La festa di Filottrano e Girmay
L’arco che porta al centro di Filottrano conduce ad un’altra dimensione: la festa. Qui usano molto questa parola: «Facciamo festa» e apparecchiano un tavolo con bicchieri e piatti di plastica, pane, salame e una bottiglia di vino rosso. Insieme. Si aprono le porte dei negozi per far spazio a più persone sul ciottolato del centro e la corsa è davvero ovunque. Un universo parallelo legato al paese come i palloncini che vengono liberati al passaggio del gruppo, che sono legati ai polsi delle persone ma, in realtà, sono le persone a essere legate a quei palloncini. Per come li guardano mentre orgogliose li lasciano volare via e vi dicono: «Questo è il mio paese».
Parlare di Michele Scarponi è difficile o forse sin troppo facile. «Era come noi» ed oggi ci sembra più vero che mai. Perché abbiamo rivisto queste persone mentre fanno un occhiolino, mentre guardano la corsa in un bar e non riescono a non commentare, mentre gesticolano, anche mentre dicono tutto in maniera così spontanea che ti chiedi se, poi, non sia più semplice. Persino nelle rughe di espressione che ricalcano le forme che il viso prende spesso: il piacere e la fatica. Mentre gridano per l’arrivo del gruppo che è ancora lontano ma chiunque passi lì in mezzo si sente atteso. E Pavese aveva ragione: da ragazzi si può pensare che il proprio paese sia il centro del mondo, girando tanto, poi, ci si accorge che tutti i paesi sono così perché il mondo è fatto di paesi. Quanto ti eri sbagliato? Quanto avevi ragione?
Il gruppo va via da qui mentre poco più in là, nei bar, si parla della fuga ripresa e i ragazzini prendo i gelati e li scartano in piazza. I giornali sui tavoli, aperti, spalancati e sfogliati e il classico odore della carta assieme al suono della lattina Coca Cola che viene aperta. «Vuole vincere per Michele» dice il proprietario quando Nibali prova ad allungare. «Gliel’ho detto io» aggiunge indicando la moglie. E appena scatta qualcuno ci si mette in punta di sedia, si appoggiano i gomiti sul tavolo e si proietta il corpo in avanti, come un ciclista su una salita, meglio su un muro o uno strappo da queste parti.
Lo stesso accade sul bancone del bar mentre Biniam Girmay parte in volata e Mathieu van der Poel gli prende la ruota. Sembra quasi un percussionista van der Poel, un percussionista che per unico strumento ha la bicicletta, insiste e si gasa mentre il suo viso prende proprio la forma dello sforzo. Deve cedere prima del tempo perché Girmay è sempre più avanti e qualunque movimento sembra inefficace. Cede alla sua maniera: quella degli attacchi folli, delle imprese incredibili, dei colpi geniali e delle batoste. Si siede e alza il pollice: «È tua». Poi lo abbraccia.
Si parlava di paesi. Asmara, la città natale di Biniam Girmay, è certamente più grande di Filottrano ma è comunque un paese, una città, e somiglia agli altri perché ti permette di essere aspettato, di riconoscerti, di riconoscere.
Accade a Girmay, il primo ciclista africano di colore a vincere una tappa al Giro d’Italia, che nei suoi tifosi riconosce le sue stesse epressioni, i modi di fare e persino di gioire. Accade a Filottrano, in cui, dopo la corsa, le persone tornano al lavoro e lo fanno con la stessa dignità, lo stesso orgoglio, con cui hanno festeggiato. Insieme. E chi manca, nel paese, è atteso e non manca mai del tutto.