Una nazionale e un’idea di ciclismo: intervista a Paolo Sangalli

Paolo Sangalli ha le idee chiare al termine del suo primo ritiro da Commissario Tecnico con la Nazionale Italiana Femminile: «Quando siamo arrivati in Spagna eravamo un gruppo volenteroso di crescere. Ora che ripartiamo siamo una squadra: è diverso». Capiamo subito che alla base del suo lavoro ci saranno alcune idee portanti a permeare il tutto: ad esempio quella di squadra. Sangalli racconta che un momento, in particolare, sarà delicato in questo percorso, quello delle convocazioni per gli appuntamenti importanti. Se riuscirà a far passare l’idea di team, quel momento sarà più semplice. «Se le ragazze escluse si sentiranno comunque parte di una squadra, lo accetteranno meglio. Il loro senso di appartenenza resterà tale e non sarà ridimensionato da una scelta. Ma, perché questo accada, devo essere bravo a farle sentire squadra, non gruppo. Questo non vuol dire che non debbano restarci male: chi ci resta male, ci tiene. E noi abbiamo bisogno di queste persone».

Il ritiro ha volutamente riunito un gruppo eterogeneo, dalle atlete più esperte alle più giovani, dalla pista alla strada. Qualcuna, Vittoria Guazzini, al rientro da un infortunio. Così deve essere per Sangalli. «C’è un valore particolare nello stare insieme: lo scambio. Penso alle giovani generazioni e alla facilità con cui sono abituate ad ottenere le cose. Qualcosa che viene dalla società, anche dalla tecnologia, dove un click apre un mondo. Vedere la difficoltà con cui Elena Cecchini o Marta Bastianelli sono arrivate dove sono arrivate e vedere lo spirito che continuano a metterci credo sia importante». Il rischio, continua il C.T., è che ci si abitui alla maglia azzurra quasi fosse un’abitudine. Sangalli è perentorio: non può succedere.

Anche per questo, nel 2022 sarà presente alla maggior parte delle gare internazionali di ciclismo. Un messaggio per le sue atlete e anche per le altre nazionali. «Sarà un ribadire che sotto la maglia della squadra di appartenenza, quella della nazionale deve restare sempre. Che non ci si può mai scordare di essere parte dell’Italia. Un messaggio per noi e per le altre nazionali. L’Italia è “la squadra”». Sangalli pensa a Olanda, Germania, Francia e Polonia, le nazionali che teme di più guardando al nuovo anno.

Una presenza che Sangalli ha iniziato a far percepire scegliendo di recarsi in prima persona nei luoghi in cui già erano presenti i ritiri delle squadre, quel “vado io da loro” che disegna i contorni della disponibilità di cui si torna a parlare più volte nella chiacchierata. Una presenza che, però, nulla deve togliere all’indipendenza.

Paolo Sangalli vuole crescere atlete indipendenti, che da sole siano in grado di seguire un programma di allenamento e, soprattutto, di capire se e quando è il caso di fermarsi. «Non si devono seguire a tutti i costi le indicazioni di un preparatore se non ci si sente bene. Basta fare una telefonata, mandare una mail, e il preparatore sarà il primo a dirti di aspettare a fare quel tipo di lavoro nel giorno in cui starai bene. Saltare un giorno di allenamento, alleggerire un carico, non è grave. È grave non essere capaci di farlo, è grave quel senso di colpa che si instilla quando non lo si fa, perché non ti rende indipendente, perché non ti fa conoscere te stessa». Anche perché, a livello percentuale, i giorni in cui gli allenamenti non vanno come devono andare sono molti di più di quelli in cui è tutto perfetto.

“Sai cosa accade? Ci si inizia a dare colpe e a dirsi che non si va, che non va bene. Invece no. Voglio che le mie atlete imparino che l’importante è fare il massimo che quel giorno ti consente. Poco o tanto che sia. Se, poi, in gara trovi una fuoriclasse non è colpa tua. Se hai fatto il massimo, puoi solo levarti il cappello. Van Vleuten si allena con gli uomini? Non tutte possono farlo e non deve nemmeno interessarci. Per Elisa Longo Borghini, ad esempio, è uno stimolo: “Quando la vedo, la stacco”. Lavoriamo su questo». In questo senso, la direzione Sangalli avrà due parole chiare: equilibrio e conoscenza. In tutti i campi.

A breve, Sangalli organizzerà anche una riunione con le atlete più giovani in cui, con l’aiuto di nutrizionisti, esporrà alcuni principi chiave in tema. «Se a gennaio si hanno due chili in più non è così grave. Come se si ha un chilo in più all’inizio di una corsa a tappe: c’è tempo per smaltirlo. Iniziamo a ridimensionare l’equazione magrezza eccessiva uguale a velocità. Non è sempre così. Con i chili si perdono anche watt e muscoli. Bisogna fare una valutazione singola e bandire certe idee prive di senso».

Il tutto sempre nell’ottica dello stare insieme e del parlare. Così la presenza in ritiro di Marco Villa e Marco Velo, che si occupano di pista e cronometro nel nuovo organico federale, è un altro tassello fondamentale. «Velo è tornato a ribadire la necessità di usare spesso la bici da cronometro, almeno settimanalmente. La competenza di Villa ci aiuterà moltissimo anche per la strada: un dietro motore su pista migliora la gamba molto di più di un dietro motore su strada». Attenzione particolare sarà riservata anche alla comunicazione: occorrerà essere diretti e giusti per riuscire a essere ascoltati. Con la consapevolezza che con ogni ragazza bisognerà adottare un metodo di comunicazione diverso, riconoscendone carattere e sensibilità. Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport, lo affiancherà dandogli indicazioni in tema per capire come cambiare approccio dove le cose non funzionassero. «Rendere tutti sereni è semplice, basta dire: “fate ciò che volete”. Questo, invece, sarà un ambiente sereno proprio grazie alle regole, ai ruoli e al loro rispetto».

Un esempio è significativo: «Qualche giorno fa, una ragazza ha preso una salita con troppa calma, così mi sono avvicinato. “Immagina di essere ad una classica importante: dopo questa salita ci sarà una discesa e poi uno sprint. Se non avessi la forza per lanciare la volata?”. In poco tempo si è riportata sulle compagne e in discesa era addirittura davanti alle altre. Il mio dovere è toccare le giuste corde».

A giugno si conosceranno i percorsi degli Europei, per quelli dei Mondiali, invece, qualcosa si può già prevedere: i primi trenta chilometri saranno in leggera discesa, poi una salita di sei chilometri con una pendenza non proibitiva se non nei primi due, ma «tutto dipenderà dalle volte in cui verrà ripetuta». Per questo ogni valutazione si sposta in avanti, con un punto fermo: siamo la nazionale che veste la maglia iridata. «A febbraio, con le più giovani ci sarà anche Elisa Balsamo. Mi immagino cosa possa significare per una ragazza di vent’anni allenarsi con la Campionessa del Mondo. Credo che quella vittoria abbia dato qualcosa in più a ogni ragazza che in ogni categoria riceva una convocazione».

Paolo Sangalli non si ferma qui, dagli anni in ammiraglia vorrebbe qualcosa in più. «Vorrei che nel ciclismo tornasse a esserci quella componente di poesia che abbiamo avuto per tanti anni e che ultimamente si è persa dietro ai dati. Alle nostre atlete e a chi ci segue vorrei portare anche questa consapevolezza, di tutto ciò che c’è dietro la fatica».

Foto: Bettini


Il ciclismo femminile e il bisogno di cambiamento

Ogni anno The Cyclists' Alliance (TCA) conduce un articolato sondaggio per fotografare lo status quo del ciclismo femminile.
Obiettivo dell’indagine è quello di mettere in evidenza le principali criticità su cui intervenire per arrivare finalmente ad una situazione paritaria, sotto molteplici punti di vista, fra uomini e donne nel ciclismo professionistico.
Da pochi giorni sono stati presentati i risultati del sondaggio condotto per il 2021, che riteniamo importante condividere con i nostri lettori.
Sono 97 le cicliste professioniste che hanno partecipato, con la seguente suddivisione per disciplina: 68% strada, 13% pista, 7% ciclocross, 7% mtb cross country, 4% mtb marathon e 2% eRacing. Delle cicliste su strada il 27% è costituito da atlete che fanno parte di team World Tour, mentre il 73% gareggiano in team Continental.

Queste le criticità più rilevanti, emerse dal sondaggio.

SALARI

L’86% delle intervistate pensa che i salari siano troppo bassi rispetto all’impegno richiesto per la pratica di uno sport come il ciclismo a livello professionistico.
Il numero di cicliste professioniste senza salario è aumentato dal 17% nel 2018 al 34% nel 2021.
A causa della mancanza di un salario minimo stabilito per le atlete delle squadre Continental continua ad aumentare il divario salariale fra atlete delle squadre WT e atlete delle squadre Continental.
L’ottenimento di un salario minimo garantito anche per le atlete delle squadre Continental è uno degli aspetti indicati come determinanti per le atlete, seguito dalla richiesta di una maggiore copertura da parte delle TV per le gare femminili.

ASPETTI CONTRATTUALI

Anche in ambito contrattuale è presente una marcata disparità di trattamento fra atlete WT e atlete Continental con tutta una serie di minori tutele per le atlete Continental. Per citare un esempio l’assistenza medica è prevista da contratto per il 94% delle atlete WT, mentre solo il 33% delle atlete delle squadre Continental può usufruire dei medesimi servizi.

SECONDO LAVORO E STUDIO

Molte atlete portano avanti la loro carriera di cicliste professioniste mentre svolgono un secondo lavoro per far fronte alle necessità finanziarie e/o si dedicano ad un percorso di studi per assicurarsi la possibilità di un lavoro al termine della loro carriera da atlete.
Delle atlete intervistate il 38% si dedica allo studio mentre porta avanti la sua carriera; il 39% svolge un secondo lavoro, il 14% combina studio e un secondo lavoro con la propria carriera sportiva.
Fra le atlete che hanno un secondo lavoro il 24% lavora meno di 20 ore alla settimana, mentre il 15% lavora più di 20 ore settimanali. Il 67% delle atlete che lavorano più di 20 ore la settimana lo fanno perché non ricevono un salario dal proprio team, mentre il 14% riceve un salario inferiore ai 5.000 euro all’anno. Occorre sottolineare che le atlete, che lavorano più di 20 ore settimanali, sono quelle con un più elevato titolo di studio (il 67% ha conseguito un master o un dottorato, il 20% ha una laurea), che consente loro di trovare occupazioni che permettono una maggiore autonomia e quindi sono più facilmente gestibili insieme agli impegni per gare e allenamenti.

IMPATTO DEL COVID19 SULLA STAGIONE 2021

Rispetto alla stagione 2020, l’impatto del Covid19 sulla stagione in corso è stato tendenzialmente inferiore, ma continua ad evidenziarsi un maggiore effetto negativo sulle atlete delle squadre Continental, rispetto a quelle WT.
Nel 2020 il 29% delle atlete era andata incontro ad una contrazione salariale o lo aveva perso del tutto, mentre nel 2021 solo il 5% delle atlete WT ha sperimentato una riduzione di salario e l’1% delle atlete di squadre Continental si è ritrovata senza salario a causa delle problematiche legate al Covid19.
Nel 2021 il 20% delle atlete di squadre Continental hanno dovuto sostenere autonomamente il costo dei test Covid19 necessari per i viaggi per partecipare alle gare, mentre per il 94% delle atlete WT afferma che le spese per i test Covid19 sono a carico del team e parte del contratto che le lega alla squadra.
----
La seconda e terza parte dell’indagine condotta da TCA, relative a temi legali, etici e culturali all’interno del gruppo, verranno presentate nelle prossime settimane e saranno oggetto di un successivo nostro approfondimento.


Orgoglio e uguaglianza: parola alle atlete

Nelle scorse settimane ha destato clamore la disparità di montepremi che Davide Ballerini e Anna van der Breggen si sono aggiudicati in Belgio per la vittoria della Omloop Het Nieuwsblad. L'italiano ha guadagnato 16.000 euro, mentre l'olandese solo 920 euro. Questo divario di montepremi, lo è anche di stipendi, non era certo una novità ma, si sa, la crudezza dei dati molte volte riesce a smuovere coscienze che i meri discorsi non arrivano a toccare.
A mettersi in moto è stato Cem Tenyeri, tifoso olandese, che, «disgustato dalla disparità di trattamento», lunedì primo marzo ha indetto una raccolta fondi attraverso la piattaforma GoFundMe per provare a eguagliare i montepremi in vista della Strade Bianche, proponendo poi la suddivisione del raccolto in percentuali prestabilite fra le prime cinque atlete giunte al traguardo. La risposta è stata impressionante ed in cinque giorni sono stati raccolti 25578 euro. Questo ha significato che il montepremi totale a disposizione delle prime cinque classificate è passato da 6.298 euro a 31.876 euro, andando a superare quello previsto per i colleghi uomini, fissato a 31.600 euro, e che, per citare un esempio, la vincitrice Chantal van den Broeck-Blaak, che avrebbe dovuto incassare 2.256 euro, in realtà ne incasserà 10.441, vedendo il proprio premio aumentato del 32%.

A caldo, Ashleigh Moolman Pasio, ciclista del team Sd Worx, ha subito commentato la vicenda, spiegando di essere commossa in quanto «è davvero toccante vedere che gli appassionati di ciclismo, in un periodo difficile come questo, siano disposti a rinunciare a denaro che servirebbe alla loro famiglia per metterlo a disposizione di una causa così nobile». L'entusiasmo, a dire il vero è stato generale, ed Elisa Longo Borghini ha fatto ben presto seguito a queste dichiarazioni introducendo un tema importante. L'atleta di Ornavasso, ringraziando i donatori, ha scelto insieme al suo team, Trek Segafredo, di destinare la propria quota a progetti che possano sostenere il ciclismo femminile sul lungo termine.

In Trek, non si è ancora deciso come e dove spendere questi guadagni, il passo è però importante per fare in modo che questa donazione possa cambiare qualcosa nella lunga strada verso la parificazione fra uomini e donne nel ciclismo. Già, perché la questione è ormai dibattuta da anni e la consapevolezza maggiore in gruppo è che non possa essere questa la via per migliorare la condizione del ciclismo femminile. Tra l'altro, proprio Trek Segafredo negli scorsi mesi aveva innalzato a 40.045 euro la paga minima prevista per le proprie atlete, andando così a eguagliare quella prevista per gli uomini secondo le tabelle UCI. Le stesse tabelle prevedono per le donne una paga minima di 20.000 euro e una legge, attesa da molto tempo, dovrebbe intervenire per ristabilire la parità.

 

Foto: Valerio Pagni/BettiniPhoto©2020

Il gesto lodevole di Tenyeri e dei donatori, se da un lato suscita ammirazione, dall'altro continua a lasciare l'amaro in bocca. Marta Bastianelli ci spiega: «Ringrazio di vero cuore tutti coloro che hanno donato e credetemi sono gesti che nessuna di noi potrà mai dimenticare. Però non posso fermarmi qui. Sono convinta che non si sarebbe mai dovuti arrivare a questo punto e che sia grave esserci arrivati. Abbiamo fatto un passo importante verso il ciclismo professionistico anche per noi donne, non possiamo perderci in queste cose. Ha detto bene Anna van der Breggen: è una vita che lottiamo per la parità salariale e di montepremi e ancora non è cambiato nulla. Per me e per le veterane del gruppo ormai non c'è più speranza di vedere questi risultati raggiunti mentre siamo in attività, spero solo ci sia per le più giovani. Siamo ancora troppo distanti dagli uomini e fa tanta tristezza pensarci. Credo che dovremmo ringraziare le atlete della Trek Segafredo perché, con la loro mossa, hanno scelto di essere lungimiranti e di fare qualcosa per il futuro di questo movimento. Spero che tutte assieme si riesca a portare un cambiamento».

Sofia Bertizzolo, raggiunta telefonicamente nel pomeriggio di ieri, aggiunge altri tasselli. «La situazione che si è creata ha fatto molto discutere e reso evidente, a chi ancora non la conoscesse, la condizione del ciclismo femminile. La stampa ha il dovere di parlarne per tenere accesi i riflettori su questa tematica. La soluzione non può essere nelle donazioni, non è questo il sistema per andare a pareggiare i premi delle gare. I finanziamenti di cui ha bisogno il ciclismo femminile vanno usati in altro modo: in primis per aumentare la visibilità del nostro sport. Se le persone ci seguono, se la televisione e gli organi di informazione ci raccontano, si innesta un circolo virtuoso per cui i montepremi ed i salari aumentano di conseguenza. Se si tiene davvero al ciclismo femminile, chi di dovere deve dargli la possibilità di crescere, prima dei soldi». Le fa eco Soraya Paladin: «Sono onorata del gesto. Però sembra tanto di fare elemosina e credo che nessuna di noi lo voglia. Queste persone sono state davvero di cuore ma non è loro dovere intervenire per aiutarci, spetta ad altri. Così facendo il montepremi della Strade Bianche sarà eguagliato e tutti gli altri? Quello delle gare minori? Altra questione: alle squadre fuori dal circuito World Tour non pensa nessuno? Non si può pensare di proseguire e di crescere solo grazie alla benevolenza di poche persone, che normalmente nemmeno si occupano di ciclismo».

Katarzyna Niewiadoma si sofferma invece sul senso di cura e di attenzione che questo gesto mette in risalto. «È incredibile vedere quante persone hanno provato a prendersi cura di noi senza essere obbligate a farlo. Siamo rimaste tutte sorprese. Io, in particolare, sono rimasta meravigliata da quante persone siano interessate al movimento femminile. Sia chiaro: non dobbiamo aspettarci che il cambiamento, che tanto desideriamo, avvenga tramite donazioni, però siamo certe che quando avverrà, quando i media ci daranno più spazio e quando la nostra esposizione mediatica sarà maggiore, il pubblico sarà lì per noi. La gente è affezionata a noi, ce lo ha dimostrato. Solo a pensare a questo sto bene».

Alice Maria Arzuffi comprende benissimo questa sensazione di Niewiadoma, ma non riesce a nascondere una certa tristezza: «Il gesto è molto apprezzato e dimostra che i tifosi hanno capito bene la disparità che ci troviamo ad affrontare. Siamo nel 2021, negli ultimi anni siamo cresciute moltissimo, il nostro ciclismo non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di sette, otto anni fa, ma ci vediamo ancora costrette a ricorrere alla solidarietà. Noi donne non chiediamo solidarietà. Noi vogliamo vengano riconosciuti i nostri meriti. Questo, per esempio, non avverrà mai fino a che le gare femminili verranno trasmesse in differita e solo per i chilometri finali. Ce ne rendiamo conto?».

Intanto uno studio di Damm Van Reeth, professore della Facoltà di Economia e Commercio di Leuven, ha sottolineato come in termini assoluti la gara femminile abbia raccolto più ascolti di quella maschile. In termini di cifre parliamo di uno share del 21,5% per le donne, contro il 18,6% per gli uomini. Ora bisogna passare ai fatti perché di parole se ne sono spese davvero troppe.

Foto in evidenza: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021


Il grido di Alfonsina Strada

Partiamo da qui. Partiamo da quel giorno del 1924 in cui Alfonsina Strada si presentò alla sede de "La Gazzetta dello Sport" chiedendo di poter partecipare al Giro d'Italia. Strada aveva già ricevuto tre rifiuti ma in quell'anno la richiesta venne accettata nonostante la contrarietà di alcuni organizzatori che temevano che questa scelta potesse finire per caratterizzare il Giro come una pagliacciata. La ragione del cambio di rotta fu di natura molto pragmatica: molti atleti avevano disertato la corsa, fra gli altri Girardengo e Bottecchia, e quel Giro d'Italia rischiava di avere una lista di partenti decisamente povera. Allora Alfonsina Strada era un "buon espediente" per alzare le luci sulla corsa. Solo quello, non illudiamoci. Tanto più che nelle liste ufficiali degli iscritti il nome venne riportato variato: chi scrisse Alfonsin Strada e chi, senza remore, Alfonsino Strada.

Perché siamo partiti da qui? Per un motivo molto semplice. Tempo fa, raccontando questa vicenda e sottolineando i grossi passi da fare per l'emancipazione femminile, qualcuno alzò la mano e ci disse: «Sono passati quasi cent'anni. Non vorremo fare paragoni?». Quel gentil signore suscitò in noi una riflessione. Ed è vero, le cose sono cambiate. C'è però un problema: sono cambiate, migliorate, senza dubbio, ma non si sono completamente aggiustate. In quel tempo, che non è nemmeno così remoto, almeno si agiva in determinati modi con la consapevolezza dei fini delle proprie azioni, fini spregevoli sia chiaro, oggi invece si agisce senza più la consapevolezza delle discriminazioni di genere che alcuni pongono in essere ed anzi talvolta con la fierezza di chi quella parità di genere la ha raggiunta. O ancor peggio, per gli uomini, di chi quella parità la "permette", come se le donne dovessero attendere il cenno del capo di un uomo per sentirsi libere o per agire. I comportamenti sono, forse, meno gravi. Quello che invece resta grave è l'inconsapevolezza. Già, perché, in fondo, non c'è nulla di peggio di questo.

Raccontare la storia di Alfonsina Strada assume un senso particolare se quel racconto può, in qualche modo, cambiare la nostra realtà quotidiana. Come? Per esempio attraverso l'acquisizione di qualche consapevolezza che ancora ci manca e che può aiutarci a smascherare ogni "concessione" travestita da parità di genere, ogni comportamento che, sotto sotto, bercia al maschilismo fingendo buone intenzione, ogni dettaglio, ma forse neanche troppo dettaglio, che fa la differenza quando si parla di donne.

Serve raccontare, per esempio, di come Alfonsina iniziò ad andare in bicicletta, su un mezzo definito "ai limiti del rottame" perché le famiglie privilegiavano i maschi, perché anche il ciclismo privilegiava i maschi. Di quella discriminazione, piccola agli occhi dei contemporanei, perché "cosa vuoi che sia? Una ragazza può fare altro", di tutto quello che avrebbe potuto togliere ad Alfonsina Strada e di tutto quello che sicuramente ha tolto a tante altre ragazze che avevano sogni simili a quelli di Alfonsina.

È bello raccontare la fatica che Alfonsina Strada dovette fare per convincere gli organizzatori e per partecipare al Giro di Lombardia nel 1917. Arrivò ultima, a più di un'ora e mezza dal vincitore, ma arrivò. Serve raccontarlo perché, se al posto di Strada, ci fosse stata un'altra donna, se quella donna si fosse arresa all'idea degli uomini, probabilmente la nostra quotidianità sarebbe infinitamente diversa. Alfonsina Strada non lo fece. Alfonsina Strada che a quel Giro, quello a cui non la volevano, quello a cui la fecero passare per un maschio, lottò ad armi pari con gli uomini per otto tappe e cedette solo a una caduta e a dolori per cui molti si sarebbero ritirati. Lei venne mantenuta in corsa, pur se non in gara, e al Guerin Sportivo dichiarò: «Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa, una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa dieci lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato cinquecento lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene». Spediva ogni vaglia al marito e alla figlia e andava avanti, nonostante tutto, perché sapeva di aver fatto bene.

Una recente ricerca di Cyclist Alliance evidenzia dati allarmanti rispetto alla situazione del ciclismo femminile: il numero di atlete con uno stipendio pari a zero euro è aumentato dal 17% nel 2019 al 25% nel 2020. A seguito della pandemia da Covid-19, il 29% delle atlete ha subito una riduzione dello stipendio. Più di cento ragazze hanno partecipato al sondaggio ed il 43% di loro ha affermato di aver rimborsato la propria squadra per attrezzature, assistenza medica, assistenza meccanica e costi di viaggio. Il 33% è costretta a svolgere un secondo lavoro per mantenersi.

Tutte ragazze che continuano a svolgere il proprio lavoro al meglio. Ragazze che fanno bene e che la bicicletta, nonostante tutto, fa stare bene. Per quanto tempo sarà ancora possibile tutto questo? Quanti anni dovranno ancora passare? Conviene sbrigarsi. Anche le storie più importanti rischiano di essere inutili se si continua a fingere di non sentirle.

Foto: The documentary