I segreti di un meccanico: intervista a Giuseppe Archetti
Nonostante la sua esperienza più che trentennale, una delle prime cose che sottolinea Giuseppe Archetti, meccanico UAE Team Emirates, è l’importanza dei ruoli e del loro rispetto. Quando qualche corridore gli chiede di intervenire sulla sua bicicletta, Archetti pone una differenziazione a seconda che si tratti di posizione e millimetri di variazione di sella o manubrio oppure di altre questioni più complesse: «Per piccoli ritocchi sulla posizione o sulla calibrazione della sella, intervengo io. Ci si lavora col tempo e talvolta è anche un aspetto psicologico. Su altre questioni credo non sia giusto agire da solo. Quando si toccano i pedali, più larghi, più lunghi, la sella, il materiale o altri aspetti, penso che il meccanico non debba agire se non dopo un’attenta discussione con lo staff». Squadra significa anche specializzazione. Se si è squadra, bisogna esserlo sempre.
In quest’ottica Archetti ha imparato a dire no e, con l’età, dire no è diventato più semplice. Non solo, con il passare del tempo è aumentata la pazienza e la capacità di spiegare perché, in quella circostanza, non si può fare ciò che il corridore richiede. Da giovani, spesso, non si considera l’importanza di motivare la decisione, talvolta non la si saprebbe neppure motivare. «Nelle categorie minori le scelte sono più fluide, i contratti meno stringenti. Lì, si accontenta anche più facilmente l’atleta. Certe volte il corridore è abituato con una determinata sella e vorrebbe avere sempre quella. Se non è possibile, devi dirlo chiaramente ma devi anche spiegargli che stai lavorando per fornire una sella che si adatti alle sue esigenze, devi fargli capire che nonostante il no tu lo hai ascoltato. Devi dirgli la verità. Così gli spiegherai che la larghezza è simile, che il punto d’appoggio è lo stesso e che il biomeccanico ha lavorato perché la posizione non cambi».
Archetti sostiene che questo aiuti la fiducia perché l’atleta deve fidarsi del meccanico e tanto più riterrà esaurienti le spiegazioni, più si fiderà.
L’inverno, poi, è il periodo dei trasferimenti degli atleti, da una squadra all’altra, e anche qui le cose sono cambiate. Quando Archetti ha iniziato, gli atleti portavano la loro bicicletta precedente al nuovo meccanico e questo segnava tutte le misure da riportare su quella nuova. Oggi il tutto si svolge tramite un dialogo maggiore tra i diversi meccanici. «Una volta i corridori avevano un gruppo diverso di meccanici a seconda delle gare che facevano, grandi giri o classiche, ad esempio, oggi si usa meno». Negli atleti non è cambiato molto: c’è sempre chi ha una sensibilità maggiore e chi minore, chi studia questi aspetti e chi no, di sicuro, però, si hanno già materiali migliori sin dalle categorie giovanili.
La bicicletta, invece, è cambiata nettamente. Archetti pensa al cambio: «Ricordo le mani degli atleti quando c’era il cambio a frizione: certe volte arrivavano al traguardo con le mani talmente gelate che non riuscivano più a cambiare per il freddo o per la terra che bloccava il filo. L’elettronica ha rivoluzionato il nostro lavoro e di certo ha agevolato gli atleti».
Quando le cose non vanno, ancora oggi, talvolta, si va dal meccanico e si sostiene che il problema sia lì, in qualche suo errore. Archetti ascolta, lascia passare il momento di crisi ma, poi, dice chiaramente la sua: «Ho sempre parlato chiaro e con l’età lo faccio ancora di più. Il passare del tempo ti toglie la paura del giudizio: abbiamo a che fare con ragazzi giovani che spesso hanno già tutto, è nostro dovere spiegare il valore dell’aspettare, dell’umiltà». A questo proposito, Archetti pensa a Tadej Pogacar, l’ultimo dei grandi campioni, con cui sta lavorando.
«In trentacinque anni non ho mai visto uno come lui. Un ragazzo acqua e sapone nonostante i due Tour de France vinti. Certe volte le cose non vanno neanche per lui ma non ha mai cercato nessuno a cui dare la colpa. Tadej è anche abituato ai no, quando mi chiede qualcosa e non posso aiutarlo non dice nulla, se non “se non puoi, va bene così”». Di quei momenti difficili, sa qualcosa anche Archetti che, dopo tante considerazioni tecniche, si lascia andare a un pensiero personale sulla gestione di questi momenti mentre si è a contatto con gli altri.
Nel 2016, quando parte per le Olimpiadi di Rio, Archetti è senza un contratto per la stagione successiva, al ritorno potrebbe essere senza lavoro. Per qualche tempo, deluso dall’ambiente, pensa anche di lasciare e di cambiare lavoro. Non lo farà. «È stata l’unica volta, poi ho ripreso. Anche in quei giorni, però, le cose sono restate separate: quando sei in una squadra non puoi permetterti di lasciare che i tuoi problemi influiscano sul lavoro che fai. I campi sono da tenere separati, gli altri non devono scontare le tue difficoltà, vale anche per gli atleti: quando le cose non vanno ce ne si assume la responsabilità, senza scaricare colpe». Questione di ruoli e di rispetto: parole che Giuseppe Archetti conosce molto bene.