A testa alta nonostante tutto: intervista a Gianni Savio
Gianni Savio compirà settantatré anni fra poco più di un mese, il 16 aprile per l’esattezza. Quasi la metà di questo periodo, Savio lo ha trascorso nel ciclismo, da quel corso per team manager organizzato dalla Federazione Ciclistica Italiana a cui partecipò nel lontano 1985. Per questo le sue parole, mentre si siede al tavolo con noi, sono un pugno allo stomaco, in primis per i suoi collaboratori. «Non so se proseguirò, forse lascio il ciclismo».
La ferita che brucia è quella dell’esclusione della sua squadra, l’Androni Giocattoli-Sidermec, dal Giro d’Italia 2021 e a nulla sembrano servire le parole di chi, al suo fianco, gli riporta alla mente ciò che è riuscito a fare in questi anni nel ciclismo: scoprire nuovi talenti, ingaggiarli, regalargli una nuova vita qui, dopo averli scoperti in Sudamerica, certe volte ricostruirgli una carriera dopo periodi bui.
«Quello che dicono sarà anche vero, ma a cosa è servito? Se la squadra che ha fatto tutto questo non viene ritenuta degna di partecipare al Giro d’Italia, per chi abbiamo lavorato? Lo so, lo so, la gente se n’è accorta, la gente crede in noi ed io gliene sono grato, ma per mandare avanti una realtà di questo tipo servono sponsor importanti e gli sponsor guardano al calendario gare a cui si partecipa per finanziare un progetto. Fino a che si segue una logica meritocratica, ti rimetti in piedi e continui a tenere duro cercando di portare più risultati, se cade il merito, cade tutto. Diventa una lotta contro i mulini a vento e contro quelli si perde sempre».
Savio ce lo dice chiaramente: è il non essere in grado di trovare una motivazione logica a non farlo stare tranquillo. «Quando qualcuno mi spiegherà perché a noi è stata preferita la Vini Zabù, allora forse mi metterò il cuore in pace. Ma voglio una spiegazione oggettiva, perché io ragiono sui dati ed è dai dati che si valuta il merito. Il fatto che soggettivamente si sostenga di essere stata la migliore squadra in questa o quella circostanza è ininfluente. Anche io potrei dire così di Androni, e ne sono anche convinto, ma non lo faccio. Perché sarebbe una valutazione di parte. L’ho detto e lo ripeto: il problema non è tanto il mancato invito al Giro, il problema sono i criteri di scelta se portano a escludere una squadra che da quattro anni è la migliore italiana tanto della Ciclismo Cup, quanto del ranking Uci in favore di un team che in quella classifica è sempre arrivato dopo di noi».
Gianni Savio è un leone ferito, ma l’orgoglio non sente ragione. «Alla mia età non mi tiro più indietro di fronte a ciò che non è giusto. Credo la dignità sia un valore. Continuerò a difendere le mie ragioni anche se questo dovesse voler dire uscire dal ciclismo. A me piacciono le persone che possono camminare a testa alta e guardare tutti dritti negli occhi. Mi costa dolore immaginarmi lontano dal ciclismo, sia chiaro, ma non sono più disposto a tollerare l’ipocrisia di parte di questo mondo».
Accanto a Savio passa Simon Pellaud, gli mette una mano sulla spalla e lo saluta con un disarmante e disarmato: «Ciao Gianni». Savio lo ha soprannominato “Simonissimo” e ci racconta che con lui qualche battuta scappa sempre. Poi riprende: «Comunque non ho detto che smetto, ho detto che devo valutare». Il tono della voce cambia, come lo sguardo. «Se deciderò di non lasciare, sarà solo per questi ragazzi. Sono come figli per me e so quanto sarebbero dispiaciuti. Non devono essere loro a pagare questa situazione. Non ho nemmeno idea di cosa potrei fare se lasciassi il ciclismo. Io vivo pensando a loro. Quando qualcosa non va, mi sveglio la notte e rimugino, penso, programmo».
Stiamo per porre un’altra domanda, quando Savio estrae dalla tasca il telefono. «Guarda qui. L’altro giorno ho fatto gli auguri di compleanno a un mio atleta di qualche anno fa. Ecco la risposta: “Grazie Gianni. Sai che, se hai bisogno, puoi contare su di me”. Questo ti ripaga di tutti i sacrifici e ti convince a farne anche di più importanti, perché per questi ragazzi vale la pena».
Alla base del rapporto, ci spiega Savio, c’è l’onestà intellettuale. «Io metto sempre in guardia gli atleti dalle illusioni e dall’ossessione per la vittoria. Le illusioni ti intrappolano, non ti permettono di vedere la realtà: non c’è cosa peggiore per un uomo. L’ossessione per la vittoria è cosa diversa dal voler vincere, che è buona dote per uno sportivo. Quando si è ossessionati dalla vittoria si perde lucidità, qualche volta si è disposti a commettere errori intollerabili, pur di vincere. In certi casi si arriva a giocare sporco. Ho sempre detto chiaramente ai miei ragazzi sino a dove, secondo me, sarebbero potuti arrivare. Alcuni lo hanno accettato, altri hanno preferito correre da chi assecondava quelle illusioni. Credo poi i risultati parlino chiaro».
Intanto si continua per la propria strada e Gianni Savio ha già un pensiero fisso. «Ho scoperto un ragazzo che credo possa segnare il ciclismo dei prossimi anni: si chiama Santiago Umba e presto lo conosceranno tutti meglio. L’ho portato in Italia e sta iniziando a conoscere i meccanismi di questa squadra. In questi giorni sono molto arrabbiato, ma pensare alle possibilità di questo atleta mi rasserena. Sarebbe un peccato non poterlo seguire nella sua crescita. Vedremo».
Foto: Luigi Sestili