Nei panni dell'altro: intervista a Davide Arzeni
Davide Arzeni, direttore sportivo della Valcar–Travel & Service, è per tutti, semplicemente, "Capo". Un soprannome nato una sera di undici anni fa, a Udine, in una colonia gestita da Daniele Pontoni, in un ritiro di ciclocross. Fu Rebecca Gariboldi a dirgli: «Tu sei “Capo”» e da quel giorno Arzeni quel soprannome non se l'è più tolto.
Quando era ancora ragazzo, a Ispra, luogo in cui è nato e cresciuto, Arzeni andava dallo zio, Giancarlo Bassani, alto dirigente della Federazione Ciclistica e del CONI e, forte della sua passione per il ciclismo, gli chiedeva di aiutarlo ad entrare in quel mondo. «Sarebbe bastato poco, una parola al posto giusto con la persona giusta, ma mio zio era e resta un uomo di altri tempi. Uno di quelli che di raccomandazioni non ha mai voluto sentir parlare. Mi diceva: “Devi arrangiarti da solo. I successi si devono guadagnare, nessuno te li regala, nemmeno io”». Arzeni è cresciuto così ed è partito dal basso, dagli esordienti nel 1999, prima teneva in mano un cronometro e prendeva i tempi durante i test medici. «All'inizio non volevo ascoltare ciò che mi diceva mio zio. La verità è che aveva ragione su tutto. Quando vinci le tue prime gare ti senti un fenomeno e pensi di essere già arrivato. Facevo male questo lavoro: se avevo un ragazzo che vinceva due gare, credevo di aver scoperto il campione. Tendevo a giustificarlo su tutto ed a caricarlo di pressioni. Ero io stesso a danneggiarlo, involontariamente. Bisogna restare con i piedi per terra, soprattutto da giovani, altrimenti è la fine. Oggi zio ha ottant'anni, ma qualche consiglio glielo chiedo ancora».
Arzeni non è solo un direttore sportivo, è anche un preparatore e lavora con ragazzi e ragazze. «Le cose da dire, spesso, sono le stesse. Devono cambiare i modi. Quando comunichi non conta solo ciò che dici, conta soprattutto il modo in cui viene recepito. Le ragazze hanno un'altra sensibilità e devi tenerne conto. Io non ho una tattica nel parlare con loro, mi viene naturale perché nel tempo ho fatto mio quel modo di pensare e di sentire». Per questo, Davide Arzeni fa una differenziazione. Se nell'ambito maschile, alcuni suoi colleghi, respingono ogni amicizia con gli atleti, lui ritiene che nel femminile una parte di amicizia, di confidenza, sia imprescindibile. «Essere amici non significa non farsi rispettare. Ci può essere amicizia ed anche rispetto. La prima ti aiuta a capire, il secondo a tenere distinti i ruoli. Le ragazze hanno bisogno di qualcuno che le ascolti, che capisca i piccoli o grandi problemi della loro età, che si immedesimi. Se non provi a metterti dalla loro parte, non ci riuscirai mai e continuerai a vedere le cose a modo tuo. Non capirai e non verrai capito. Molte volte basta chiedere cosa c'è che non va. Solo quello». Forse per questo Chiara Consonni di lui dice che è un secondo papà. «Vedi? Con un padre c'è confidenza, può anche esserci amicizia, ma il rispetto non manca. Se devo escludere una di queste atlete da una prova, lo faccio lo stesso. Non è quella familiarità a frenarmi. Quella familiarità, però, fa in modo che si viva meglio il prima ed il dopo».
C'è l'approccio di gruppo e l'approccio individuale. «Alcune ragazze sono poli opposti pur avendo quasi la stessa età. Tu devi tornare a quell'età e capire cosa vogliono, di cosa si preoccupano o di cosa hanno paura. Tenendo presente il loro carattere e non dando nulla per scontato. Accettando anche che qualcuna non voglia aprirsi e resti più distaccata, non c'è nulla di male». Sensibilità che non è debolezza, che nulla toglie a grinta e coraggio. «Queste sono atlete toste. Allo Scheldeprijs, aveva nevicato il giorno prima e quella mattina erano previsti cinque gradi sotto zero. Non c'è stata una ragazza che ha pensato di non partire o di protestare».
L'altra chiave, per Arzeni, è il tempo. «Certe volte ripenso alle prime gare in Belgio. Le trasferte sono costose e le prime volte fatichi anche ad ottenere i rimborsi. Talvolta non li ottieni proprio. Succede come con la scuola, prima di far bene all'università, devi far bene al liceo. Noi abbiamo avuto il coraggio di portare questo gruppo in Belgio, già cinque o sei anni fa. Con il tempo e la pazienza siamo migliorati ed ora stiamo raccogliendo i risultati. Oggi si può dire con certezza: questo è un gruppo di valore. Verrà anche il giorno della laurea. Ne sono certo».
Arzeni ha anche una figlia di diciannove anni. «Non è stato il fatto di essere padre ad aiutarmi a fare questo lavoro, bensì è stato questo lavoro ad aiutarmi ad essere padre. Mia figlia non mi ha parlato di alcune cose di cui invece le atlete mi parlano. Si sa, con un padre c'è un poco di ritrosia, di vergogna. Così, volendo capire ho iniziato a chiedere alle atlete, a farmi aiutare da loro. E quello che non chiedevo provavo ad assorbirlo vedendo il loro comportamento. Dalla scelta del regalo di compleanno a scelte e temi più complessi».
Ma quali sono le differenze tra il ruolo di preparatore e di direttore sportivo e quale ruolo Arzeni sente più suo? «Credo il punto sia diverso. Sono entrambi ruoli complessi ma soprattutto è difficile svolgerli contemporaneamente e con le stesse atlete. Oggi ancor di più, visto che i compiti di un direttore sportivo non si limitano alla gara ma coinvolgono anche l'organizzazione. Per riuscirci devi lavorare con persone che si fidano ciecamente di te. Dovessi scegliere, credo sceglierei il ruolo di direttore sportivo, restando preparatore di poche ragazze. Se in Valcar arriva un'atleta che ha già un buon professionista a cui affidarsi, per me va bene. A patto che ci sia un confronto fra me e questo preparatore». Il motivo è presto detto ed ha radici profonde. «Quando si vince, per l'opinione pubblica i meriti sono sempre del direttore sportivo. Quando si perde, invece, le colpe sono del preparatore. Non so il perché, ma è sempre stato così. In realtà la linea di demarcazione non è così netta e bisognerebbe ripartire meglio colpe e meriti».
Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione dell'ufficio stampa Valcar-Travel&Service