Il quadruplo Everesting di Zico

Giacomo Pieri è un artigiano, un carpentiere. Gli amici lo chiamano Zico, forse anche in qualche cantiere. Zico, sin da ragazzo, andava nei cantieri e, quando tornava a casa, pensava che avrebbe voluto essere uno sportivo ma «come fa un artigiano a fare sport ad alti livelli?». Perché gli artigiani arrivano a casa stanchi la sera, di testa e di fisico, non possono permettersi tanti fronzoli.
«Quando parlo con i ragazzi vedo che hanno fame di traguardi da raggiungere. Però hanno anche la stessa mia paura di non farcela, quella che mi faceva dire che un artigiano come me non sarebbe andato da nessuna parte, perché presi in tante faccende, in tante aspettative da rispettare. Spesso non ce la facciamo perché siamo distratti, perché, in fondo, siamo i primi a non credere a ciò che vogliamo fare». Zico, pur di crederci, lavorava in cantiere a Terni dalle sei del mattino e andava ad allenarsi alle tre di notte.
Pensate che due anni fa ha effettuato il quadruplo Everesting. Ha pedalato per circa sessantacinque ore, sul Monte Petrano e ha raggiunto un’altitudine pari a quattro volte quella dell’Everest. Ci è riuscito, eppure parla del valore della sconfitta. «Quando sono riuscito a far diventare lo sport una parte del mio lavoro, il mio ego ha iniziato ad espandersi. Così fiero di me. La realtà è che quell’ego ti impedisce di crescere, perché per non ferirlo accetterai di fare solo ciò che lo accrescerà». Solo dieci anni fa, Pieri non avrebbe nemmeno iniziato l’Everesting, perché ce lo dice: «È molto più facile non riuscire che riuscire e un egocentrico non lo accetta».
La svolta a Zurigo, quando, nel 2012, un virus gli impedì di prendere parte a un evento che aveva preparato per mesi. Quel virus non era casuale, il suo corpo era indebolito da tutte le paure che si portava dietro, da ciò che non sapeva fare. «Alla base del Monte Petrano, forse, avrei dovuto concentrarmi e non parlare con nessuno. Ogni tanto gli atleti fanno così prima di una prova importante. Io invece cercavo le persone, cercavo di parlare con loro. Ciò che successe in Svizzera accadde perché vivevo male il mio essere atleta, mi concentravo sulle cose sbagliate. Dopo averlo tanto voluto, rovinavo tutto».
Così Zico sa che la sconfitta accade, ma il percorso resta. E quel percorso è fatto soprattutto di conoscenza di ciò che non sei e non sarai mai. In psicologia la chiamano anticipazione del negativo. Non è pessimismo, è consapevolezza. «Sono partito con un infortunio al piede a causa di un chiodo, sul lavoro. Però sono partito lo stesso. Se il mio corpo non ce l’avesse fatta, mi avrebbe dato segnali per fermarmi e l’avrei ascoltato. È sbagliato, però, ascoltare una mente che cerca scuse per non provarci nemmeno. Che, proteggendoti dalla delusione, ti fa chiudere».
La seconda notte la crisi di sonno, dura, brutta. Ma Zico se l’aspetta, sa che arriverà e, proprio per questo, sa anche che passerà. «Devi dirti la verità, a qualunque costo. Un uomo che dorme quaranta minuti in una notte e continua a faticare, prima o poi, va in crisi. L’errore è negarlo o sperare che non accada. L’illusione che tu sia diverso dagli altri. Devi sapere che ti accadrà e passerà».
Oggi che tutti gli dicono che è “l’uomo del quadruplo Everesting” lui risponde parlando del concetto di fatica, che cambia nel tempo e che il suo primo lavoro, quello di artigiano, gli ha fatto conoscere nei meccanismi più fini. La fatica principale, forse, è quella del confronto con se stessi, accettando la possibilità che non si sia capaci di fare quella cosa, che non ci si riesca o che non ci si riesca ancora. Per arrivare a capire che, prima dell’Everesting, bisogna ricordare altro: «La fatica maggiore è quella mentale. Quando stai facendo la prima scalata e pensi alla seconda, quando vivi proiettato a ciò che accadrà. Non serve scalare l’Everest quattro volte, ma serve capire che, se non buttiamo energie per ciò che non possiamo cambiare, avremo molta più possibilità di faticare per ciò che, invece, possiamo modificare. E da cambiare, attorno, c’è molto».