Si sono emozionati in tanti quando è uscita la notizia che sarebbe tornato alla telecronaca non solo per il Giro d’Italia, ma anche per il Tour de France e i Giochi Olimpici di Parigi 2024. Ho provato lo stesso anche io, che la sua voce l’ho scoperta solo recentemente da video di altre gare, altri tempi, su consiglio di amici. Mi dispiace non aver vissuto i suoi anni a fianco di Auro Bulbarelli, le ricognizioni delle tappe del Giro d’Italia e delle salite più famose. Dopo 28 anni dal Giro di Sardegna, la sua prima gara commentata a fianco di Adriano de Zan, dopo poco più di 10 da quel giorno in cui, a casa di Alfredo Martini, gli fu offerto il posto da ct della Nazionale maschile su strada, ho finalmente modo di recuperare il tempo perso: Davide Cassani è pronto infatti ad indossare di nuovo le cuffie e a prestare la sua voce al ciclismo.
Ho pensato che non potesse esserci Virgilio migliore per continuare il mio viaggio all’interno di questo folle mondo su due ruote. Per questo, in punta di piedi, un caldo pomeriggio primaverile gli ho rubato del tempo che presto sarà occupato da chilometri e chilometri di fughe, salite, piccole e grandi imprese. Volevo riflettere con lui sui miei e i suoi nuovi inizi, sull’amore per questo sport, sul ciclismo che vorrebbe raccontare, sull’importanza del passato, sulle sembianze di questo presente e su quelle che avrà il futuro.
Sono passati più di 10 anni dalla sua ultima telecronaca, anche se nel frattempo non ha mai abbandonato del tutto il piccolo schermo ciclistico con le partecipazioni al “Processo alla tappa” o il Giro d’Italia in bicicletta elettrica. Come si sente per questo ritorno?
Mi sembra ieri quando ho fatto la mia ultima telecronaca nel 2013 al Giro di Lombardia. Invece sono passati 11 anni, sono tanti. Nel mezzo ci sono stati anche gli 8 da commissario tecnico. Cerco di capire se tutto questo è stato reale, se non è invece stato un sogno. Ma sembra decisamente tutto vero. Sono ben contento di tornare in telecronaca: sono sicuramente più maturo, non so se riuscirò ancora a fare bene questo lavoro (ride), però l’entusiasmo è quello di sempre.
C’è qualcosa che le è mancato della telecronaca in questi anni?
Sinceramente no. Anzi, devo dire che è un distacco che mi ha fatto bene, perchè dopo 18 anni sentivo il desiderio di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. Quando ascoltavo le telecronache di altri, non provavo nessun risentimento, ero contento di ascoltarle e di non farle. Quando però mi hanno chiesto di tornare qualche settimana fa, mi sono sentito dentro la voglia di dire sì, perché mi è sempre piaciuto fare questo lavoro e torno a farlo con piacere.
Ad aspettarla c’è già il Giro d’Italia, a fianco di Francesco Pancani. Che Giro è pronto a raccontare e cosa ne pensa del percorso di quest’anno?
È un percorso come al solito impegnativo: ci sono due cronometro, c’è già un arrivo in salita al secondo giorno. Con la presenza di Pogacar, c’è un solo uomo da battere. Sarà uno contro tutti e non credo sarà affatto facile riuscire ad avere la meglio su di lui. Il percorso, comunque, è bello e se sarà appassionante o no, questo sarà tutto merito o colpa dei corridori.
C’è una tappa che la incuriosisce più di altre?
Sarò curioso di commentare la tappa di Prati di Tivo perché arriva dopo una settimana di gara, dopo una cronometro: sarà una tappa importante per capire tante cose.
Come ci si dovrebbe avvicinare, da neofiti, al ciclismo e coltivarne poi la passione anche da spettatori?
Con la curiosità di andare alla scoperta di qualcosa di nuovo. La bicicletta è tua: sei tu che ci pedali sopra, sei tu che decidi dove andare, con chi andare. È una bellissima scoperta, perché hai la possibilità di esplorare il mondo, però lo devi fare con l’accortezza giusta. È come quando si va a scuola: devi cominciare dalle elementari, l’università è lontana ma la puoi raggiungere. L’importante è cominciare con gradualità, non dare nulla per scontato. La bicicletta devi saperla guidare, ci sono delle insidie, dei pericoli. Quindi bisogna affrontare tutto con la massima attenzione e soprattutto cercando di dedicarsi ad una pedalata alla volta. Gli spettatori che, invece, guardano il Giro d’Italia non lo fanno solo perché hanno una passione per il ciclismo, ma soprattutto perché si rendono conto di vedere qualcosa di particolare. Il Giro non è una semplice corsa in bicicletta, fa parte della nostra Storia e della nostra cultura. Ci dà la possibilità di vedere tutto quello che circonda un gruppo di ciclisti. È importante poi andare a cercare di approfondire quello che si vede e che si sente, anche dai telecronisti: per uno spettatore curioso c’è l’occasione di imparare molte cose, sia tecniche che culturali.
Se lo ricorda il momento in cui si è innamorato del ciclismo?
Precisamente. Avevo 7 anni e mio padre mi portò a vedere un Campionato del Mondo vicino a casa mia. Rimasi così tanto affascinato da quella corsa che decisi che da grande avrei fatto il corridore e non ho più cambiato idea.
Le chiedo un altro ricordo: Alessandra Giardini nel documentario “Il cielo del Pirata” dice parlando di Marco Pantani: “Quello che noi cerchiamo in fondo, quando andiamo a vedere uno spettacolo, come è lo sport, è qualcuno che sia in grado di cambiarti la vita con un gesto“. C’è nella sua memoria ciclistica da corridore, commentatore e poi tecnico, un momento che assomiglia a qualcosa di simile?
Mi sono subito reso conto che il ciclismo era il mio sport, che la bicicletta sarebbe entrata prepotentemente nella mia vita, perché il primo giorno che sono salito in sella e sono arrivato sulle prime colline mi sono sentito come Cristoforo Colombo. La bicicletta mi ha dato la possibilità di scoprire il mondo, di sentire quello che provavo dentro. Questa sensazione è rimasta intatta nonostante siano passati più di 50 anni da quel giorno. È stato un amore a prima vista. Mi sono divertito moltissimo anche nella tappa del Tour de France in cui Marco Pantani è riuscito a conquistare la maglia gialla, scattando sul Galibier e riuscendo a sconfiggere un Jan Ullrich che sembrava imbattibile. Quella è stata veramente una bellissima telecronaca. Per giunta se penso a lui, a quel giorno, penso anche ad Adriano de Zan, che è stato il mio primo maestro. Fu emozionante.
Quanto è importante, secondo lei, per capire il ciclismo di oggi, conoscere e aver vissuto anche quello del passato?
Il passato, per quanto mi riguarda, è arrivato di conseguenza perché amavo così tanto quello che facevo che volevo sapere da dove arrivava. Allo stesso tempo, una persona che scopre la bici a 40, 50 o addirittura 60 anni non è importante che conosca il passato, è importante che capisca cosa la bicicletta o il ciclismo gli sta trasmettendo in quel momento.
Il ciclismo è bello anche per questo: c’è chi corre per vincere, chi corre per stare insieme ad altri, chi va in bicicletta per vedere luoghi, chi vuole conquistare una montagna senza guardare il tempo ma solo per arrivare in cima. Ognuno ha delle ambizioni, dei progetti, delle imprese da compiere e dunque trova la bellezza in quello che fa.
Ci sono due temi che ho visto particolarmente accesi in questo inizio di stagione, ma se sulla sicurezza si è già pronunciato sui suoi profili social e speriamo possano essere fatti dei passi avanti, mi chiedevo invece cosa ne pensasse dell’altro: il dominio dei più forti che per alcuni rischia di rendere noiose le gare. Il ciclismo corre veramente questo rischio?
C’è questo rischio, però chi ama lo sport apprezza sempre quelli che riescono a fare imprese del genere. Il problema era presente anche negli anni ‘70 quando c’era un certo Eddy Merckx. È un tema che si ripete, ma non credo che la gente si annoi se Sinner vince tutti i tornei di tennis, né se le corse vengono vinte sempre dagli stessi corridori. È naturale che il ciclismo, come qualsiasi altro sport, diventi più interessante quando ci sono dei duelli, delle sfide che sono incerte. Per questo quando vediamo una sfida tra Pogacar e Vingegaard o tra van Aert e van der Poel è molto più accattivante. Sì, il ciclismo rischia di diventare più noioso se qualcuno riesce a dominare nettamente, però c’è l’apprezzamento dell’impresa, che rimane sempre una cosa straordinaria.
Spesso ho la sensazione che, essendo il peloton molto numeroso, si perdano delle storie minori che sono belle tanto quanto quelle dei grandi fenomeni. Come possiamo evitare che questo accada?
Bisogna raccontarle, bisogna scoprirle. Nel mio caso, ovvero attraverso la telecronaca, bisogna raccontare da dove arriva un’impresa, da dove arriva un corridore, che cosa ha fatto per arrivare a quel punto. Tante volte ci sono delle storie straordinarie, altre un po’ meno, ma comunque tutte danno un’idea di cosa sia il ciclismo, cosa sia uno sport professionistico difficile e di fatica come questo. Ogni corridore può avere una storia fantastica da raccontare, che ti fa rendere ancora più bello questo sport.
Come le sembra, invece, la situazione attuale del ciclismo italiano?
Non stiamo attraversando un bel momento, perché non abbiamo un corridore da corsa a tappe, che possa prendere il posto di Vincenzo Nibali. Abbiamo dei corridori come Tiberi, Piganzoli e Pellizzari che speriamo possano crescere, così come Zana e Frigo. Qualche anno fa si stava meglio, anche perché adesso il ciclismo è diventato veramente mondiale: ci sono ragazzi che sono diventati campioni, che arrivano da ogni parte del mondo. Fino a qualche anno fa, assieme a spagnoli, francesi e belgi, avevamo il predominio nel ciclismo, adesso non è più così. Soffriamo in questo momento anche perché non abbiamo una squadra World Tour, abbiamo meno ragazzini che si avvicinano a questo sport. Abbiamo sicuramente degli ottimi velocisti come Ganna, Milan, Dainese e siamo fantastici su pista. Sono cresciute moltissime le donne, ma per quanto riguarda la strada al maschile in questo momento stiamo inseguendo.
Come se lo immagina il ciclismo del futuro?
Difficile prevederlo. Anche se sono cambiate le biciclette, gli allenamenti, le strade, le squadre, c’è sempre un comune denominatore che è la fatica, l’impegno che serve metterci per avere dei buoni risultati. Le corse importanti saranno sempre più importanti, mentre rischiano di scomparire le corse minori: il piatto forte è dato dalla partecipazione dei grandi campioni, che a loro volta non possono gareggiare sempre e dunque si concentreranno sulle corse più importanti. Anche nelle difficoltà, anche con il mondo che avanza, il Giro d’Italia e il Tour de France, così come la Milano-Sanremo o il Giro di Lombardia, rimarranno sempre nell’immaginario collettivo come grandi corse e saranno più ambite che mai. Per il momento, sono abbastanza ottimista. Certo, se vado a vedere quello che era il ciclismo 40 o 50 anni fa e quello che è adesso, speriamo di poter resistere.
In Song of Myself, Walt Whitman ad un certo punto scrive: “sono vasto, contengo moltitudini”. Quante moltitudini contiene il ciclismo?
Consiglio sempre alle persone di mettersi sulla cima di una salita e di guardare in faccia ogni singolo corridore. Ognuno di loro gli trasmetterà sempre qualcosa di sé, dal primo all’ultimo. Perché la faccia di ogni ciclista parla, soprattutto in salita. Quando poi te ne torni a casa e pensi a quelle facce, a quegli occhi, a quelle smorfie, capisci cos’è una corsa, una tappa, una salita e cosa può darti.
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