al 10% mi piace metabolizzarle con calma, avvicinarmi preparato. Qui l’ho attaccata subito, uscito da Trento mi tocca una menata verso Candriai. Due punti a mio favore: il bosco e la quota che aumenta velocemente, uno dei vantaggi delle strade ripide, se vogliamo trovarne uno, e di conseguenza il fresco.

La città è la sotto, fa caldo. Buttando l’occhio in qualche tornante vedo scorrere l’Adige e la A22 con i suoi camion e i van dei turisti tedeschi che stanno tornando ad assaltare il Bel Paese. Curioso, da Trento quasi sempre ci passi, a meno che tu non ci viva, è difficile che succeda di fermarsi, ed è un peccato. Questa volta, invece, è stato proprio così. Sto bene e come sempre la meta vicina restituisce vigore, bevo un po’ alla borraccia e ho quel senso di euforia che ti fa sentire più forte, è sempre così in cima ad una salita.

© Jered Gruber

Per un attimo mi balena l’idea di proseguire per altri dieci chilometri, tenendomi a sinistra raggiungerei la cima del Bondone. Mi rinfresca il solo pensiero della nevicata del 1956 e di Charly Gaul semi-assiderato, va bene così, per oggi mi accontento, il mio giro prevede una veloce discesa verso Sopramonte per andare ad imboccare la Valle dei Laghi.

Va detto che sono contromano rispetto ai programmi di giornata: sono qui per percorrere la traccia che a settembre assegnerà la maglia di campione europeo su strada, solo che il primo tratto che porterà i professionisti da Trento alla Valle dei Laghi, attraverso le gallerie, non è normalmente percorribile in bici e verrà chiuso appositamente per la gara. Achtung, warning, vietatissimo! Me l’hanno sottolineato un sacco di volte i ragazzi dell’organizzazione. Poco male, dove sono passato io è più bello, magari più duro, ma va bene così. Filo via e mi godo l’asfalto, che è una materia non troppo nobile, ma che chi pedala sa apprezzare e riconoscere come un sommelier fa con il vino buono. Questo attorno a Trento è da palati fini, come il Trentodoc del resto, e tra mangia e bevi eccomi a Terlago, sono finalmente nei pressi del percorso di gara. La gamba gira, ho voglia di giocare al professionista, non lo fate mai? Magari non proprio in modo esplicito, ma quando mi metto giù spianato a scaricare tutti i watt di cui dispongo (quelli-di-cui-dispongo), mi sento un po’ van Aert, Alaphilippe, quello che quel giorno mi solletica la fantasia. Lo facevo da bambino, lo faccio ancora adesso.
C’è chi ammette di farlo e chi mente.

© Jered Gruber

Terlago affascina, con le sue costruzioni di un’altra epoca. Scattando le foto di questo servizio, qualche giorno prima, Jered e Ashley, che vengono dalla Louisiana, non riuscivano a staccare gli occhi da uno stabile d’epoca in vendita, proprio sulla strettoia dove la strada ricomincia a salire. È pazzesco cosa possano suscitare certi paesini delle vallate alpine agli stranieri che li vedono per la prima volta! Pedalo verso Vezzano, si sale un po’, immagino il gruppo con le divise delle nazionali che procede a velocità di crociera, magari controllando una fuga con qualche minuto di vantaggio. Adesso mi sento un po’ Daniel Oss, per rimanere in zona, che mena là davanti con i compagni in maglia azzurra a ruota, ma senza esagerare, l’azione vera sarà più avanti secondo il piano gara.

Un occhio mi cade sul bivio verso destra, i local mi avevano segnalato che da lì sale una strada che in sei chilometri circa porta a Lago Santo e Lago di Lamar. Il primo tratto è per veri scalatori, c’è anche un centina-io di metri ad un certo punto con pendenze ben oltre il 20%, dopo però si fa più pedalabile. Faccio finta di niente e tiro dritto, ho un gruppo da riportare a Trento, io. Poco più avanti, però, decido di deviare. Da Vezzano mi porto a Lon e da lì inizia la salita che collega a Ranzo: è un qualcosa di imperdibile. La strada provinciale 18 è scavata nella roccia e taglia in diagonale la parete che si affaccia sulla valle sottostante. Soffro anche di vertigini (e chi me lo fa fare?), il vuoto mi dà senso di smarrimento e lì sotto, alla mia sinistra, c’è uno strapiombo verticale che aumenta costantemente. Mi tengo sulla destra, appiccicato alla parete rocciosa più che posso, guardo il paesaggio in lontananza, vedo luccicare i laghi, torno con gli occhi sul mio Wahoo e spingo sui pedali per non farmi venire l’ansia: bello e spaventoso allo stesso tempo. A Ranzo bevo, riempio la borraccia e giro la bici, l’unica via per tornare indietro è quella appena percorsa e la picchiata in discesa sul lato destro della strada, quello dello strapiombo, è ancora più elettrizzante. Oltretutto la strada è stretta e non posso nemmeno stare troppo in mezzo, un’auto in salita sarebbe un guaio. Si va veloce, mi sento in parapendio, più che in bici, sembra davvero di volare. Mi hanno raccontato che salendo con una gravel, da Ranzo c’è poi una meravigliosa strada forestale sterrata che conduce al lago di Molveno: questa mi interessa, la segno nella lista delle cose che devo fare prima possibile.

© Jered Gruber

Rieccomi sul percorso europeo, ho strizzato in discesa, lo ammetto ma sono a fondovalle e ora me la godo. E pensare che da Terlago a Vezzano avrei potuto scorrazzare in una fluida ed estetica ciclabile… Davanti al mio sguardo si apre la Valle dei Laghi, che è uno spettacolo, una serie di specchi d’acqua generati dal passaggio del Sarca, che poi andrà a sfociare nel lago di Garda. In queste situazioni la meraviglia del paesaggio ti fa sentire fortunato, ogni boccata d’aria ti dà un senso di stordimento e le gambe sembrano girare come non mai. 

Ah, già che sono un Pro del gruppo! Poco prima fiancheggiavo un muro di roccia, ora sono a presa bassa tirando il rapportone tra filari ordinati di vigne, dove nasce il prezioso Vino Santo, con l’antico castello di Toblino sullo sfondo e la sua caratteristica posizione su un promontorio che lo fa sembrare sospeso sulle acque. Angolo Superquark: si dice che duemila anni fa, con le acque più alte di almeno due metri, questa fosse un’isolotta nel lago e che in epoca romana fosse considerata sacra e consacrata al culto delle fate e dei fati, divinità capaci di prevedere il futuro. Magari qualcuno dei corridori in lizza per la maglia a stelle proverà ad interrogarli, sfilando sulla veloce statale di fondo valle. 

© Jered Gruber

Intanto io continuo il mio giro e ogni tanto mi infilo in piccole deviazioni dalla rotta principale che permettono di attraversare zone rurali dal traffico automobilistico inesistente: sono quelle che rendono unica l’esperienza (e che mi permettono di tirare il fiato e abbassare il ritmo). Troppo bello guardarsi intorno. In vista del lago di Cavedine, ancora filari, che da queste parti sono maniacalmente ordinati e puliti e ancora wow! per lo scenario. Acqua verde placida, riflessi che ti incantano. Pedalare di fianco all’acqua piace a tutti, deve essere una deformazione mentale dei ciclisti, anche se mi risuonano in mente le parole di Ashley, che si era appostata da quelle parti per scattare un po’ di foto: «A voi piacciono tanto i laghi, a noi che dobbiamo fotografare molto meno. Sono difficili da far risaltare in foto, alla fine sembrano tutti uguali!».
Se lo dice lei… E non poteva esistere un giro più alvento di questo: di colpo mi sento rallentare da una forte brezza contraria. È inizio pomeriggio, ecco l’Ora del Garda. 

Vento, una corrente che soffia da sud a nord, nei periodi caldi pressoché tutti i giorni, aumentando man mano che si allontana dal lago. È quel vento che fa la fortuna dei velisti a Torbole e dintorni, quello che in certe giornate ti inchioda e ti viene da maledirlo mentre superi lo specchio d’acqua di Cavedine, ma che col caldo estivo tutto sommato ti fa anche piacere.

Oggi si viaggia e a me piace stare alvento, ancora una volta gioco al corridore e mi immagino di avere i capi-tani dietro belli coperti e di menare per fendere l’aria e portarli freschi dove si scatenerà la bagarre per le medaglie.  Ma ancora una volta il Trentino mi sbalordisce e mi risveglia dalle fantasie da corridore. Il paesaggio cambia di colpo, come fossi teletrasportato altrove: ho appena lasciato il lago di Cavedine sulla mia destra, inizio a salire per un breve tratto e al momento di scollinare, di colpo, dal verde dei prati e dei vigneti mi ritrovo in mezzo a rocce, massi e detriti in un vero paesaggio lunare. Le Marocche di Dro, mi spiegheranno poi. Una delle più grandi frane visibili in Europa, probabilmente di epoca post glaciale. Spettrale, sicuramente affascinante. Il vento da sud, il silenzio, una flora quasi mediterranea che spunta dove riesce tra le rocce e la leggenda dell’antico abitato di Kas che aleggia, distrutto dalle divinità per punire la lussuria dei suoi abitanti, si narra. Qualcuno vuole che anche Dante ne abbia parlato nel canto XII dell’Inferno, ma non tutti sono d’accordo ed eviterei una discussione del genere. Io mi godo la bella strada che serpeggia in discesa tra mezze curve e un particolare guard rail in metallo rosso.

© Jered Gruber

Sullo sfondo il Castello di Arco, poco più a sud il Garda. Meraviglioso, andrei avanti a scendere così per molti chilometri ancora, ma sono già arrivato al bivio da cui si risale a Vigo di Cavedine, passando davanti alle maestose rovine di Castel Drena e alla sua torre medievale quasi intatta. Circa sei chilometri, la pendenza è regolare, tra 5-6%. La strada è larga e abbastanza trafficata, io sono discretamente bollito, ma provo a immedesimarmi ancora nei corridori: velocità alta, bivio, curva a destra, quelli davanti al gruppo in piedi con il 53 a rilanciare l’andatura dopo la discesa, e via a ritmo alto fino al gpm del Passo Sant’Uldarico di Vigo. E ancora stupore per me, che la prendo invece molto più easy e mi godo il paesaggio verde degli ulivi e degli immancabili vigneti, soprattutto quando imbocco la valle di Cavedine in direzione Lasino, quindi Vezzano. 

In gara ci sarà poco da guardarsi intorno, qui il gruppo andrà a sessanta all’ora, sfruttando la leggera discesa e la strada larga (sempre quel bell’asfalto di cui parlavamo che fa tutta la differenza del mondo). Poco dopo Lasino (che si legge con l’accento sulla i e non c’entra con la bestia da soma), volendo, c’è la salita verso il Bondone meno nota, più da local, forse più dura, anche per come è fatta la strada, con lunghi rettilinei e pendenza costante, anche se il bosco mitiga il sole che nel pomeriggio picchia bello forte. Ma non mi faccio attrarre dalle sirene della salitona, non oggi che ho un compito da portare a termine e salgo comunque, regolare, verso Vigolo Baselga. C’è un po’ di traffico e scelgo la perfetta ciclabile: quando esistono e sono manutenute come si deve, in certi momenti sono una benedizione. Stringo i denti, la salita non è lunghissima ma nemmeno banale, vado su da Sopramonte a Candriai e ripercorro quel pezzo che stamattina sembrava così breve, sfrecciando in discesa. Già, perché il gruppo durante l’Europeo di qui transiterà in salita fino a Candriai per poi catapultarsi su Trento lungo il tratto del Bondone che ho pedalato in mattinata.


In un attimo sono giù, rientro a Trento ed ecco l’immancabile traffico cittadino. Facessi parte del gruppo immaginario che insegue la maglia di campione europeo mi attenderebbero otto giri a tutta di un circuito da tredici chilometri e circa 250 metri di dislivello, che passa dalla centralissima via Roma, si arrampica verso Povo nella zona universitaria e poi scende di nuovo, con velocità abbastanza sostenuta, verso la città, per passare nel quartiere delle Albere, disegnato da Renzo Piano, davanti al celebre Muse, per poi fiondarsi, dopo l’ultimo giro, sul traguardo di Piazza Duomo. Provo a pensare a chi potrebbero essere i favo-riti e rifletto sul fatto che una salitella, magari insignificante per un professionista, come quella di Povo, dopo otto tornate e dopo i 76 chilometri del circuito che ho appena pedalato, possa anche fare la differenza. Io mi accontento di un giro solo, in scioltezza, guardandomi attorno, apprezzando i tratti di una cittadina moderna, quasi mitteleuropea, in cui si respira benessere e welfare. Mi viene voglia di fermarmi qui per un po’ di tempo, per pianificare qualche giro nelle vallate circostanti. Da Povo, punto più alto del circuito cittadino, potrei proseguire verso i laghi di Levico e la Valsugana, con poco traffico, per pedalare su ciclabili perfette e magari affrontare qualche sfida di quelle serie, per esempio il Menador da Caldonazzo, anche se non sono proprio uno scalatore da 15%.

Non so a cosa abbiano pensato esattamente gli organizzatori del Campionato Europeo su strada di Trento quando hanno ottenuto l’assegnazione dell’evento, ma il potenziale per le due ruote attorno al capoluogo è sorprendente. Per varietà, per qualità delle strade, per servizi, al di fuori dagli snodi principali anche per il poco traffico. Insomma, il mio giro doveva essere una ricognizione per capire come mai l’UCI avesse scelto Trento come sede degli Europei su strada. 

Ho ricaricato la bici in auto pensando di aver pedalato in una capitale moderna delle due ruote.

 

[servizio pubblicato su Alvento 16 di agosto 2021 - se ti interessa la copia cartacea, clicca qui]