Ma un Giro d'Italia, quando lo vinceremo di nuovo?

Per ovvi motivi il 2020 è stato un anno differente dal solito, ma per quanto riguarda il valore del ciclismo italiano nei Grandi Giri, è proseguita la costante tendenza degli ultimi anni che oscilla verso il basso. Dato che la narrazione ciclistica dalle nostre parti ruota perlopiù attorno ai risultati nelle grandi corse a tappe, abbiamo deciso di prendere in esame il movimento italiano nella sua massima espressione agonistica proprio in virtù di quello che è stato ottenuto nelle gare di tre settimane.
È vero: le grandi classiche o i mondiali, le vittorie nei traguardi parziali o nelle volate, hanno fascino e importanza, ma la tradizione vuole che ci si scaldi principalmente per le imprese in maglia gialla di Nibali, per gli scatti in salita di Pantani o Chiappucci, per la maglia rosa di Gianni Bugno, senza nulla togliere ai buoni risultati raccolti negli anni nelle altre corse. E non è solo una questione di tradizione, è anche il termometro dell’espressione di una scuola, quella del ciclismo italiano, che fino a qualche anno fa esprimeva diversi corridori di valore assoluto e che ora per vari motivi si è vista superare da altre nazioni.

Giro d’Italia: cartina tornasole del movimento

Giro d’Italia 2020 – Tappa da Alba a Sestriere  Wilco Kelderman in maglia rosa, subito a ruota Vincenzo Nibali. Chi raccoglierà l’eredità del siciliano? Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

Nella Corsa Rosa della passata stagione è arrivato il peggior risultato di sempre per i corridori italiani in classifica generale con il settimo posto di Nibali – tra i primi dieci anche Masnada, nono. Oltretutto è stata una corsa decimata prima dalle assenze e poi, strada facendo, dai ritiri di alcuni possibili protagonisti.

Mai, prima di allora, il migliore italiano in classifica si era trovato così in basso. E non va dimenticato come il risultato peggiore, prima di quello arrivato nel 2020, fosse stato il quinto posto di Pozzovivo nel 2018: due risultati intervallati dal podio del solito Nibali nel 2019, unico italiano nei dieci in quell’edizione: alle sue spalle il migliore azzurro fu Formolo, quindicesimo. Se ci spostiamo ancora di due anni: nel 2016 vinse Nibali, ma il migliore dietro il siciliano fu Visconti, tredicesimo, risultato acquisito principalmente grazie alle fughe.

Usando la “corsa di casa” come cartina tornasole del ciclismo italiano, non possiamo derubricare il cammino dell’ultima stagione come un’annata difficile o un incidente di percorso; si tratta più di una tendenza in voga ormai da tempo e con le sue eccezioni, vedi il 2017. Quell’anno, oltre al podio di Nibali, terzo, interessanti furono il sesto di Pozzovivo e il decimo di Formolo, in un’edizione di buon livello, in quanto a concorrenza internazionale, di sicuro tra le migliori degli ultimi vent’anni di Corsa Rosa.

Giro d’Italia 1993 – Claudio Chiappucci in maglia verde e Miguel Indurain in maglia rosa – Foto: BettiniPhoto©2010

Nelle altre occasioni in cui il ciclismo italiano non metteva nessun suo rappresentante sul podio si era riuscito a piazzarlo a ridosso: quarto Scarponi nel 2012, stessi risultati per Chiappucci nel 1995 e Giupponi nel 1988. Andò peggio, come nel 2018, nel 1987: quinto Giupponi, ma subito alle sue spalle Giovannetti, sesto.

E per trovare un risultato simile bisogna scavare negli annali e scorrere indietro fino al 1972: ancora nessun italiano sul podio, né ai piedi. Il migliore? Panizza, quinto, nel Giro dominato da Merckx. Quella però fu la prima volta in assoluto senza italiani sul podio dopo ben cinquantaquattro edizioni. Per l’epoca non fu che un’eccezione. Il biennio ’87-’88, invece, resta la prima e unica volta di due Giri consecutivi senza un rappresentante del ciclismo italiano tra i primi tre – l’impressione è che, se potessimo osservare il futuro prossimo nella sfera di cristallo, un destino simile si potrebbe prefigurare per il biennio 2020-2021, salvo exploit al momento difficilmente prevedibili.

Giro d’Italia 1988 – Siamo sul Gavia nella Chiesa in Valmalenco – Bormio di 120 km. Davanti Flavio Giupponi (ITA – Del Tongo) a ruota Chioccioli in maglia rosa.  Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2010

Nei due Giri del 1987 e del 1988, nonostante le indubbie qualità di Giupponi, che dopo i due quarti posti sarà secondo nel 1989, si viveva un momento di transizione. Si era pressoché chiusa l’epoca di Moser e Saronni (un po’ prima quella di Battaglin e di uno dei più grandi incompiuti del nostro ciclismo, Baronchelli) e si stava per aprire quella di Bugno, Chiappucci e Pantani – senza dimenticare Gotti che vinse due Giri in chiusura di secolo – per poi arrivare velocemente negli anni duemila ai successi nella Corsa Rosa di Garzelli, Cunego, Simoni, Di Luca, Savoldelli e Basso.
Proprio oggi, come a fine anni ’80, stiamo invece vivendo un cambio generazionale, anche se il mondo ciclistico è decisamente mutato e non solo dal punto di vista tecnologico. Muta la sua geografia e il peso specifico del movimento italiano, e oggi appare più difficile trovare da subito la svolta come avvenne negli anni ’90, dove, senza addentrarci in altri – spinosi – argomenti, l’Italia del pedale conobbe alcune delle vittorie più memorabili della propria storia.

Anni duemila: un contesto particolare

Tour de France 2010 – Si arriva a Bagnéres-de-Luchon. La grinta di Basso che chiuderà lontano dai migliori quel Tour. Foto: BettiniPhoto©2010

Nelle edizioni degli anni duemila del Giro, gli italiani vincevano, dominavano, ma i loro avversari non rappresentavano certo l’élite del ciclismo internazionale – per usare un eufemismo. Spesso gli sconfitti erano passisti dal profilo non di primissimo piano per una corsa a tappe, vedi Honchar, Hamilton o Gutierrez, oppure erano giovani speranze come nel caso di Popovych o Andy Schleck. I vincitori italiani di quelle edizioni erano corridori di grande spessore, non lo mettiamo in dubbio, ma inseriti in un contesto sempre più tourcentrico e dove il Giro veniva perlopiù relegato a gara di secondo piano – rispetto al Tour – e il meglio del ciclismo dei Grandi Giri si dava appuntamento fisso oltralpe un mesetto più tardi. E difatti i corridori italiani facevano incetta di podi e vittorie “tra le mura amiche” salvo poi essere un piatto poco più sostanzioso di un contorno – all’infuori di Basso – in Francia.

Giro d’Italia 2005 – Col delle Finestre – Paolo Savoldelli in maglia rosa.  Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2011

E in Francia Savoldelli vinse una tappa (nel 2005) e corse persino come gregario di Armstrong, ottenendo un venticinquesimo posto come risultato migliore, mentre Simoni rimbalzò tutte le volte che provò a testarsi al Tour, salvo conquistare un prestigioso successo di tappa nel 2003. Il suo miglior risultato in classifica fu il diciassettesimo posto l’anno successivo.
Garzelli non fece mai meglio di un quattordicesimo posto nel 2001, invece Cunego mostrò nella Grande Boucle solo sprazzi del suo enorme talento: undicesimo nel 2006 quando conquistò la maglia bianca al termine di una lotta serrata con il carneade tedesco Fothen,  mentre nel 2011 arrivò sesto al termine di una corsa di grande livello e che all’epoca veniva persino criticata e sottovalutata e che oggi, visti i risultati dei suoi eredi, si arriva a rimpiangere.
Infine, per restare ai vincitori del Giro d’Italia degli anni 2000: Di Luca partecipò a due Tour e si ritirò entrambe le volte, ma per caratteristiche l’abruzzese, discorso doping a parte, non era del tutto adatto alle corse a tappe e si reinventò uomo da tre settimane solo in un secondo momento.

Giro d’Italia 2015 Saint Vincent – Sestriere Sul Colle delle Finestre  Alberto Contador danza in rosa. Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2015

E arrivarono così la bellezza di undici successi consecutivi al Giro, dal ’97 di Gotti al 2007 di Di Luca, fino al 2008 quando sulle strade italiane si presentò, per vincere, uno dei più forti corridori in assoluto della storia recente: Alberto Contador, che si ripeté poi nel 2011 – successo poi revocato – e nel 2015. Mentre resta emblematico e spartiacque dei Giri d’Italia successivi, quello del 2012. Ci fu un podio tutto straniero ma occupato per due terzi da corridori che mai più avrebbero ottenuto un risultato simile e né lo avevano sfiorato prima: Hesjedal (primo) e De Gendt (terzo). Spartiacque perché fu un Giro di non eccelso livello dal punto di vista della partecipazione, però, a differenza di quello che succedeva qualche anno prima, l’Italia non riuscì a vincere, né a piazzare un corridore sul podio nonostante la presenza dei maggiori esponenti del nostro ciclismo delle corse a tappe di quegli anni: Scarponi, Basso, Cunego e Pozzovivo – pur se tutti e quattro in momenti differenti della loro parabola. Tutti i migliori italiani presenti tranne Nibali, che da par suo ottenne il suo primo podio al Tour. Si affacciarono a quel Giro 2012 corridori all’epoca più o meno giovani e che potevano rappresentare nell’immaginario il futuro per le corse a tappe: Brambilla che chiuse tredicesimo e Caruso ventiquattresimo. Cambieranno, però, gli obiettivi, i risultati e i ruoli in carriera e nessuno di loro sarà mai capace di lottare non solo per la maglia rosa, ma nemmeno per un posto vicino, trasformandosi in corridori con altre caratteristiche e prospettive.

Giro d’Italia 2011 – Sotto il Duomo di Milano Contador festeggia la vittoria del suo secondo Giro. Gli verrà tolto tempo dopo e assegnato a Scarponi. Secondo diventerà Nibali, terzo Gadret. Foto: BettiniPhoto©2011

Nel decennio appena trascorso (2011-2020) un solo corridore ha conquistato a tutti gli effetti la maglia rosa finale, Nibali, vincitore nel 2013 e nel 2016. E a rendere ulteriormente pesante lo storico degli italiani ecco che solo altri due atleti negli ultimi anni sono riusciti a salire sul podio oltre al siciliano: Scarponi nel 2011 – tempo dopo gli fu attribuito il successo di quel Giro per la squalifica di Contador – e Aru nel 2014 e nel 2015.

Ed è pesante proprio il confronto tra i primi due decenni degli anni 2000. Tra il 2001 e il 2010 il ciclismo italiano ha portato a casa otto Giri su dieci, lasciando per strada solo quelli del 2008 e del 2009 con 19 podi, ottenuti da 12 corridori diversi, su 30 disponibili. Dal 2011 al 2020 invece tre successi se vogliamo considerare anche quello assegnato a tavolino a Scarponi e 8 podi, ottenuti da 3 corridori, su 30. È vero che in questi anni è aumentata la concorrenza straniera, ma allo stesso tempo è diminuita la potenza di fuoco di quella italiana. Ed è emblematico in questo il Giro del 2020, dove, a un parterre non esagerato per la lotta al podio, l’Italia non è riuscita a opporre alcuna controparte.

Tour e Vuelta

Tour de France 2014 Sugli Champs Elysees Vincenzo Nibali festeggia uno dei successi più importanti dello sport italiano del decennio appena trascorso. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2014

Se volessimo invece in breve considerare anche le altre due corse a tappe, si parla, anche a livello storico, di cifre assolutamente differenti, come se trattassimo un altro tipo di esercizio: dal ’65 a oggi sono tre le vittorie finali al Tour con Gimondi, Pantani e Nibali, e sedici podi con lo stesso Gimondi, Balmamion, Motta, Bugno, Chiappucci, e ancora Pantani, Basso e Nibali, mentre alla Vuelta i successi sono sei in tutta la storia, con quelli ottenuti negli anni 2010 da Nibali e Aru. E proprio per questo motivo, per chiarire meglio le difficoltà, occorre principalmente parlare della corsa di casa, quella che più di ogni altra riscalda il sentimento popolare italiano.

Carta d’identità e faticoso cambio generazionale

Giro d’Italia 2017 – Domenico Pozzovivo in compagnia di Zakarin in fuga verso Piancavallo. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2017

Fatti un po’ di numeri facciamo i nomi. Intanto identifichiamo subito nell’età avanzata dei protagonisti uno dei problemi che affronteremo anche in questo 2021 e poi successivamente nel 2022, salvo l’improvvisa esplosione di qualche interessante talento – che per inciso c’è. Nibali compirà 37 anni a novembre, Pozzovivo 39, eppure sono loro due i corridori che hanno ottenuto i migliori risultati nelle ultime stagioni. Pozzovivo, oltretutto, con una serie di infortuni anche abbastanza gravi che ne hanno condizionato il rendimento.

Gli altri corridori che andremo a nominare, per motivi diversi, non danno garanzie per un successo finale, per un podio o qualcosa di molto vicino ad esso. Eppure sono quelli che nell’ultima stagione hanno ottenuto i risultati migliori alle spalle del siciliano della Trek-Segafredo. Sono tutti professionisti di caratura importante, non c’è dubbio, ma pare difficile immaginarli a raccogliere l’eredità del corridore messinese.

E i perché vanno ricercati non solo nell’elevata competizione che anno dopo anno si sta facendo sempre più serrata e che coinvolge elementi di diverse nazioni, ma anche nel ruolo che i corridori italiani ricoprono all’interno dei propri team, e che a lungo andare ne condizionano la possibilità di potersi esprimere per la vittoria, modificandone le prospettive.

Tour de France 2020 – Damiano Caruso è uno dei gregari più affidabili in salita di tutto il gruppo. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

È il caso di Damiano Caruso, corridore di talento, ma da sempre votato alla causa altrui. Diciamocelo francamente: un conto è essere abituati a lottare per un successo o per un podio, oppure crescere per gradi con l’obiettivo di svettare poi nelle parti alte della classifica; un altro discorso è passare una carriera compiendo grandi sforzi in aiuto ai propri capitani e poi, nel momento della disputa decisiva, sfilarsi andando del proprio passo al traguardo. L’abitudine al successo, facendo il gregario, manca.

Il siciliano, classe ’87, ha fatto le sue scelte di carriera, più che opportune, ovvero mettere le sue grandi qualità a disposizione dei propri capitani e nonostante tutto ha raccolto risultati di prestigio. L’ultimo in ordine di tempo è forse il più interessante: 10° al Tour de France 2020, sebbene esemplare nel suo lavoro in appoggio al capitano Landa. Nonostante la sua affidabilità, tuttavia è difficile immaginarcelo capitano da un giorno all’altro e pretendente al podio da qui alle prossime stagioni. Certo manca la controprova, ma cosa sarebbe potuto diventare Caruso se si fosse messo in proprio? Non lo sapremo mai.

Giro d’Italia 2020 Se Fausto Masnada fosse lasciato libero di fare la sua gara, potrebbe ambire a un posto nei primi 5 del Giro? Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2020

C’è poi Fausto Masnada: il secondo migliore italiano in un Grande Giro nel 2020. È un classe ’93, ha una carriera davanti, e il Giro di pochi mesi fa è stata la sua prima vera prova con ambizioni di media classifica. Se a grinta Masnada non è secondo nessuno, il bergamasco pare voglia ripercorrere le orme di Caruso. «Mi rivedo molto in Damiano Caruso» racconta lui stesso ai microfoni di Giada Gambino su Bici.pro «Credo sarà proprio questo il mio ruolo nei prossimi anni».

Masnada è un attaccante nato, come Caruso si difende bene in salita, ma non ai livelli dei migliori in assoluto; come Caruso vince poco – anche se al momento ha raccolto qualcosa in più. Come Caruso ha ottenuto una bella top ten nel 2020 pur avendo sgobbato come un forsennato per aiutare il suo capitano al Giro. Anche per lui, almeno sulla carta, si prospetta un 2021 nel quale lo vedremo ancora lavorare per il capitano designato. Gli potrebbe venire incontro la condizione di quest’ultimo, ovvero Evenepoel. Qualora il belga non dovesse dare grandi garanzie di forma dopo l’incidente del Lombardia 2020, e Almeida fosse confermato verso il Tour, magari al corridore italiano della Deceuninck-Quick Step potrebbero toccare davvero i galloni del capitano. Attendiamo curiosi.

Tour de France 2012 – Ivan Basso e Vincenzo Nibali, gli ultimi due italiani sul podio del Tour: pronto il passaggio di consegne. Foto: BettiniPhoto©2012

A conferma della tesi esposta poco sopra prendiamo in esame la parabola di Nibali: il siciliano dopo anni di apprendistato in maglia Liquigas – attenzione: apprendistato non gregariato – sulle orme di Ivan Basso, è cresciuto progredendo stagione dopo stagione andando a conquistare poi i successi che tutti conosciamo. Certo, quando parliamo di Nibali, parliamo di un grande talento, ma quello da solo, se non coltivato, non basta. Il passaggio da talento a campione passa da tanti piccoli fattori che condizionano la carriera di un corridore. Per lui questi fattori sono stati, oltre alla classe, anche la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto e la bravura di essersi messo in proprio giocandosi le sue chance. E ha funzionato alla grande.

Il caso di Pozzovivo poi, in proporzione al talento, non è così diverso. Il lucano, passato tardi nel World Tour, dopo una lunga militanza con le squadre dei Reverberi, ha (quasi sempre) potuto giocarsi le sue carte e così facendo, dal 2007 al 2020, esclusi i ritiri, solo una volta è uscito dai primi 20 della classifica di una grande corsa a tappe, ottenendo risultati di prestigio e con una certa continuità: sei top ten, tra cui due quinti e due sesti posti tra Giro e Vuelta. E difatti nel decennio appena alle nostre spalle è di sicuro stato il corridore più costante dopo Nibali, anche se gli è sempre mancato l’acuto necessario o quel podio che ne avrebbe coronato la carriera.

Non solo uomini-squadra

Davide Formolo: tutta la grinta del mondo.

Non può mancare Davide Formolo in questo elenco. Il classe ’92 della provincia di Verona dopo essersi testato diverse stagioni come uomo di classifica ha capito che il suo meglio lo potrebbe dare nelle corse di un giorno impegnative – un campionato italiano vinto e un podio alla Liegi e alla Strade Bianche non mentono, così come le cavalcate trionfali in una tappa del Giro del Delfinato 2020 e in una della Volta a Catalunya 2019.
Jonathan Vaughters nel 2015, a inizio stagione si sbilanciò: «Davide Formolo vincerà sicuramente un Giro d’Italia» disse alla Gazzetta dello Sport. E quelle aspettative sono diventate un po’ la croce della narrazione attorno al corridore. Quell’anno Formolo vinse una tappa al suo esordio al Giro con quello che, secondo noi, è il suo vero marchio di fabbrica, la fuga da lontano su percorsi misti. Ha grinta, tempismo, tiene bene in salita e quando lanciato all’attacco sa far valere un motore di livello: tutte caratteristiche ideali per trasformarsi definitivamente in un corridore capace di togliersi quelle due tre grosse soddisfazioni a stagione, piuttosto che navigare a vista per un ottavo, decimo posto nella classifica generale di un Grande Giro. Fino a oggi a Formolo, che ha tuttavia ottenuto alcuni piazzamenti in classifica tra Giro e Vuelta, ma senza acuti, è sempre mancato quel salto di qualità in una corsa a tappe di tre settimane, a causa magari di una giornata storta dove perdeva tempo in classifica, oppure a prestazioni a cronometro non in linea con i più forti. Tutto questo con buon pace della profezia di Vaughters.

Ciclocross Madignano 2021 – Fabio Aru impegnaot nel ciclocross: che 2021 sarà il suo?  Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021

Su Fabio Aru, invece, superfluo spendere più parole di quelle che si leggono in giro ed è doveroso quindi ampliare il discorso che lo riguarda a tutta la sua generazione di corridori. Quelli nati tra il 1989 e il 1991 – con l’eccezione di Roglič e in attesa di capire Quintana – che sembrano stati spazzati via dal nuovo che avanza. Aru, come Pinot, Bardet, Barguil, Chaves, mettiamoci dentro il Dumoulin delle ultime stagioni, Landa, corridori con un ottimo palmarès, ma che per un motivo o per l’altro si guarderanno indietro un giorno con l’impressione di essere stati quasi degli incompiuti. Certo è che il sardo tra 2014 e 2017 fu capace di risultati di enorme prestigio: vince la Vuelta 2015, due podi al Giro (2° nel 2015 e 3° nel 2014), un 5° posto sempre alla Vuelta (2014), un 5° posto al Tour (2017), con tanto di vittoria di tappa e maglia gialla indossata, mentre nel 2016 sempre in Francia, saltò per aria il penultimo giorno di corsa mentre si trovava sesto in classifica a poco più di un minuto e mezzo dal podio di Quintana. Sembra passata un’epoca per noi, figuriamoci per lui che ancora annaspa alla ricerca di un se stesso in bicicletta che forse mai più ritornerà.

Giro d’Italia 2020 – Per qualcuno Giulio Ciccone sarà la nostra punta per i prossimi anni nei Grandi Giri. Ma il forte scalatore abruzzese deve ancora dimostrare di essere a livello dei migliori per giocarsi una classifica generale. Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2020

Giulio Ciccone è il più giovane tra i corridori sin qui nominati (è un dicembre ’94): chi scrive stravede per l’abruzzese ma giudica il tentativo di puntare su di lui per le corse a tappe al momento azzardato. A costo di prendere una grossa cantonata: Ciccone dovrebbe confrontarsi con i migliori corridori nelle corse di un giorno impegnative – tagliatissimo per certi percorsi come il Lombardia, il trittico delle Ardenne, ma anche diverse semi classiche del calendario – e abbandonare le velleità di alta classifica.
Potrebbe prendere le misure nelle brevi corse a tappe provando fughe e vittorie parziali, e poi nei Grandi Giri essere libero di esprimere l’indole battagliera senza restare ingessato per un piazzamento da primi dieci posti, ma non da podio. Felici di essere smentiti: ma a ora non riusciamo a immaginarci Ciccone capace di lottare per una vittoria (o un podio) al Giro o alla Vuelta, figuriamoci al Tour. Eventualmente ne avremo la contro prova al Giro di quest’anno. La concorrenza è spietata, il livello nelle ultime stagioni si è alzato notevolmente e Ciccone appare un gradino sotto rispetto a corridori come Bernal, Pogačar, Roglič, Carapaz, Mas, persino paradossalmente a un Evenepoel che un Grande Giro non lo ha mai corso, ma anche ai vari López, Thomas, Sivakov, Geoghegan Hart, Landa.

Vuelta Espana 2020  Mattia Cattaneo sempre in fuga alla Vuelta – Foto: Luis Angel Gomez/BettiniPhoto©2020

Infine si potrebbe inserire in questa lista anche Mattia Cattaneo per il quale però vale un discorso differente da tutti gli altri. È l’ultimo vincitore italiano del Giro Under 23, passò subito nel World Tour in maglia Lampre ma più che le caratteristiche, le opportunità o i ruoli in squadra a frenarne l’ascesa è stata tutta una serie di problemi fisici. Dopo l’ottimo ultimo anno in maglia Androni (2019), Cattaneo si è guadagnato un contratto con la Quick Step provando, dopo un anno complicato dall’ennesimo infortunio, a fare classifica alla Vuelta. Ha chiuso al diciassettesimo posto, migliore degli italiani, sfiorando un paio di volte il successo di tappa. Difficile, però, oggi, a trent’anni già compiuti, immaginarlo in un ruolo differente dal gregario – seppur di lusso.

I motivi della crisi

Ma non si parla solo di numeri o di nomi. Detto di come influenzino negativamente i risultati i ruoli in squadra e la scarsa abitudine a lottare con l’eccellenza nelle fasi importanti, un’altra causa è che, banale a dirsi, si vive un momento storico sfavorevole. Un momento in cui, dopo Nibali, manca un campione assoluto – e sottolineiamo campione, non talento – capace di tenere testa ai migliori. Un momento in cui il movimento ciclistico italiano non è riuscito a dare alla luce uomini da grandi corse a tappe in grado di scontrarsi con tutta una generazione di corridori stranieri.

Alaphilippe conquista il mondiale a Imola. La Francia si è sbloccata nella corse di un giorno, ma ancora non riesce a trovare un uomo per le corse a tappe. (Foto: Luigi Sestili)

La forte concorrenza nei Grandi Giri che arriva dagli paesi stranieri è un altro fattore: non sono più le solite tre, quattro nazioni a dominare il ciclismo. E difatti, ma non è questa la sede giusta per parlarne, non è che altre nazioni “storiche” come Francia e Belgio se la passino meglio rispetto a noi, anzi. Anche se, soprattutto dal Belgio, stanno arrivando talenti che prima o poi saranno capaci di sfatare alcuni tra i tabù più lunghi della storia del ciclismo – il loro ultimo Grande Giro vinto risale al 1978. Sono tornati gli olandesi e arrivano in vetta con costanza inglesi e australiani, sloveni, colombiani ed ecuadoriani, tutte nazioni che dicono la loro nel nuovo assetto geopolitico mondiale e dove l’Italia mostra carenze a livello strutturale, con le proprie metodologie di crescita e di avvicinamento al mondo dei professionisti che evidentemente non funzionano più così bene come un tempo. Un po’ come se fossimo rimasti a guardare gli altri crescere cullandoci nella tradizione, convinti che bastasse per fare risultato.

C’è poi una questione che potremmo definire generazionale: i corridori passati negli ultimi anni nella massima categoria, lo hanno fatto dopo aver disputato poche o quasi nessuna corsa a tappe nelle serie giovanili. Questo pone un margine di svantaggio soprattutto nel confronto con i loro coetanei; si effettua il grande salto senza aver mai sviluppato né testato quelle caratteristiche fondamentali per imporsi nell’esercizio delle tre settimane: fondo, resistenza e recupero. E spesso quando ci si ritrova a lottare contro i pari età si prendono sonore sberle.

Giro dell’ Appennino 2019 – Giovanni Aleotti in maglia Cycling Team Friuli. Su di lui in tanti pronti a scommettere – Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2019

Nelle ultime stagioni, però, la tendenza si sta invertendo grazie ad alcune squadre dilettantistiche o Under 23 che stanno intensificando la loro attività all’estero in aggiunta al rilancio o alla nascita di corse a tappe nostrane. I frutti non si vedono ora, li vedremo semmai fra qualche stagione.

Davide Cassani, su Cyclingpro, spiegava a fine Giro 2020: «Io credo che, il non avere un dopo Nibali, non è un problema nato oggi, ma le conseguenze di un qualcosa che è mancato anni fa. Mi spiego: dal 2012 al 2016 in Italia, la categoria Under 23 aveva in calendario una sola corsa a tappe, il Val d’Aosta. Il Giro d’Italia giovani ed altre gare a tappe erano sparite. Cosa vuol dire? Che le nostre squadre dilettantistiche, ottimamente organizzate ma in grado solo di gareggiare in Italia, avevano a disposizione un calendario non all’altezza e questo ha abbassato il livello della categoria. Mentre nel resto del mondo i ragazzi correvano a destra e a manca facendo esperienze fondamentali alla loro crescita, noi ci siamo chiusi a correre in Italia. Ma se negli anni ’90 avevamo 7/8 corse a tappe che tenevano alto il nostro livello, in seguito sono sparite ed il nostro movimento ne ha subito le conseguenze. Credo che, anche per questo motivo, non abbiamo, per il momento, il dopo Nibali perché non siamo riusciti a preparare nel modo giusto i nostri giovani nel passaggio al professionismo. E abbiamo perso una generazione di scalatori».

Per diversi anni in Italia difatti era sparito persino il Giro dei dilettanti (con tutte le sue denominazioni e formule, Giro Bio, Giro Under 23, ecc.) fondamentale vetrina di talenti per i giovani azzurri che riuscivano così a misurarsi con i coetanei più forti. Da quando è stato riportato in auge (2017), nessun italiano ha vinto la classifica finale e solo lo scorso anno, con il terzo posto di Colleoni, un corridore di casa è riuscito nuovamente a salire sul podio dopo otto anni – l’ultimo Aru, secondo nel 2012.

Un problema di World Tour

Campionati del Mondo Limburg/Valkenburg 2012 – Liquigas impegnata nella Cronosquadre – Foto: Graham Watson/BettiniPhoto©2012

Ci sono poi problemi legati alla mancanza di sponsor e di investimenti che hanno portato all’uscita totale dal World Tour delle squadre italiane. Non è un caso che gli ultimi vincitori di un Giro d’Italia o lo hanno fatto in Liquigas oppure sono cresciuti lì. La Liquigas possedeva una struttura e una filosofia ideale, che ha permesso a un corridore come Nibali di maturare per gradi, senza pressioni esagerate legate al tutto e subito, con un programma da seguire, un contratto a lunga durata e senza il rischio di bruciarsi come spiegato benissimo in questa intervista dall’ex Team Manager Roberto Amadio. Un Nibali cresciuto oltretutto attorno a un capitano di spessore come Basso dal quale ha potuto carpire i segreti del mestiere. La stessa Lampre, l’ultima World Tour italiana, ha visto la parabola completa di un certo Cunego, uno dei più grandi talenti del nostro ciclismo degli anni duemila. L’uscita di scena di queste due squadre è stato un danno che tutt’oggi stiamo ancora pagando.

Si tende a pensare che la mancanza di squadre World Tour sia solo la punta dell’iceberg delle difficoltà del nostro ciclismo, mentre in realtà è proprio da qui che a cascata derivano tutti i problemi. L’assenza di World Tour italiane significa meno corridori italiani che passano nel mondo dei professionisti, ma anche meno attenzione ai corridori italiani, meno ragazzi che hanno la possibilità di misurarsi e di fare del ciclismo un mestiere vero e proprio – non tutti riescono a navigare sino a 27/28 anni tra i dilettanti con un rimborso spese o con i premi gara – significa un effetto domino che porta all’abbandono precoce dell’attività, significa, come fa l’ Uroboro, innescare un processo dove senza un corridore italiano di vertice non si riesce a vendere il prodotto ciclismo e di conseguenza non si raccolgono grandi investimenti. Significa che il ciclismo non viene nemmeno più preso in considerazione come lavoro per il futuro.

Al Giro della Regione Friuli Venezia Giulia del 2020 nessun italiano non solo è salito sul podio, ma è entrato nelle prime dieci posizioni. Le ultime tre edizioni sono state vinte da tre grandi talenti del ciclismo mondiale: Pogacar, Champoussin e Leknessund.

Per Giorgio Furlan, attuale tecnico della General Store, squadra Under 23, «Oramai mancano corridori di valore perché il bacino da cui attingere è sempre più in diminuzione, ci sono tante corse in realtà, ma non bastano quelle. In Veneto abbiamo centocinquanta junior: siamo ai minimi storici». Mentre Christian Murro, ex corridore e ora organizzatore del Giro del Friuli dilettanti aggiunge: «Il problema è che gli allievi sono trecento: dove finisce quella metà? Dobbiamo capire perché tutti questi ragazzi smettono».

E poi, come accennavamo, manca un talento di livello assoluto, che deve ancora nascere o non lo abbiamo ancora visto arrivare (e a Ganna per il momento lasciamo fare benissimo quello che sa fare), oppure bisogna coltivarlo fra i tanti nomi interessanti e trasformarlo in campione. Perché bisogna avere la capacità, la pazienza, i mezzi per prendere questi talenti, costruirli e farli crescere. Bisogna dare loro la possibilità di esprimersi e misurarsi con i pari età stranieri.

Marco Pantani, sempre. Foto: BettiniPhoto

Certo è che diminuiscono i praticanti, che meno ragazzi vanno in bici e meno si iscriveranno a una società ciclistica. E meno ragazzi che praticano significa meno possibilità di attingere a un bacino dal quale possa emergere un futuro talento. Il giornalista inglese Herbie Sykes in un recente articolo sulla crisi del ciclismo italiano nei Grandi Giri, apparso sul magazine Pro Cycling, riporta alcuni dati che fanno capire qual è la situazione nel nostro paese. «Nel 2019, l’anno in cui British Cycling ha raggiunto 150.000 iscritti, la sua controparte italiana ne aveva 103.124. Di questi, 31.000 hanno affermato di essere giudici di corsa e organizzatori, e circa 41.000 gareggiavano tra gli amatori. L’Italia ha perso il 12% dei suoi corridori competitivi in tre anni, e due terzi del suo gruppo professionistico dal 1999». Sykes si riferisce al 1999, precisamente ai fatti di Madonna di Campiglio al Giro, perché per lui sono un po’ il grande spartiacque della parabola del nostro ciclismo. «La caduta in disgrazia di Pantani provocò un esodo di capitali, corse e interessi» scrive. Uno scotto che paghiamo ancora oggi.

Non è solo un fattore agonistico

La Festa della Bicicletta a Madrid nel 2018- Foto: Luis Angel Gomez/BettiniPhoto©2018

Ci sarebbe da analizzare l’esasperazione delle categorie giovanili, ma questo, oltre a coinvolgere tutto il mondo del ciclismo e non nello specifico solo quello italiano, è un argomento che tratteremo un’altra volta. Scavando più a fondo nei concetti, invece, e ribaltando la prospettiva, per Silvio Martinello il problema sta alle fondamenta, nell’educazione e nella cultura. «Alla mancanza di sicurezza che sta minando alla base il movimento» afferma in una recente intervista apparsa su www.bikeitalia.it l’ex campione olimpico su pista. «È un tema centrale: il ciclismo su strada sta attraversando un momento di crisi epocale per via della mancanza di sicurezza sulle strade. Basta guardare le corse giovanili dove il 90% dei partecipanti provengono da famiglie in cui si parla già la lingua del ciclismo, non si riesce più ad intercettare nessuno di nuovo. Più ciclisti per strada significa più sicurezza per tutti e un bacino di utenza più ampio che aumenterà anche la quantità e la qualità degli agonisti. È un concatenamento di fattori che abbiamo già visto altrove in Europa, in Germania o in Gran Bretagna per esempio, dove si è agito sulla sicurezza con determinazione e questo ha comportato anche un miglioramento dei risultati sportivi». Chi di voi, appassionato di ciclismo, manderebbe a cuor leggero il proprio figlio per strada a praticare questo sport? Urge in questo senso un intervento forte da parte delle istituzioni. E a proposito di basi: allargando il dibattito per un secondo, l’impressione è che in Italia lo sport non sia più al centro del discorso. non sia più un fattore di importanza culturale, né politica, né educativa. Magari ci si fa belli quando si contano le medaglie – finché dura – grazie a tecnici preparatissimi, come lo sono quelli del ciclismo, ma è un modo per continuare a nascondere i problemi. A scuola si parla quasi niente di sport, della sua storia e delle sue capacità educative come fosse argomento frivolo e di poco conto, ma soprattutto lo si insegna poco e male, come riportato da questo dettagliato dossier di Maurizio Mondoni.

Che futuro?

Gran Piemonte 2020 Ancora Giovanni Aleotti, qui in maglia azzurra, in azione. Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2020

Torniamo, per concludere, al lato strettamente agonistico della faccenda. Siamo arrivati a un evidente cambio generazionale. La storia vive di cicli – mai immagine fu più appropriata – e chissà che in questi anni, come successe proprio a fine anni ’80, non possa esserci un passaggio di consegne. Il dopo Moser-Saronni ha visto la velocissime parabola di Visentini e Chioccoli, ma poi ha conosciuto Bugno, Chiappucci, Pantani, Gotti: non servono presentazioni per i nomi citati. Ci sono stati Simoni, Savoldelli, Basso e poi Nibali (e Aru, anche lui protagonista di una parabola intensa quanto rapida). E ora si guarda al futuro per capire chi possa raccogliere l’eredità.

È un contesto liquido: le difficoltà della generazione di quei corridori che adesso hanno dai 25 ai 32 anni circa, potrebbero non essere più le difficoltà di quei corridori arrivati nelle ultime stagioni o che devono arrivare. Grazie al cambio di filosofia di diverse squadre giovanili i volti nuovi del ciclismo italiano sembrano pronti a raccogliere il testimone.

Road World Championship Innsbruck – Tirol 2018 – Alessandro Fancellu vola verso una medaglia al mondiale di Innsbruck. photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2018

Fra i più interessanti ecco Aleotti, Colleoni, Fancellu, Piccolo e Tiberi. Aleotti è quello che negli ultimi anni da Under 23 ha ottenuto i risultati più incoraggianti. Il secondo posto al Tour de l’Avenir nel 2019, al cospetto del meglio in gara nel panorama internazionale, è una base importante da cui partire, per un corridore che ci viene dipinto dai suoi tecnici non solo come uno dal gran motore, ma come uno con la testa fatta per primeggiare.

Colleoni è stato il migliore italiano all’ultimo Giro Under 23 e, come Aleotti, ha da subito la possibilità di cimentarsi nel World Tour con una squadra importante – Aleotti nella BORA-hansgrohe, Colleoni nel Team BikeExchange. E poi ancora Fancellu, scalatore della EOLO-Kometa, che secondo il suo Team Manager Basso ha tutte le qualità per emergere persino come fuoriclasse del ciclismo.

2019 Road World Championship Yorkshire – Antonio Tiberi: campione del mondo a cronometro tra gli junior nel 2019. Foto Luca Bettini/BettiniPhoto©2019

Tiberi e Piccolo, rispettivamente con Trek-Segafredo e Astana da questo 2021, hanno qualità importanti, ma andranno anche loro fatti crescere con grande calma e per gradi, anche perché, a conti fatti, non hanno ottenuto risultati di rilievo tra gli Under 23 nelle corse a tappe. C’è poi Conca, il quale però sembra, parole sue, voler raccogliere il testimone delle fughe vincenti da De Gendt, nonostante tra 2019 e 2020 abbia ottenuto risultati importanti nella categoria Under 23 in alcune corse a tappe di prestigio. Tra quelli che già stanno correndo tra i professionisti almeno dall’anno scorso, vanno seguiti Bagioli (Andrea) e Covi, che però, nonostante i risultati tra gli Under nelle prove a tappe, sembrano decisamente più tagliati per le corse di un giorno, mentre Conci e Fabbro, dopo qualche stagione di apprendistato, devono ancora dimostrare tutto nei Grandi Giri. Anche se per loro potrebbe valere quel discorso di crescita graduale di cui si parlava prima. D’altra parte, come dice il detto colombiano: non tutte le arance maturano allo stesso tempo.

Certo, per questi corridori lo scontro sarà duro e da essere un buon prospetto a diventare un vincitore del Giro d’Italia ce ne passa. Oltretutto stiamo vivendo uno dei momenti più floridi a livello di competitività nelle corse a tappe. Il livello è altissimo. I corridori appartenenti alla stessa generazione dei giovani italiani menzionati sono Bernal o Pogačar, che hanno già vinto un Tour, oppure Mas o Gaudu che hanno già dato segno di poter lottare al vertice, senza dimenticare Geoghegan Hart o Hindley, primo e secondo al Giro 2020. La strada da fare è ancora molto lunga, probabilmente passeranno anni di risultati ancora peggiori rispetto al 2020. Ma il futuro non possiamo che guardarlo con gli occhi pieni di fiducia.

Foto in evidenza: Gio Auletta / Pentaphoto